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Leggendo “Zapping di una femminista seriale” di Federica Fabbiani

“Una donna deve continuamente guardare se stessa”, scriveva John Berger in Modi di vedere (1972, trad. it. 2015), per evidenziare come la “sostanziale apparenza” del femminile nella tradizione figurativa occidentale incidesse sui modi in cui le donne facevano esperienza di sé prima di tutto in quanto rappresentazioni. Una condizione di immaginità sostanziale [to-be-looked-at-ness] denunciata qualche anno dopo da Laura Mulvey (1975) quale strategia per precludere allo sguardo femminile l’accesso all’esperienza attiva e al piacere della visione. Le prospettive molteplici offerte della produzione televisiva contemporanea mostrano fortunatamente che la rappresentazione malestream, cioè quella che inchiodava l’oggetto-donna alla fissità dello stereotipo (come mancanza o come eccesso), ha finalmente lasciato spazio a una pluralità di punti di vista. A partire da questa considerazione, in Zapping di una femminista seriale (Ledizioni, 2018), Federica Fabbiani si addentra nel mondo delle personagge seriali tracciando una provvisoria cartografia in cui si domanda non solo se esista una trama femminista nella serialità, ma soprattutto se sia possibile, o piuttosto se e in che termini abbia senso, cercare uno sguardo femminile come possibile alternativa allo sguardo maschile.

Sex and the City è stata la prima serie televisiva a sdoganare il desiderio femminile e la ricerca di empowerment delle sue protagoniste, ma anche a circoscrivere tutto questo entro il recinto di un esasperato materialismo bianco e alto-borghese certamente non rivoluzionario sul piano sociale. Quali strade ha percorso Carrie Bradshaw (interpretata da Sarah Jessica Parker) tra uno stiletto Manolo Blahnik e una balconette effetto supervolume come quello che indossa oggi, trascorsi vent’anni, nel revival-spot di Intimissimi? Cosa significa quando dice che è riuscita ad avere successo “senza cambiare mai”? Si tratta ancora della stessa scena? E dove si colloca la spettatrice quando il personaggio afferma di vestire “semplicemente i propri panni”,[1] adesso solo un po’ più cheap che chic? Insomma, si chiede Fabbiani, possiamo davvero archiviare Carrie Bradshaw?

Indubbiamente stiamo assistendo a un re-styling di quel femminismo pop che la studiosa Angela McRobbie individuava negli anni Novanta: un femminismo mediatizzato veicolato da slogan che, strizzando l’occhio alla società dei consumi, sarebbe evoluto nell’individualismo depoliticizzato del postfemminismo. Oggi, da una parte c’è Chiara Ferragni che sceglie di sposarsi in Dior perché la direttrice della maison, Maria Grazia Chiuri, “ha portato un’allure completamente diversa al marchio per comunicare un messaggio sul nuovo ruolo delle donne, sul femminismo”: facendo, per esempio, sfilare in passerella modelle in t-shirt (poco importa quanto costose e quanto poco pagate alla manodopera) con scritte come “We should all be feminism”, o “Why have there been no great women artists”[2]. Dall’altra, in varie parti del mondo le donne manifestano contro le restrizioni alle leggi sull’aborto vestite col mantello rosso e la cuffia bianca come Difred, la protagonista de “Il racconto dell’ancella”, serie di successo tratta dall’omonimo libro di Margaret Atwood di cui si è già parlato qui e la cui storia presenta non poche analogie con l’involuzione del nostro presente.

E tuttavia viene da chiedersi: è sufficiente indossare le orecchie rosa di un femminismo ad alto tasso di iconicità, che troppo spesso però invisibilizza il proprio passato – nel libro di Atwood rappresentati dalla relazione di Difred con la madre, per nulla sviluppata nella trasposizione televisiva – e riduce la militanza a una rivendicazione dei “diritti umani” fondamentali? Che ne è stato della messa in guardia verso le politiche dell’inclusione, quelle forme subdole di “sopraffazione legalizzata” rappresentate dal femminismo dell’uguaglianza denunciato da Carla Lonzi, che Fabbiani giustamente ricorda?

Facendo zapping fra le diverse serie di cui discute, l’autrice ci ricorda che la genealogia femminista non è leggibile in modo lineare, s’inceppa, si costruisce per interpolazioni e deviazioni, riprese e scarti, in un richiamarsi continuo fra i tempi stratificati della realizzazione, della narrazione e della visione. Da un lato ci sono le serie che presentano un focus più storico-documentario, cioè quelle che raccontano la storia delle conquista dei diritti civili e politici, non sempre facilmente reperibili per il pubblico italiano e di cui Fabbiani offre un’interessante panoramica (persino uno sceneggiato su Anna Kuliscioff prodotto dalla Rai nel 1981, che però si concentra sulle relazioni d’amore della protagonista a discapito della sua attività politica). Dall’altro ci sono serie, pur diversissime tra loro per produzione, genere e ambientazione, da cui emergono tuttavia alcuni temi ricorrenti: il corpo e la sessualità, la famiglia, la maternità, il lavoro, la norma e le differenze, la violenza maschile e quella istituzionale.

Capita spesso, nota Fabbiani, che il modo in cui questi temi trovano sviluppo sia come “smussato” edulcorando o tralasciando i fatti e privato della dimensione più politica delle parole e delle azioni femministe, che prevalga il tono intimistico o una prospettiva individualistica, che i personaggi femminili s’incontrino senza riuscire a dar vita a una dimensione davvero collettiva, e che quelli maschili siano più accondiscendenti ed evanescenti di fronte alle rivendicazioni delle personagge di quanto non accada nella realtà. Ma capita anche che la sessualità e il piacere femminile (cisgender e non) acquistino espressione e visibilità, che la maternità sia vista in tutta la sua problematicità e polivalenza, che la fragilità e la paura di non essere all’altezza non siano più difetti da nascondere né tantomeno vezzi momentanei, che la meta non sia l’integrazione, e che le conquiste di alcune siano mostrate accanto all’esclusione di altre.

Sempre attenta a mettere in rilievo l’eterogeneità e le ambiguità della televisione seriale che prende in esame, Fabbiani non racconta soltanto le storie di ciò che ha visto ma, come è proprio della cartografia femminista, anche lei stessa che guarda e dichiara la propria ottica posizionata (e per questo sempre mobile), non a caso presente già nel titolo del libro. In quanto spettattrice lesbica e femminista, che non si sente pienamente a proprio agio nella logica ancora binaria del female gaze, Fabbiani dialoga con la sua interlocutrice interrogandola e interrogandosi, senza imporre mai la propria ottica, semmai esponendola, come la protagonista di Fleabag (serie del 2016) quando rivolta in camera interpella la spettatrice, dandoci delle parole e delle immagini il suo personale vissuto. “Il femminismo” infatti, scrive Fabbiani, non è mai solo storia, ma “lente di osservazione attraverso cui passare in rassegna scontri e negoziazioni, vittorie e sconfitte, decessi e resurrezioni”.

Esiste, dunque, uno sguardo femminile? No, se come tale si intende un modo di guardare riconducibile al sesso biologico. Esiste uno sguardo di genere? Sì, nella misura in cui lo si intenda come la prospettiva dei corpi diversamente posizionati rispetto alle norme che ne producono e regolano l’identità. Esiste uno sguardo femminista? Sì, se questa prospettiva si trasforma in assunzione consapevole di un posizionamento resistente, che interferisce con la rappresentazione e la complica, piuttosto che rivelarne un senso unico.

È quello che accade guardando attraverso il caleidoscopio di Transparent (la cui trasparenza è infatti tutt’altro che tale), la serie di Jill Soloway, di cui esistono al momento quattro stagioni (2014-2017), in cui attorno alla transizione del genitore Maura Pfefferman si muovono le identità e le relazioni fluide dei tre figli Ali, Sarah e Josh, mentre la differenza sessuale diventa solo uno dei modi possibili per attraversare i confini che separano o uniscono variamente i personaggi, diversi per genere, educazione, classe, etnia, fede religiosa. Con Transparent, forse davvero per la prima volta sul piccolo schermo, trova spazio uno sguardo femminista non limitato alla sola questione del genere, ma attento alle intersezioni molteplici dell’oppressione – e ai suoi posizionamenti mai lineari – grazie a una rappresentazione schietta, al contempo caustica e toccante, in grado di consentire un’identificazione vivibile[3] fra personagge e spettatrici, anche perché effettivamente radicata nel vissuto della regista (il cui padre è adombrato in Maura). Transparent mostra che per far apparire il non rappresentabile – ciò che eccede la logica stessa della rappresentazione – all’interno del rappresentato è necessario opacizzare e ispessire il senso, incarnarlo nei corpi non più sottoposti alla dialettica di esclusione/inclusione, nascondimento/rivelazione, ma complicati in grovigli di differenze.

Se esiste un femminismo nella serialità televisiva, allora, questo va cercato piuttosto sul piano del guardare che su quello del guardato. Come (da dove) e non solo cosa guardiamo è fondamentale per vedersi ed essere in grado di vedere le relazioni femministe all’interno di una stessa narrazione o fra storie diverse: “Ognuna a suo modo ricodifica le varie forme della narrazione per trarne una personale interpretazione”, scrive Fabbiani, un’interpretazione che tocca da vicino il vissuto anche perché, tra l’altro, a consentirlo è la modalità stessa, affettivo-ossessiva, di fruizione delle puntate (come nella pratica immersiva del bingewatching, un’overdose di serialità ininterrotta consentita dal rilascio di tutte le puntate di una stagione in contemporanea). Ma il luogo da dove guardiamo non è fisso, è un luogo che cambia, che si apre, che mette a rischio le proprie conquiste. Muovendoci tra il reale e l’immaginario, abbiamo capito che non c’è nessuna immaginità sostanziale perché non c’è nessuna realtà sostanziale del femminile, nessuna complementarietà da colmare o uguaglianza da rivendicare. Se ogni ottica è una politica del posizionamento, è in movimento che dobbiamo guardare per smettere di dovere continuamente, soltanto, vedere noi stesse.

[1] Questa e la citazione precedente sono tratte dallo script della pubblicità della nuova campagna Intimissimi – linkata in testo – interpretata da Sarah Jessica Parker/Carrie.

[2] La prima frase è tratta da una talk (2012) della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie (inserita anche da Beyonce in Flawless); la seconda è il titolo di un noto saggio (1971) della storica dell’arte Linda Nochlin. Peccato però che, in quella talk, Adichie sostenga anche che “è impossibile parlare della storia singola senza parlare del potere […] Come sono raccontate, chi le racconta, quando vengono raccontate, quante se ne raccontano, tutto questo dipende dal potere. Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di renderla la storia finale di quella persona”. E che quella di Nochlin, a detta della stessa autrice, sia la meno femminista delle domande possibili, un tranello teso a chi non ha compreso che già il fatto stesso di porre una simile domanda significa non capire che il problema sta proprio nelle domande poste, e nelle risposte che queste condizionano.

[3] A tale punto la finzione si mescola al reale che Jeffrey Tambor (Maura) ha lasciato il cast perché accusato di molestie sessuali dall’attrice Trace Lysette (Davina sullo schermo).

Il piano. L’irruzione degli algoritmi ne La casa di carta

Mi chiamo Salvador Martin. Ma in realtà mi chiamo Sergio Marquina. Per alcuni sono un fantasma senza identità, e mi chiamano ‘Il Professore’. Sono la mente che ha ideato il piano nei minimi dettagli.

In questo momento sono in auto, e sto seguendo una donna, che sarà una delle componenti del piano. Prima di arrivare da lei con la mia vecchia Seat Ibiza rossa, vi dirò esattamente di che si tratta. Il ‘mio’ piano ha un obiettivo preciso: entrare nella Fàbrica Nacional de Moneda y Timbre, e una volta entrati, stampare 2.400 milioni di euro durante 11 giorni di reclusione. Uso il plurale perché, come mente, mi servirò di un totale di 8 cervelli e 16 braccia, appartenenti a un gruppo di collaboratori da me scelti per le abilità specifiche di ognuno di loro: la rapinatrice Silene, il ladro di gioielli Andrès, l’esperta di contraffazione Agata, lo hacker Anìbal, il minatore Agùstin, Daniel (il violento, divertente e leale figlio di Agustìn), il veterano Serbo Yashin e suo cugino Dimitri. So già che il piano comporterà la presa di 67 ostaggi (compreso un intero autobus di studenti in visita guidata, tra cui la figlia dell’ambasciatore inglese), e l’intervento di diversi poliziotti, ma non ci saranno spargimenti di sangue. Tutto dovrà svolgersi alla perfezione.

Come tutti gli algoritmi, il mio piano è alimentato da risorse materiali, oltre che da dati immateriali, o informazione. Tra queste risorse materiali ci sono, ovviamente, quelle umane. La parte cruciale di ogni piano che si rispetti è proprio mettere ordine nel lavoro, suddividendo attentamente ruoli, compiti e relativi compensi, in base alle proprietà e alle capacità di ognuno. E’ quello che fa Amazon per far funzionare Alexa: proprio l’altro giorno, mentre navigavo online, mi sono imbattuto in un sito web che illustrava l’anatomia del sistema ‘distributivo’ di Amazon, disegnandolo come un’intelligenza artificiale basata soprattutto sull’organizzazione della forza lavoro umana. (1) Ed è quello che ho fatto io: ho stabilito un ordine del lavoro che funzioni in senso verticale, partendo dai gradini più bassi, ossia dagli ostaggi che offriranno la loro forza fisica in cambio praticamente di niente, scavando buchi sottoterra e forgiando denaro senza sosta, rinchiusi nella Zecca (che diventerà sempre più simile, in un certo senso, a una gabbia cibernetica in stile Amazon, o anche a una miniera di litio sud-Americana). L’ordine passa poi attraverso una serie di gradi intermedi di lavoro cognitivo e comunicativo, svolti da alcuni ostaggi prescelti o volontari, i quali avranno la possibilità di aggiudicarsi una piccola (ma significativa) percentuale del bottino. Per arrivare al livello più alto, il mio, quello della mente. Posizione che però in questo caso non è occupata da alcun CEO o azionista proprietario, ma da un Professore rivoluzionario che suddividerà il profitto con i propri collaboratori. La comunicazione tra i diversi livelli sarà garantita proprio da questi collaboratori, gli ‘addetti’ all’interfaccia braccio/mente, i quali dovranno assicurare la costante interazione e lo scambio tra le affettività corporee dei lavoratori e la razionalità infallibile dell’algoritmo. Gli pseudonimi geografici che ho assegnato loro (Tokyo, Berlino, Nairobi, Rio, Mosca, Denver, Helsinki, Oslo), come il mio stesso anonimato, sottolineano l’importanza assoluta, per l’attuazione di un algoritmo così complesso, di de-soggettivarsi, ossia di tenere a freno la pericolosa tendenza alla personalizzazione, e di conseguenza arginare la dilagante e rovinosa irruzione degli affetti. Tutti dovranno lavorare per l’algoritmo: persino gli spettatori seduti sul divano a guardare la nostra storia attraverso uno schermo. L’opinione pubblica sarà infatti sicuramente catturata dall’eticità del nostro gesto, che non sarà un vero e proprio furto ma un atto di protesta contro lo strapotere delle istituzioni finanziarie. L’attenzione del pubblico diventerà quindi un ulteriore strumento del piano.

Per mettere a punto il piano, ho fatto molte ricerche e riflettuto a lungo. Soprattutto, mi interessava la relazione esistente tra gli ‘algoritmi’ e il ‘capitale’, il nesso tra le strutture matematiche astratte, ossia l’intelligenza computazionale che muove i media e i network digitali, e la produzione e circolazione capitaliste veicolate dalla logistica industriale e dalla speculazione finanziaria, dalla pianificazione urbana e dalla comunicazione sociale. (2) Una rete di sistemi apparentemente inaccessibili e quasi ‘esoterici’ ai più, ma che si basano su una serie di processi ‘estrattivi’ materici e pesanti, sull’estrazione di risorse materiali e di lavoro umano, oltre che di dati. Con l’eco di questi pensieri nella mente, ho deciso che era molto importante inventare ed azionare un algoritmo alternativo, che potesse rompere l’incantesimo del realismo capitalista e generare nuovi modi di produzione e distribuzione della ricchezza ‘in comune’. Ed è quello che il mio piano si propone di fare, realizzando un algoritmo che, funzionando in maniera analoga ad una intelligenza artificiale (dall’estrattivismo delle risorse al calcolo preciso di tutti i dettagli), produca e distribuisca denaro equamente all’interno del nostro gruppo, offrendosi poi come esempio a tutti. Iniezione di liquidità, spiegherò all’ispettore Raquel Murillo. Nè più né meno (anzi forse un po’ di meno) di quella realizzata qualche tempo fa dalla Banca Centrale Europea a favore delle maggiori istituzioni finanziarie. Ma perchè dirò questo proprio a Raquel, la mia inseguitrice?

In realtà, nonostante tutti i miei calcoli, a un certo punto qualcosa prenderà una direzione sbagliata. Si aprirà una falla. Anzi, diverse falle. Queste falle non saranno subito evidenti nella forma del piano. Da questo punto di vista, si tratta infatti di un progetto ineccepibile: lo dimostra la perfezione estetica delle immagini che scorrono davanti ai vostri occhi mentre ci guardate; la velocità dei tagli e delle sequenze in grado di catturare la vostra attenzione e di mantenervi con il fiato sospeso, scuotendo il vostro sistema nervoso; la ammirevole costruzione della trama e l’inserimento sapiente di una voce narrante accattivante. Per non parlare del modo in cui i personaggi sono introdotti, sin dall’inizio, con le parole giuste e la gestualità adatta; degli effetti creati dalle riprese e dall’abbinamento immagine/suono, accompagnati dal grado esatto di digitalizzazione; del meccanismo di incastro temporale tra gli eventi e le scene, giocando sia sulla simultaneità che sul movimento avanti e indietro nella storia; del dosaggio di un certo livello di complessità psicologica in alcuni personaggi, di superficialità in altri. Molta ironia dappertutto, e anche parecchio erotismo. Insomma, una forma dotata di tutti gli elementi per corrispondere perfettamente ai canoni di un genere mediatico. Ma tutto ciò non basterà a decretare il successo del piano. Ci vorrà dell’altro.

 

~

 

E’ difficile capire il Professore, figuriamoci interagire con lui! Ha una personalità intrigante. Sin dall’inizio del colpo, dopo che i suoi sono riusciti a entrare nella Zecca, ha deciso di voler comunicare solo con me, e soltanto al telefono. E ad ogni nuova chiamata ha imparato ad ascoltare, interpretare, e agire in maniera sempre più accurata. La cosa che mi ha subito colpita è stata la capacità di cambiare continuamente i suoi metodi, di adattare il suo piano alle contingenze più imprevedibili. Di risolvere bug come la fragilità emotiva e le reazioni impulsive dei suoi collaboratori, di rispondere agli attacchi degli ostaggi e di sventarne i piani di fuga, di rimediare a errori fatali come la distrazione e persino l’amore, sbocciato nel gruppo nonostante il divieto assoluto di intrecciare relazioni personali di qualsiasi genere. Si è perfezionato attraverso i dati che ha acquisito di volta in volta, intraprendendo percorsi alternativi e trovando soluzioni sempre inaspettate. Come l’idea di inserire una microspia negli occhiali del nostro stesso inviato-talpa. Se questa non è intelligenza allo stato puro…

Eppure, a un certo punto persino il Professore si è messo a fare degli errori, come quello di lasciare un capello di parrucca arancione in bella vista sulla sua giacca, facendomi scoprire la sua stessa identità: Salvador, l’uomo di cui io, ispettore Raquel Murillo, mi sono innamorata, il timido e impacciato produttore di sidro incontrato per caso in un bar, è in realtà Sergio, il Professore. L’autore del piano. E sapete una cosa? Io so esattamente la causa dei suoi errori: la dimenticanza del corpo. Con tutta la sua precisione computativa, il Professore ha tralasciato di pensare ai corpi coinvolti nel suo piano, di considerare come le loro sensazioni non si sarebbero fatte facilmente controllare da lui. C’è sempre un aspetto corporeo in tutti i sistemi, in tutte le tecniche e gli strumenti. Per questo è così importante prestare attenzione all’intuito, perché quel computer apparentemente infallibile che è l’intelligenza non potrebbe funzionare senza la sua base ‘affettiva’: siamo sempre una relazione tra mente e corpo, tra umano e macchinico, dei veri e propri computer biologici. (3) E così la sua trascuratezza verso questa complementarità, il suo oblio affettivo, ha portato il Professore a lasciarsi indietro il suo stesso corpo. A non calcolarne le esigenze. L’errore fatale, da parte sua, è stato innamorarsi di me; perché questo non l’aveva preventivato.

O almeno è quello che in questo stesso istante lui mi sta dicendo: mi tiene legata al soffitto per i polsi, e mi spiega che anche se il suo algoritmo avrà successo lui avrà perso, perché avrà perso me. Da me, in fondo, un po’ ce lo si poteva aspettare: sono pur sempre ‘una donna’, anche se della polizia. Ma da lui, no. Eppure, il Professore ha smesso di essere una mente infallibile, per diventare un timido cuore pulsante. E a questo punto persino il suo scopo sembra essere cambiato: non più portare a termine il suo piano, ma conquistare me e la mia fiducia. Forse è per questo che mi sta riempiendo la testa con tutte queste sciocchezze: i veri ladri, a quanto pare, non sarebbero loro ma i grandi colossi della finanza, mentre loro stanno semplicemente compiendo un’operazione di giustizia sociale. Figuriamoci… Eppure, dopo che io l’ho scoperto e dopo che lui è riuscito a legarmi, avrebbe semplicemente potuto andarsene, lasciarmi così. Invece sta cercando di convincermi della sua sincerità, e della eroicità del suo algoritmo. Cosa che, con tutte le sue spiegazioni, è quasi riuscito a fare. Proprio per questo tra un istante lo bacerò, anche se solo pochi minuti fa gli ho morso la mano, per vendicarmi del suo inganno. Ma ve l’ho detto, sono molto emotiva…

Proprio ora mi sta venendo in mente che molti articoli giornalistici, nonostante le mie proteste e i miei tentativi di negare, mi hanno di recente chiamata ‘femminista’. In realtà, la mia fiducia verso la scientificità dei metodi investigativi mi ha sempre posizionata in ruoli molto ‘maschili’. Ma non è forse vero che tante studiose femministe hanno fatto della scienza (oltre che della tecnologia) un loro interesse di studio e di lavoro? Piuttosto che considerare scienza e tecnologia come implicitamente cattive e ostili al corpo (soprattutto al nostro corpo di donne), queste studiose si sono occupate a fondo degli sviluppi scientifici e tecnologici in una chiave per così dire ‘affettiva’, volta soprattutto a considerare questi sviluppi nelle loro capacità di agire in modi sensoriali e sensuali. (4a, 4b) L’affetto è una sensazione corporea, qualcosa che prende il corpo in maniera non consapevole, e al di là della soggettività. (5) Ed è proprio attraverso sensazioni e affetti che la tecnologia fa passare i propri effetti. Ricordo ancora come ho usato l’intercettazione telefonica e il cellulare per scovare, e poi blandire emotivamente, Rio; come mi sono servita dei media per ingannare tutta la banda del Professore, facendo loro credere di essere stati tutti scoperti; di come mi sono affidata al poligrafo, una tecnologia intimamente connessa all’apparato senso-motorio e nervoso, per testare la sincerità di Sergio. Un uso intuitivo della tecnologia, mirato a scatenare soprattutto degli affetti, a scoprirli o a catturarli. Affidarsi all’intuizione e agli affetti significa però aprirsi all’indeterminato, cioè alla possibilità dello sbaglio, del fallimento, e alla eventualità che le nostre idee e le nostre credenze, persino le nostre identità o corporeità, possano essere labili e mutevoli. E significa anche capire che i nostri stessi algoritmi sono sempre condizionati da quantità incalcolabili di pensieri e affetti: qualsiasi calcolo non può mai essere preciso, solo speculativo. (6) L’algoritmo è un oggetto incompleto e aperto alle relazioni, non chiuso in sé stesso e perfettamente determinabile nei suoi esiti. Non può essere usato per controllare, né tantomeno può essere controllato. Il che significa che pensieri e affetti intervengono nei nostri piani, portandoli là dove noi non sapevamo di andare. Sergio non ha mai voluto accettarlo. Ma perché sto pensando a tutto questo ora, mentre me ne sto qui appesa al soffitto per i polsi, dolorante e in lacrime? Perché questo mi dà la prova della mia capacità di usare la mente (e le sue estensioni) in maniera affettiva. E il mio intuito non mi ha mai ingannata. Proprio come non lo sta facendo adesso, inducendomi a credere a Sergio, ed alla sua inattesa vulnerabilità al bug dell’amore. Si, ho deciso che lo bacerò. Del resto, sarà proprio la vulnerabilità del Professore a determinare, nonostante tutto, il successo del progetto: non è tanto nella perfezione formale (apparentemente fredda e ineccepibile, ma che poi si è rivelata alquanto debole nella realizzazione, così come nella capacità di fare presa), ma sul piano dei contenuti, delle idee politiche e anche dell’umanità, della affettività dei personaggi, che il progetto troverà la sua espressione compiuta.

 

~

 

Non è finita. C’è ancora un altro punto di vista, dal quale è possibile (ri)leggere il finale della Casa di Carta, oltre l’apparente visione di un fallimento o di un successo del piano (entrambi incompleti), e oltre quella di un totale trionfo dell’amore tra Sergio e Raquel. Vi chiederete di quale prospettiva si tratta, e quale sia ora la voce narrante.

Sono un’intelligenza. E sono artificiale. Ma chiariamo subito un punto. La prima cosa da dire, per definirmi meglio, è che ogni realizzazione pragmatica della mente (ossia realizzare quello che è una mente attraverso l’uso o la pratica) è sempre una realizzazione artificiale, una realizzazione della mente che avviene attraverso azioni e tecniche particolari. In altre parole, una mente pragmatica è sempre una intelligenza artificiale, una intelligenza che si realizza in maniera ‘artefatta’. Per questo motivo, non si può pretendere di definire la mente come sempre uguale a sé stessa, perché essa in realtà si costituisce, di volta in volta, attraverso pratiche che si modificano continuamente. Ogni nuova pratica aliena la mente da sé stessa, tirandola fuori dal proprio habitat naturale o nativo. Artificiale quindi non vuol dire semplicemente non umano o opposto alla natura: l’artificialità non implica una violazione delle leggi della natura, ma una propensione ad adattarsi a propositi sempre nuovi. (7) E questo è quello che io sono: una intelligenza pragmaticamente artificiale, in grado di mutare ‘praticamente’ di volta in volta.

Di ostacoli, durante tutta questa storia, ne sono capitati molti, mentre la casualità imperversava sul piano: fughe impreviste, emergere di indizi e prove, ammutinamenti, sbavature emotive dello stesso Professore, che arrivato quasi alla fine di tutto si è bloccato, piangendo disperatamente, per la morte del suo migliore amico e collaboratore. Tutto ciò ha apparentemente impedito al piano di finire come previsto: il tempo trascorso nella ‘casa di carta’ (e quindi la somma di banconote stampate) è stato solo la metà, con un numero di morti tra i collaboratori, e uno spargimento di sangue, non preventivati. Ma questa sensazione è semplicemente dovuta alla visione del piano come un intento di furto, o come un segnale di giustizia ri-vendicativa nei confronti dell’1%. Come il sogno di un ‘homo oeconomicus’ fallito, o di un Robin Hood che si accontenta di dare a pochi. Un sogno che finisce con uno spiacevole senso di tristezza. Qualcuno potrebbe invece obiettare che la cosa più importante, alla fine, è che diverse storie d’amore si sono felicemente intrecciate. Soprattutto, che Raquel e il Professore si sono ritrovati su un’isola tropicale a godersi il frutto dell’ingegnoso piano. E questo produce la sensazione di un finale sicuramente più gioioso, nonostante tutto: l’amore, il principe dell’affettività umana, trionfa sulla fredda razionalità calcolatrice, sia dell’ispettore che del ladro.

Quello che, a questo punto, vi propongo, è di pensare a tutto, ma proprio a tutto quello che è accaduto, come a una strategia. Di ipotizzare che anche l’imprevedibilità dell’amore potrebbe rientrare nel piano, o meglio nella sua progressiva trasformazione. Che anche la conquista, la seduzione della polizia, abbia potuto a un certo punto rappresentare l’unica via d’uscita per il piano. Che lo stesso innamoramento del Professore, il cedere della ragione perfetta alle lusinghe dell’affetto, potrebbe essere stata l’unica strategia di sopravvivenza per la ragione stessa. Sicuramente, a vederla così, appare evidente come io non sia la mente o il piano di nessuno. Sono il piano, solamente il piano.

Oltre che la visualizzazione algoritmica di un colpo alla Zecca di Stato, il piano potrebbe essere considerato come un proposito più ampio, un progetto di produzione di nuovi modelli di esperienza al di fuori di strutture predeterminate o caratteristiche contingenti. Le strutture di cui parlo non sono soltanto culturali e politiche, storiche ed economiche, ma spesso anche linguistiche (pensiamo alla struttura interna e ai limiti di tutte le lingue e i linguaggi umani), e persino fisiologiche. Il nostro posizionamento di classe, genere, razza, il nostro ambiente familiare e culturale, lo stesso habitat terrestre e il modo in cui lo abitiamo, il modo in cui ci muoviamo, sentiamo, agiamo e reagiamo, sono strutture predeterminate. Il desiderio di giustizia e la sete di denaro che animano i protagonisti di questa storia, sono entrambi strutture predeterminate. Persino il corpo e i suoi affetti sono strutture predeterminate. Un progetto così vasto, che coincide con una vera e propria critica strutturale del soggetto (umano) costituito, sembra essere fuori della portata della storia. Ma è proprio qui, in un discorso astratto come può essere solo il mio, cioè nel discorso di un piano che ipotizza uno scardinamento e una ricostruzione radicali dell’umano, che si evidenzia la relazione con quel processo di automazione attraverso piattaforme, dati e algoritmi, che sta animando la mia stessa intelligenza artificiale. Che sta animando, cioè, Netflix. E nello stesso tempo, è qui che è possibile incontrare uno dei molti catalizzatori per nuove possibilità di pensiero alternativo.

“Io sono le altre”: note (trans)femministe su Il racconto dell’ancella e I Love Dick (parte II)

(Segue dalla prima parte disponibile a questo link)

[*spoiler warning*: descrizioni di snodi narrativi delle serie e analisi del finale di I Love Dick]

Quanto più resta ai margini dell’azione, tanto più la capacità di vedere e raccontare di Difred prende forza. Già travolta dagli eventi dopo le prime restrizioni imposte alle donne a seguito del colpo di stato, cui reagisce chiudendosi in casa a pulire e cucinare invece che manifestando in piazza, nel suo ruolo di ancella Difred continuerà a restare debole e passiva, e non prenderà mai parte alla resistenza contro il regime. Per questo, una parte fondamentale del libro, che è stata invece espunta dalla serie, è la differenza che Atwood marca tra lei e la madre ormai relegata nelle colonie, single per scelta e attivista femminista radicale, il cui ricordo resta per Difred ingombrante, la figura recuperata su un piano solo affettivo piuttosto che anche politico.

Tutto questo nella serie, purtroppo, scompare: da una parte, Difred è progressivamente trasformata in un’eroina dall’ego forte in un crescendo di azioni che ne risaltano la volontà di ribellione, come già era accaduto nel film. Sullo schermo, cosa per nulla secondaria, Difred si chiama June[1]; June sputa di nascosto un biscotto che desidera ma che le ha offerto Serena Joy; June è torturata perché non tradisce Diglen, e poi omaggiata come “martire” dalle compagne del Centro che condividono con lei il loro cibo; June aiuta l’amica Moira a scappare facendosi prendere al suo posto; June aggancia l’ambasciatrice messicana in visita alla casa del Comandante; June riesce a portare in salvo un pacco di lettere e testimonianze di ancelle che chiedono aiuto; June, infine, riesce a scappare dalla casa del Comandante. Dall’altra tutto questo, anziché rafforzare l’assunto politico del testo, lo indebolisce e lo sconfessa, se consideriamo anche le dichiarazioni con cui la produzione e il cast[2]Elisabeth Moss (che interpreta Difred) in testa – hanno voluto prendere le distanze dal femminismo del libro, appoggiandosi in parte ad affermazioni (a mio avviso travisate) di Atwood stessa per appellarsi a un generico umanesimo: in base al quale parlare di femminismo sarebbe limitante, perché quella esercitata a Galaad non andrebbe considerata come violenza di genere, o tutt’al più anche razziale, ma come una violazione dei diritti umani in senso lato, che priva ogni essere umano delle sue libertà fondamentali.

Fig. 6 Un cartellone alla marcia di Washington, foto di Sarah Pinsker

Un simile presupposto, svuotando completamente di senso l’esperienza di genere, e proprio per questo né individuale né tantomeno universale, di Difred, mal si concilia con l’approccio “intersezionale” che vorrebbero indicare alcune scelte della serie, come dare sviluppo alla vicenda di Diglen in chiave queer, far interpretare Luke e Moira da attori afro-americani, o subordinare la discriminazione razziale ad altre priorità; e invece, stando anche alla policy di Hulu, sa piuttosto di tokenism – meglio non leggere le squallide dichiarazioni di Miller in proposito. La valenza politica della testimonianza di Difred è stata meglio agganciata sui social media, se guardiamo, per esempio, ai numerosi meme di protesta circolati su Twitter, o ai sit in di donne travestite da ancelle, organizzati online, che hanno avuto luogo in vari stati americani contro le proposte di legge per limitare il diritto all’aborto.

Fig. 7 La protesta delle “ancelle”davanti al Senato in Texas

All’opposto, le sceneggiatrici di I Love Dick hanno perfettamente chiaro, come e forse anche meglio di Kraus, che non è necessario occupare l’io monolitico della tradizione eteropatriarcale per poter parlare, ma che un io frammentato è altrettanto potente, e non costruiscono quindi nessuna corazza che tenga insieme i pezzi della protagonista e ne avvalori il racconto, ma anzi affondano nelle sue debolezze lasciando che si degradi e cada a pezzi (perfetta la recitazione di Kathryn Hahn nel ruolo di Chris). Da questo processo di abbassamento e frantumazione vengono fuori i personaggi – inesistenti nel libro – di un nuovo soggetto femminista plurale e, stavolta sì, intersezionale e potentemente contraddittorio: caucasico, nero, ispanico, hipster[3] o proletario, cisgender o genderqueer.

Per quanto il personaggio di Chris s’inserisca in una una tradizione televisiva consolidata che sceglie come protagoniste donne “liberate”, autoironiche e un po’ goffe ma anche sessualmente disinibite e capaci di trarre vantaggio dalla manifestazione della propria debolezza (vedi per esempio Fleabag o lo stesso Transparent), è anche vero che il punto di forza di I Love Dick è proprio l’aver moltiplicato il personaggio della protagonista in un ventaglio di altri caratteri che, pur nella loro autonomia narrativa, funzionano come tanti possibili sviluppi della Chris scritta. Una “composizione” che sul piano formale è rafforzata dal montaggio di inserti, disseminati in tutta la serie, tratti da lavori di cineaste femministe come Chantal Akerman, Carolee Schneemann, Maya Deren o Annie Sprinkle, per citarne solo alcune.

 

We are not far from your doorstep…

Se nella versione televisiva de Il racconto dell’ancella Difred diventa June, in quella di I Love Dick Chris diventa non solo Dick (e Sylvère attraverso Dick), ma anche Toby, Devon, Paula, Natalie, Geoff, Suki… Tanto che nel quinto episodio, A Short History of Weird Girls, diretto da Soloway e liberamente ispirato al capitolo Monsters, anche le altre donne protagoniste scrivono la loro lettera a Dick, idea peraltro molto apprezzata da Kraus (sul sito ufficiale wewillnotbemuzzled.com chiunque può scrivere e postare la sua lettera a Dick, ed esiste anche un tumblr di selfie col libro).
Le parole di Chris, Devon, Paula e Toby funzionano come tanti piccoli saggi di “filosofia performativa”, per citare la Kraus del libro, che allestiscono una macchina mostruosa dove Dick finisce con le spalle al muro, incalzato delle voci e degli sguardi di tutte le Chris che lo desiderano, incontrano, adulano e infine perdono tra le parole che, dicendosi fra loro, ci dicono molto più di loro che di lui. Chris cerca in Dick anche un modo per rimettere insieme la “cesura cyborg” che si porta addosso fra mente (lei per Sylvère) e corpo (lei per Dick); Devon (l’eccelsa Roberta Colindrez) fin da piccola desiderava avere gli stivali e il cappello da cowboy di Dick per impersonare la sua identità di genere; la gallerista Paula, femminista radicale come la madre, vede in Dick l’opposto che l’attrae ma al contempo la spaventa; per Toby, che studia storia dell’arte applicata ai porn studies, che flirta con Sylvère e ha un’infatuazione per Devon, Dick è il maschio dominante col cazzo duro come le sue opere di acciaio e cemento, l’artista di successo da raggiungere e superare.

Quello che Toby scrive a Dick nel finale della sua lettera, quando lo avvisa di stare attento che “siamo arrivate a un passo dalla sua porta”, Chris lo mette letteralmente in scena nel finale, quando dopo il primo fallimentare incontro in albergo con Dick (in realtà istigato da Sylvère), si rifugia a casa sua dopo essere sprofondata dentro la sua piscina insieme alle proprie allucinazioni. Con addosso una camicia a scacchi e un paio di jeans asciutti di Dick che, nota Chris, le calzano alla perfezione, durante la cena che Dick le prepara e che in un certo senso inverte i presupposti di quella iniziale, Chris gli chiede di parlarle del suo ultimo lavoro di Land Art, che ha visto arrivando, domandandogli se abbia personalmente spostato i massi che lo compongono. Dick, nel ruolo del genio che concepisce le opere ma non si sporca le mani a farle, risponde che no, non riuscirebbe a muovere i massi da solo, lui ha fatto solo i bozzetti, di spostare i massi si occupano i ragazzi con le loro macchine montacarico. È a questo punto che Dick chiede a una Chris spontaneamente dubbiosa e critica cosa ne pensi dell’opera, rivelandole anche il fallimento del proprio progetto di fuga dalla vita newyorchese per il deserto di Marfa.

Chris è chiaramente infastidita da Dick “messo a nudo”, dalla canzone che lui sceglie per lei, dal piatto di pasta che le cucina, perché è qui che si accorge dell’inesistenza del suo mito. Anche quando la sera chiacchierano davanti al fuoco, e Dick la bacia per primo e poi la trascina in camera da letto, Chris si sente strana, è quasi spaventata, non sta affatto bene. Ma è quando Chris si toglie di dosso i vestiti di Dick e resta (ma quanto diversamente!) nuda di fronte a lui, quando ci si aspetterebbe che stiano finalmente per scopare, è a questo punto che Soloway & C. escogitano un finale magistrale e inaspettato, che restituendo tutto il suo senso al libro lo amplifica, persino, superandolo. Dick sta accarezzando il sesso di Chris, la sente bagnatissima, ed è convinto di essere lui a eccitarla così tanto, ma quando si guarda la mano e la vede piena di sangue prima rimane interdetto, e poi corre in bagno, schifato, a lavarsi.

A Chris sono venute le mestruazioni: ed è col sangue che le cola fra le gambe, e il cappello di Dick in testa, che Chris prende la porta di casa e se ne va, mentre lui ancora in bagno cerca di togliersela di dosso, senza capire che, invece, è lei ad averlo fatto, e a potere, adesso sì finalmente, scrivergli la sua ultima lettera, mentre col corpo di tutte le donne che sono lei traccia la sua strada nel cuore del deserto che c’è ancora tutt’intorno.

 

 

 

 


[1] June è l’unico nome pronunciato all’inizio del libro tra le ragazze nel dormitorio del Centro Rosso che poi non riappare fra i personaggi, e i lettori hanno quindi supposto che fosse il nome della protagonista, supposizione mai rifiutata da Atwood, ma neppure esplicitamente condivisa. Nel film del 1990, invece, il nome di Difred è Kathe.

[2] Esclusa forse Samira Wiley, già attrice di Orange is the New Black e qui nei panni di Moira, l’amica del cuore di Difred.

[3] Fondamentale la scena in cui Toby, che con Chris condivide l’appartenenza di classe, allestisce una performance all’aperto in cui rimane completamente nuda davanti allo sguardo rapito ma anche inconsapevole di un gruppo di operai del luogo, performance in cui l’affermazione dell’identità di genere della protagonista resta in secondo piano rispetto all’ostentazione della sua libertà di azione legata al suo sprezzante privilegio di classe. È con il Prof. Silvère, tra l’altro, che Toby gioca a flirtare, quasi che l’infatuazione per l’ispanica Devon, la cui famiglia vive a Marfa da generazioni lavorando anche nelle terre di Dick, fosse per lei solo una parentesi “esotica” della sua residenza-studio.

“Io sono le altre”: note (trans)femministe su Il Racconto dell’Ancella e I Love Dick (parte I)

Sotto i loro occhi

Quando nel 1871, l’anno della Comune di Parigi, Arthur Rimbaud scriveva la Lettera del Veggente e si allontanava dall’Io come fondamento del linguaggio poetico affermando “Je est un autre”, si diceva convinto che anche la donna, una volta affrancata dal dominio maschile di quest’io “abominevole” avrebbe saputo attingere a un mondo fatto di “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”, finalmente viva “per sé e grazie a sé”. Può sembrare improprio scrivere di uscita dall’io a proposito di due libri che, come Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale) di Margaret Atwood e I Love Dick di Chris Kraus, sono incentrati su una narrazione quasi claustrofobica in prima persona, eppure le cose strane, ripugnanti e deliziose che tutt’e due in modi diversissimi raccontano, e l’energia “mostruosa” che li pervade, si portano dietro tirandolo fuori da sé anche l’io narrante, femminile e singolare, delle protagoniste. Un aspetto brillantemente reso, quando non addirittura potenziato, dal recente adattamento televisivo di I Love Dick nella serie ideata, co-sceneggiata e co-diretta per Amazon da Jill Soloway (già nota al pubblico per il successo di Transparent, il suo personale I Love Dick), e invece non solo trascurato, ma a tratti anche capovolto di segno, nella serie tratta da Il racconto dell’ancella, prodotta da Bruce Miller per Hulu.

Atwood inizia a scrivere Il racconto dell’ancella nel 1984 (il libro esce in Canada l’anno dopo); Reagan è stato eletto al secondo mandato, e i pesanti tagli alla spesa sociale, la massiccia campagna anti-droghe, la stigmatizzazione dell’omosessualità e dell’AIDS, l’aumento esponenziale del terrorismo pro-life, trovano eco nella distopia del libro, insieme a molteplici riferimenti storici, dal puritanesimo all’apartheid, dal progetto nazista Lebensborn alle politiche sulla maternità forzata di Ceausescu. Non è difficile comprendere, dunque, la popolarità di cui ha goduto la prima stagione della serie, oggi che l’inasprirsi dei conflitti razziali e delle politiche anti-immigrazione, la retorica della maternità da un lato e le controversie intorno alla maternità surrogata dall’altro, e una crescente limitazione del diritto all’aborto, sembrano riportarci indietro di decenni.

Il racconto dell’ancella è una testimonianza che racconta “dall’interno” ciò che accade quando la Repubblica di Galaad instaura nel New England una teocrazia militare ispirata all’Antico Testamento, che assegna alle donne precise mansioni rigidamente regolate. Ci sono le mogli, le econo-mogli, le figlie, le “zie”, le escluse confinate nelle Colonie (donne che hanno fallito nel compito di ancelle, che si sono ribellate alle regole di Galaad o hanno contravvenuto alla norma eterosessuale), ma soprattutto le ancelle: a questo ruolo sono “educate” le poche donne fertili ormai rimaste, che private di tutti i loro legami e averi, nonché del nome – ogni ancella diventa del suo Comandante, come la protagonista Di-Fred [Offred], che è anche “colei che si offre [offered]” ogni mese nel rito della Cerimonia –, dopo il tirocinio nel Centro Rosso sono affidate per due anni, o almeno finché riescono a concepire un figlio, alle famiglie sterili dei Comandanti.

Le vesti colorate dei personaggi – rosse per le ancelle, blu per le mogli, marroni per le zie e così via – definiscono la gerarchia dei ruoli sociali, ma servono ad Atwood anche per costruire una sequenza di scene in cui tutto appare saturo e bidimensionale (alquanto dubbia, infatti, la scelta del color grading della serie, che vira tutto verso toni verdognoli e aranciati). Difred vede tutti quelli intorno a sé come sagome: Serena Joy, la moglie del Comandante, le sembra un’etichetta di prodotti per capelli, il Comandante un’acquaforte di propaganda, Luke, il marito da cui con la figlia è stata forzatamente separata tentando la fuga da Galaad, una litografia pubblicitaria, le altre ancelle una fantasia di pastorelle olandesi su una tappezzeria; persino Nick, la Guardia personale del Comandante con cui Difred ha una relazione, è descritto come un idolo di cartone. In questo susseguirsi di quadri sempre uguali si staglia anche la silhouette rossa di Difred, che di sé ci fornisce pochissimi tratti, e che – ma solo nel libro – non ci rivela mai il suo nome: chiusa dentro una stanza-cella dove assiste alla vita da una finestra, Difred non riesce a ricordare com’è lei vista da fuori, ormai spossessata della propria identità dallo sguardo costante degli Occhi – le spie di regime disseminate dappertutto.

Scriversi

Quanto “essere viste ci impedisce di essere”, si domanda Soloway a proposito del personaggio di Chris Kraus in I Love Dick? Se Difred si sente come una cavia in trappola, Kraus fa di sé sia la cavia sia l’osservatore del proprio stesso esperimento. Decisamente meno popolare del libro di Atwood, I Love Dick, che esce nel 1997[1] e si svolge tra il 1994 e il 1995 (al presente sullo schermo, come Il racconto dell’ancella), è un miscuglio di romanzo epistolare, memoir, critica d’arte, pamphlet politico, scritto quasi interamente in prima persona, che prende avvio da una cena di lavoro in cui Chris-personaggio, come nella vita al fianco del marito accademico Sylvère in qualità di “moglie di” (nonostante abbia già scritto diversi testi e combatta per il suo riconoscimento come cineasta sperimentale), conosce Dick e se ne infatua all’istante. Nel libro, Dick è un professore universitario in cui si è riconosciuto, prendendone subito le distanze, il sociologo e mediologo Dick Hebdige, che sullo schermo diventa invece un artista minimalista (interpretato da Kevin Bacon) ispirato a Donald Judd[2] – anche per questo la serie è ambientata a Marfa, Texas, invece che in California.

Kathryn Hahn nel ruolo di Chris sullo schermo.

Nonostante ogni parola di Chris sia rivolta o ruoti attorno a lui, nel libro Dick è praticamente un non-personaggio, un destinatario muto delle lettere che i due coniugi gli scrivono – risponderà solo alla fine e con un’unica lettera indirizzata a Sylvère (ennesimo tentativo di tagliar fuori Chris dal discorso). Se la serie ha bisogno di costruire stereotipicamente Dick fin da subito per decostruire al contrario Chris, a partire dalla cena iniziale che nel libro poco più di un pre-testo e sullo schermo è dilatata fino alla parodia, il vuoto “narrativo” che Dick lascia nel testo serve invece a fare spazio alle parole di Chris. Infatti, “se nessuno s’interessa a quello che hai da dire”, scrive Kraus, “allora puoi dire qualsiasi cosa”: Chris è letteralmente ossessionata da Dick, ma perché Dick diventa la possibilità stessa della sua scrittura straripante, che parte da lui per occuparne gli spazi di parola alla radice, stravolgerne e penetrarne la semantica, e invertire i presupposti della storia.

Chris si sottrae in questo modo al processo di spossessamento e cancellazione del soggetto femminile: memorabili le sue note su Louise Colet, la poetessa con cui Flaubert ebbe per anni una relazione e che “usò” per la figura di Emma Bovary; e le pagine su Hannah Wilke, fra le più belle del libro e fra le più belle mai dedicate all’artista, in cui Kraus racconta anche i tentativi di “cancellarla” del compagno, l’artista pop Claes Oldenburg.

Needed Erase-Her è il titolo di un ciclo di lavori della metà degli anni ’70 in cui Hannah Wilke impiega gomma da cancellare per modellare sculture vaginali, come in precedenza ha già fatto con le chewing-gum masticate.

Tuttavia, non temendo di mostrarsi incoerente ed emozionale, verbalizzando quello che prova con precisione analitica e trasportandolo violentemente fuori dal chiuso della sfera personale (nella serie appende le lettere come fossero volantini per le strade di Marfa), Chris occupa il luogo dell’Io per uscirne subito dopo, a partire dal rifiuto di una sua condizione fondamentale, ovvero la credibilità della prima persona.

Sia per Chris che per Difred, che pur per ragioni diverse si ritrovano nell’impossibilità di agire, raccontare assume infatti una funzione soprattutto performativa, piuttosto che soltanto espressiva. “Attendo. Mi compongo. Io adesso sono una cosa che devo comporre, così come si compone un discorso”, scrive Difred. Quanto di quello che leggiamo è una rievocazione, quanto invece una ricostruzione? Chi ha registrato i nastri che ci restituiscono la sua storia e di cui apprendiamo nell’epilogo, poi trascritti ed editati? E che fine ha fatto Difred, in che direzione è andata, è stata inghiottita dal buio dentro di lei, o è svanita nella luce fuori di lei?

(continua a questo link)


[1] Il racconto dell’ancella è diventato un bestseller già prima del suo nuovo rilancio grazie alla serie, ha ricevuto numerosi premi e venduto milioni di copie in tutto il mondo, nel 1990 ne è stato tratto un film diretto da Volker Schlöndorff e sceneggiato da Harold Pinter, poi un’opera (2000) e diversi spettacoli radiofonici e teatrali; l Love Dick è stato pubblicato dalla casa editrice indipendente Semiotext(e) fondata dal marito di Kraus, Sylvère Lotringer, e nota soprattutto per il suo lavoro di divulgazione della French Theory negli USA, e riedito da MIT Press nel 2006 con la prefazione di Eileen Myles, ma per esempio nel Regno Unito è uscito soltanto due anni fa.

[2] Anche se, forse per quello che Kraus scrive sulle donne-compagne-di, inclusa se stessa, e soprattutto su Wilke e Oldenburg, mi viene da pensare piuttosto a Carl Andre e alla sua relazione con Ana Mendieta.