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Fare un salto al seminario: come praticare l’arte del fallimento nell’Università.

Questa è una lunga analisi sul perché non ho scritto un post per invitarvi tutt* a discutere intorno al testo di José Muñoz “Cruising Utopia”. Giovedì 3 Maggio ore 16,30 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con Renato Busarello, Mara De Chiara, Roberto Terracciano e me… forse.

È dai tempi della scuola che ho imparato a confrontarmi con il fallimento. Il fallimento anche oggi arriva all’ultima fase. All’ultima frase. Facevo traduzioni perfette, forse non giuste, ma sempre appassionate; non era questione di grammatica e di studio, ma l’esercizio di cercare le parole giuste per dire le cose. Amavo scegliere le parole; ancora adesso. Brava: brava per i professori che mi premiavano con ottimi voti; brava per i compagni di classe che mi riconoscevano più la generosità del far copiare che una qualche dote; brava per i miei genitori che potevano raccontarmi come la figlia perfetta. Eppure tutto questo pesava su di me come un macigno: il peso delle aspettative. Non tanto quelle delle persone intorno a me, ma quelle di cui mi caricavo io stessa. Nata sotto il segno della Vergine, sempre in competizione con me stessa per essere all’altezza dell’ideale che mi pongo. L’ascendente in Pesci mi ha dotata del dono della creatività e la luna in Sagittario mi ha infuso l’arte della fuga. Ho iniziato molto presto a conseguire il fallimento come pratica militante di boicottaggio, e ho continuato con una certa perseveranza per il resto della mia vita. Una lunga carriera di esami a cui mi sono presentata senza aver studiato l’ultimo capitolo. L’esercizio del fallimento l’ho praticato con più dannazione che orgoglio, aggiungendo al peso delle aspettative l’ansia e i sensi di colpa.

Sono qui a cercare l’idea migliore per il prossimo post di Technocultures. Non devo solo essere all’altezza dei post precedenti, tutti un successo di visualizzazioni, devo essere più in alto di essere all’altezza. È l’ultimo, quindi devo spaccare. Lasciare il segno non è solo un desiderio narcisista oggi; mi muovo nel paradigma della precarietà dell’università neoliberista. Non ho neanche un nome per descrivere la mia posizione: non più dottoranda, non (ancora?) post-doc. La mancanza di una parola non è solo la ricerca di una collocazione lavorativa ma il bisogno di un posto esistenziale. Devo accumulare voucher visibilità: non dire mai no ad alcuna proposta di scrittura, intervento, organizzazione e non perché mi abbiano mai pagato per questo, ma con la speranza di poter impressionare qualcuno, trovare un contatto, lasciare un segno, non sparire mentre aspetto che arrivi il mio turno.

Ma questo è il momento dell’ultima frase e io, come al solito, non posso scrivere. Niente. Riprendo in mano il libro di Muñoz, l’ho già riletto quasi tutto, ma sono ancora in cerca dell’idea perfetta. Mi manca sempre lo stesso capitolo: A Jeté Out of the Window. Fred Herko’s Incandescent Illumination. Avevo scelto di non rileggerlo sebbene fosse il primo testo che avessi mai letto di questo autore che dopo mi ha tanto appassionata. Era agosto e mi preparavo per una summer school, lo aveva dato da leggere Jack Halberstam, entrambi grandi amici si sono molto influenzati nelle loro scritture. Sin da subito ho esorcizzato il pugno nello stomaco ricevuto da questo testo, scherzando con un mio amico sul destino di una dottoranda, costretta a leggere di uno che fa un salto fuori dalla finestra, mentre gli altri sono con le chiappe al mare. Questa volta me lo sarei risparmiata, infastidita dall’apologia di un suicidio in un testo che nasce dichiaratamente come risposta alle teorie nichiliste della svolta antisociale del pensiero queer. Cosa cazzo c’entra il suicidio mentre parliamo di utopia, speranze, relazioni guardando al futuro?

Questo capitolo ha la potenza di un pensiero intrusivo. I pensieri intrusivi, in un linguaggio patologizzante, sono quei pensieri ed immagini, percepiti come esterni, che attivano le crisi ossessivo compulsive: idea di morte, droga, contaminazione… L’idea di qualcosa di estraneo, introdotto dall’esterno, per mandare in frantumi l’equilibrio. Come questo capitolo che attiva con potenza una catena di pensieri ansiogeni rispetto all’ideale di utopia che si sta delineando. Mi decido a riaffrontarlo e resto colpita immediatamente dalle prime parole “Surplus is a loaded concept”. Prosegue introducendo la teoria del valore prima in una prospettiva marxista; dunque il surplus inteso come quella parte di ricavi superiore al costo del lavoro, quindi il profitto del capitalista. Prosegue, successivamente, introducendo questo concetto nel campo dell’effimero, attraverso la produzione artistica. Solo a questo punto mi rendo conto che Muñoz, ancora una volta attraverso l’analisi dell’estetica delle pratiche, sta introducendo i suoi elementi di elaborazione di una teoria del valore queer. Un’analisi che non è dello sfruttamento da parte del potere, ma della potenzialità della performance come atto che produce l’esodo.

Forse occorre un passo indietro. Fred Herko è volato fuori dalla finestra di un appartamento del Greenwich Village nel 1964. Il suo consumo di speed era noto e imbarazzante perfino per le altre persone della Factory, che com’è altrettanto noto, non consumavano tè e biscottini ai loro incontri. Lamentava in continuazione la lentezza del mondo – sono le anfetamine, darling – in un corpo accelerato dal consumo di sostanze. Una lurida puttana, come fu definito da altri artisti dello stesso entourage, senza fissa dimora, una frocia sfranta che si bruciò troppo velocemente all’ombra della Factory di Wharol, che ha prodotto più rifiuti che arte. Il grande artista, com’è altrettanto noto, era un sadico di merda e sfruttò Herko per molte delle sue produzioni, tra queste probabilmente la più famosa è Roller Skates, alla fine della quale, dopo giorni a giare scalzo per New York, a Herko sanguinavano i piedi. Questa è grande arte signori. Fred Herko si spoglia nella casa di un suo amico; inizia a ballare, come sempre, nel suo stile sopra le righe; non è mai stato chiaro se volesse davvero suicidarsi o letteralmente stava fuori come un balcone. L’unico spettatore presente si rammaricherà per sempre di non aver filmato il suo capolavoro definitivo.

Muñoz riprende la nozione negriana di plusvalore, come quella parte incontrollabile e potenzialmente distruttiva integrata all’interno della formulazione del lavoro in questa configurazione del capitalismo contemporaneo. Sviluppando questo pensiero con quello che abbiamo analizzato nei seminari precedenti possiamo provare a formulare una nostra nozione di plusvalore queer: all’interno della produzione immateriale esiste una componente personale, che non è solo quella che produce il profitto, è anche e soprattutto quella componente sessualizzata che rappresenta la potenzialità di hackerare il sistema.

È impossibile seppellire o ignorare i pensieri intrusivi, bisogna attraversarli e provare a trovarne un senso, e comincio a intravederlo all’orizzonte. Leggo questo testo accanto a quello di Mark Fisher, un suo pensiero sulla depressione in cui racconta della sua esperienza; un testo che ha acquistato, piuttosto che perso, significato al momento del suo suicidio, anche grazie alla larghissima diffusione. In questo testo Fisher insiste sulla necessità di rileggere la depressione, che comunque ha segnato la sua personale esistenza, in una prospettiva politica più ampia di crisi generalizzata e malessere sociale. Rileggo questo pezzo di Muñoz non più come una resa al nichilismo, quanto piuttosto un ulteriore modo di tracciare delle mappe relazionali anche nei momenti più cupi dell’analisi queer. La sua tesi sull’utopia non è, infatti, la produzione di un ideale naif delle potenzialità del futuro. Tutt’altro. Questa temporalità proiettata all’orizzonte ancora da venire non è bonificata dalle memorie, è piuttosto un momento estatico in cui tutto questo può essere percepito, popolato anche di fantasmi e momenti difficili.

Il potenziale trasformativo della costruzione di relazioni ha radici piantate in un mondo percepito come insostenibile così com’è. Da qui la necessità di smettere di pensare al qui e subito e l’urgenza di direzionarsi verso l’allora altrove. Nell’analisi dell’estetica delle pratiche queer risiede la via di fuga ma anche la possibilità di fare mondi. Dunque non è corretto continuare a tracciare la vecchia riga che separa l’esodo praticato dall’artista dalla radicalità delle esperienze politiche collettive. Tutto ha radici in un mondo da trasformare. Queerness is not yet here, la frocianza non è ancora qui.

Guardare all’orizzonte come luogo e tempo delle speranze ci costringe a dover scrivere anche storie di delusioni e disillusioni, ma affrontare le aspettative significa anche abbandonarsi all’arte queer del falimento. L’utopia stessa, come mancanza di pragmatismo, è il fallimento del desiderio di essere normale, un colpo al cuore del produttivismo. Dalla teoria postcoloniale queer ho imparato che il fallimento ha un’aura di privilegio che chi deve pagare le bollette non può permettersi, ma per me, in questo momento, accogliere il fallimento mi libera dall’ansia di essere all’altezza del reach-out di questi post e mi permette di prendere parola, politicizzare e inserire in un contesto più ampio questa ansia. Mica poco per una giustificazione di non aver fatto il mio dovere?

Muñoz analizza il fallimento accanto al virtuosismo, poiché nella sua stessa matrice c’è la potenzialità: quello che poteva essere e non è stato; quello che ancora un giorno potrà essere… incluso un nuovo fallimento!

Chiara Fumai è morta, Mark Fisher è morto, Muñoz è morto, Herko è morto… e anche io non mi sento tanto bene.

Paul Preciado Testo Junkie

Le streghe son tornate incinte. Di giustizia riproduttiva, ormoni e resistenza transfemminista.

A blizzard of hormones,
for months,
undersea volcanoes spewing hot affects
tectonic emotional swings
intense food cravings
my body is foreign to me
it’s changing, in ways I don’t like,
shape, texture
and so many little blacks hairs coming back,
despite being tortured out of existence,
on my cheeks, in my cleavage,
I have to wear baggy clothes,
all my underwear was too tight
for gamete making temperatures,
I have to take my vitamins every day,
all to make a baby.
I’m a trans woman
and I’m pregnant.

 

Sullo schermo lentamente mettono a fuoco, da un lato le immagini da un microscopio, dall’altro le parole. Lentamente viene alla luce questa gravidanza di donna trans, in un progetto che mette in versi l’appropriazione della scienza per realizzare allo stesso tempo un desiderio e un atto di giustizia riproduttiva.

In Italia ci stiamo organizzando per i 40 anni della legge 194. Più che una celebrazione, un momento di condivisione di lunghe resistenze e nuove lotte, per la contraccezione consapevole, l’aborto libero e gratuito, per una visione non medicalizzata dei corpi. La difesa dei consultori non guarda al passato ma abbraccia le esperienze delle consultorie autogestite in cui i soggetti stessi possano produrre e far circolare strumenti e conoscenze per il proprio benessere.

Intanto arrivano in Europa donne dai Sud, dove i governi occidentali e le case famraceutiche sono ben liete di impiantare contraccettivi sottocutanei che le donne si fanno installare con la certa disperazione di subire stupri durante il lungo viaggio che le separa dall’Occidente. Molto spesso i medici che incontreranno una volta arrivate si rifiuteranno di rimuoverli “per ragioni di sicurezza”. La lotta per la giustizia riproduttiva ha molti volti, tutte istantanee dell’autodeterminazione oggi. Uno di questi volti è quello di micha cárdenas, teorica, ma soprattutto bio artista e hackttivista, cioè a partire dalla riappropriazione della tecnologia, soprattutto fai da te, produce interventi critici usando anche il corpo come un’opera d’arte. Nei suoi versi ci racconta l’odio per i peli, la frustrazione che aumenta con il livello del testosterone da quando ha smesso di assumere estrogeni e T blockers. Lei non è testo junkie, non ha iniziato ad assumerli per sperimentare, né smette di assumerli per lo stesso motivo. Lo fa e l’ha fatto per necessità, lo ripete più volte tra le parole che scorrono, per il bisogno che esprime un incontenibile desiderio di vita, una pratica di resistenza alle aspettative sociali che segnano il suo destino in modo violento. Un desiderio di vita comprensibile solo a chi non conosce privilegio alcuno.

 

micha cárdenas

Pregnancy, dunque, non è una sperimentazione, ma un lavoro di scienza degli oppressi, un intervento poetico militante da parte della trans women of color. Per realizzare la gravidanza produce una banca di tessuto criogenico aka banca del seme. Vediamo sui vetrini il materiale organico in modo sempre più chiaro, attraverso la poesia si fa chiaro il suo progetto. I gameti aumentano e aumenta la loro attività fino a prendere tutto lo schermo, esplodendo in una vera e propria festa danzante negli ultimi fotogrammi. Un party in barba ai medici, ai bugiardini, alle bugie della scienza che l’ha obbligata per anni al lutto di un futuro riproduttivo da cui sarebbe stata esclusa con l’inizio della terapia ormonale. In molti paesi – compresa l’Italia e la Francia da cui scrive Paul Preciado di Testo Tossico – la procedura ufficiale per iniziare una transizione passa per una diagnosi di pazzia o, in modo più sofisticato disforia di genere, e prosegue con la sterilizzazione.

 

Pregnancy – from fembot collective on Vimeo.

 

Da questa prospettiva micha ci invita a rileggere le questioni della giustizia riproduttiva come un fallimento del femminismo e delle culture queer bianche nel guardare al futuro. Ed è da questa prospettiva che lei si attiva per riscriverlo a partire dal suo corpo. La sci-fi, new media art, le tecnologie digitali e il design speculativo, a chi spetta scrivere il futuro? Ci chiede. L’imperativo del No Future ha relegato ad anatema il desiderio riproduttivo queer, leggendolo solo attraverso le lenti miopi dell’occidente cisgenere. Dai suoi versi sputa sulla filosofia occidentale, anche quella considerata più all’avanguardia e critica, e si fa prestare parole e sangue da Gloria Anzaldua, invece, per celebrare la resistenza vitale, il suo lungo sguardo volto agli orizzonti futuri, per sciogliere i cappi che da sempre legano le donne trans ad immaginari mortiferi. “I want more than just to live”.

Il video mette a fuoco lentamente e fa molto di più che trovare parole a tutte le domande che ci stiamo ponendo. Le immagini si susseguono insieme ai versi e intanto micha sente la vita crescere dentro di sé, 9 milioni di vite. Quante persone ci sono dentro di me? Una moltitudine. E ce la mostra. Sadie, un’altra donna trans conosciuta su un forum per la gravidanza di donne trans, le consiglia di non pagare nessuno specialista, quello di cui ha bisogno per portare avanti il progetto è un microscopio giocattolo e dei vestiti larghi. L’esperienza e la condivisione orizzontale sono la vera sfida alla scienza. Per conoscere la strada del Pharmacon e delle droghe bisogna battere le strade delle streghe, ci racconta Preciado, accompagnato da Silvia Federici. Dobbiamo infatti tener presente che la persecuzione delle streghe è la storia del capitalismo e del colonialismo, una storia fatta di appropriazione di terre, risorse, forza lavoro e annientamento delle resistenze. Le donne che curano, a partire da conoscenze autoprodotte e tramandate orizzontalmente, restano la più grande resistenza alla medicina, intesa come potere di disciplina dei corpi. Così tutti i saperi femminili, froci e non occidentali sono da espellere con violenza da dove si produce il sapere tradotto in scienza. I roghi sono così il tentativo di porre fine ai “saperi narco-sessuali”, ma ancora oggi, proprio come ci mostra micha cárdenas, il fuoco brucia sotto la cenere. La scienza e la tecnologia sono state utilizzate per patologizzare le esperienze di cura collettiva, bonificare del potenziale erotico i processi di soggettivazione collettiva e distruggere definitivamente l’ecologia di corpi, territori e risorse. Ed è prorio da qui che monta la resistenza.

Copertina dell’edizione in inglese di Testo Junkie

Paul B. Preciado, nel suo saggio/memoire sull’esperienza della transizione, Testo Tossico, colloca la questione degli ormoni all’interno della tecnologia dei generi. L’ormone non produce genere, ma ne apre le porte. Se Judith Butler definisce il genere come imitazione senza modello, l’ormone per Preciado realizza il sogno di transitare da una finzione all’altra. L’estrogeno non è la femminilità, che è un effetto della tecnologia sociale, ma è vettore per il divenire molecolare che apre la porta ad infinite possibilità narrative. Ormone, sin dalla sua etimologia è ciò che scatena; una frattura epistemologica che ci obbliga a dover pensare i confini tra dentro e fuori. È a tutti gli effetti una tecnologia di trasmissione wireless, che ci obbliga ad espandere i confini del corpo e della biopolitica ben oltre i confini della pelle. Allo stesso tempo a ripensare al modo in cui il potere scrive sui nostri corpi e a noi spetta appropriarcene per produrre e narrare nuove resistenze.

Giovedì 22 marzo, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, per il ciclo di seminari “Postcoloniale, queer e femminista: percorsi di lettura per una vita non fasista“, discuteremo intorno a Testo Tossico di Preciado per ragionare sul regime post-industriale “farmaco-pornografico”, che prende in considerazione, cioè, i processi molecolari di governo della soggettività sessuale, così come le tecnologie di produzione e rappresentazione del corpo. “La verità sul sesso non è svelamento, ma sex design”.

Nina Ferrante

 

Postcoloniale, Queer e Femminista: traduzione della prefazione di Denise Ferreira Da Silva ‘Toward a Global Idea of Race’ 1 Marzo 2018, ore 16.30

Dopo il seminario dell’8 febbraio dedicato a Critique de la raison negre di Achille Mbembe, il 1 marzo 2018 alle ore 16.30 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si terrà il secondo appuntamento del ciclo di seminari ‘Postcoloniale, Queer e Femminista: Percorsi di lettura per una vita nonfascista‘ organizzato dalla Technoculture Research Unit (Centro di Studi Postcoloniali e di Genere, Università L’Orientale). Insieme a Silvana Carotenuto e Claudia Bernardi, parleremo di un altro saggio di filosofia nera, cioè il volume della filosofa e teorica afrobrasiliana Denise Ferreira da Silva Toward a Global Idea of Race (Minnesota University Press, 2007)

Toward a Global Idea of Race è un’archeologia del sapere che colma in maniera necessaria e acuta quell’enorme vuoto nella critica foucauldiana che riguardava il rapporto tra l’emergere dell’Uomo come figura del soggetto e l’individuazione dei suoi Altri sulla base di quello che Da Silva chiama ‘l’arsenale simbolico del razziale’. Da Silva parte dunque dal problema costituito dal fatto che la ‘morte del soggetto’ o dell’uomo, annunciata dal pensiero postmoderno e proseguita nella teorizzazione del postumano, non ne ha provocato la scomparsa. Per Da Silva, il ‘fantasma’ del soggetto, cioè di quella costruzione del soggetto postilluminista che incarnava i principi di universalità e auto-determinazione, continua a infestare il presente con i suoi strumenti e con il materiale usato originariamente nel suo assemblaggio. Lungi dal costituire un elemento che arriva dopo la costituzione del soggetto post-illuminista e degli strumenti della ragione universale, e che sarebbe definito esclusivamente dalla sua ‘esclusione’, il razziale definisce dall’interno la differenza tra il soggetto libero e auto-determinato (che lei chiama ‘trasparente’) e quello che invece è in qualche modo sempre oggetto del sapere e soggetto alle leggi della (sua) natura.

In un serrato confronto con la filosofia moderna, le scienze umane e sociali, gli studi postcoloniali e le teorie critiche sulla razza, Ferreira insiste che il razziale costituisce il dispositivo discorsivo e scientifico principale attraverso cui il soggetto europeo postilluminista si è costituito la sua libertà (auto-determinazione e trasparenza o invisibilità) e che per smontare quello che lei definisce l’arsenale della razza bisogna confrontarsi con il sapere scientifico e non solo con il discorso storico. Se oggi appunto il sapere scientifico (pensiamo all’uso dei Big Data per produrre nuove mappe del sociale e trovare nuovi ‘leggi’ che lo determinano) è egemone rispetto a quello storico (associato con le inutili scienze umane), e se inoltre le nuove macchine computazionali che producono l’infrastruttura tecnosociale contemporanea incarnano il diventare processuale della ragione (come software e computazione), allora il focus di Da Silva sulla scienza e sulla ragione ci sembra fondamentale.

Per Da Silva,  il nomos produttivo (cioè la ragione in quanto principio regolatore del mondo che ho sostituito il volere divino e la magia) ha risposto al problema di come difendere il soggetto umano dalla minaccia di essere determinato dall’esterno da leggi scientifiche rendendo questo soggetto da un lato trasparente (non problematizzato, invisibile) e dall’altro costituendo uno spazio globale in cui distribuire i popoli che invece sono soggetti alla determinazione delle leggi della ragione universale. I discorsi razziali che circolano sulla rete testimoniano il modo in cui ancora il globale rimane lo spazio della differenza razziale (sotto il nome di differenza culturale) diviso tra soggetti auto-determinati e moralmente superiori (europei e bianchi) e soggetti razzializzati. I soggetti razzializzati sono sempre moralmente e socialmente (culturalmente) sospetti nella misura in cui a loro si offre l’opzione odi diventare completamente come ‘noi’ (assimilarsi oppure ‘essere obliterati’ secondo Da Silva) o rimanere segregati nelle ‘loro’ regioni del mondo o quartieri (ghetti e banlieu) secondo quella che Da Silva, nella sua analisi della sociologia delle relazioni razziali della scuola di Chicago, chiama la ‘sociologica dell’esclusione”. E allora è un caso che al primo Global Community Summit di Facebook dedicato ai gruppi e ai loro amministratori non ci siano le iniziatrici del movimento Black Lives Matter (Patrisse Cullors, Opal Tometi, e Alicia Garza)?

E’ questa socio-logica inoltre che spiega per Da Silva la sistematicità dello sterminio dei neri e degli scuri di pelle (quelli che in inglese si chiamano i black and brown people) come un effetto della differenza culturale e razziale, e che catalizza lo shock al pensiero prodotto dall’immagine seriale e ripetuta del corpo nero (maschio e giovane) che cade sotto i colpi da sparo della polizia.. Quest’immagine che nella sua ripetitività ha scatenato negli Stati Uniti il movimento #blacklivesmatter si trova non a caso anche in un altro importante saggio della critica nera e femminista contemporanea, In the Wake: On Blackness and Being di Christina Sharpe, in cui la questione del trauma originario del middle passage ma anche di tutti i successivi lutti e morti diventa centrale. All’inizio dell’archeologia del razziale assemblata da Da Silva, non troviamo più la rappresentazione pittorica dell’emergere del soggetto moderno, come ne Las Meninas di Diego Velasquez nelle prima pagine d Le Parole e le cose di Foucault, ma la serialità di un corpo nero o scuro che cade sotto i colpi di pistola e del suo dialogo (immaginario) con i poliziotti che lo uccidono. Da Silva ci chiede di soffermarci su queste domande: cosa significa pensare la nascita della modernità e la morte del soggetto a partire dal razziale come significante della differenza umana e costitutivo dello spazio globale? Perché la nozione di ‘differenza culturale’ come sostiene Da Silva, non ha fatto che replicare gli effetti del razziale (la trasparenza dell’occidente e l’affettabilità dei suoi altri?) Perchè i soggetti non-trasparenti (cioè soggetti a una determinazione esterna) sono sistematicamenti preclusi dalla presunta universalità del diritto? E inoltre, nelle parole di Da Silva, come razionalizza e spiega il sapere sociale scientifico l’omicidio continuo della gente di colore?

A seguire proponiamo dunque una breve traduzione (a cura dell’autrice di questo post) delle prime pagine di Toward a Global Idea of Race invitando chi ci legge e chi può a raggiungerci all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli l’1 Marzo alle ore 16.30. Vi invitiamo anche a rileggere la traduzione di Beatrice Ferrara di ‘Differenza senza Separazione’ di Da Silva sempre su questo blog, dove la ‘differenza culturale’ (per Da Silva il nome contemporaneo per la differenza razziale) viene affrontata dal punto di vista delle concezioni del tempo e dello spazio della fisica newtoniana, della teoria della relatività e della fisica quantistica – proponendo che concetti come ‘nonlocalità’, ‘incertezza’ e ‘entanglement’ possono rappresentare nuovi indicatori poetici per ripensare la differenza oltre la separabilità.

Prefazione: Prima dell’evento

La nostra generazione è morta quando i nostri genitori sono nati

BRUNO, MASCHIO NERO, ETA’ 18 (META’ ANNI 90)

Quel momento che cade tra il rilascio del grilletto e la caduta di un altro corpo nero, di un altro corpo scuro, e di un altro ancora… infesta questo libro. Che si può fare? Catturare questo momento e mentre si ricorda, ri-significare e ri-configurare quello che si trova a monte di questi momenti elusivi. Forse, se si formulano delle domande o nomina un problema? Che tipo di spiegazioni sono state messe insieme? Quando è diventato scontato, cioè una verità scientifica, un fatto di esistenza globale, che le generazioni sono morte a un certo punto nei primi anni 60? Come mai così tante generazioni sono morte mentre io nascevo? Chi è morto? Perché? Ci sono troppe risposte a queste domande… Ascoltami… leggimi…

Sono morto.

Sei giovane e nero. Vivi in un quartiere dove il crimine prospera. Togliamo le armi dalle strade, arrestiamo pericolosi criminali. Succede che vivi in un posto che ha il tasso più alto di omicidi e stupri. Noi abbiamo lavorato bene. Ci siamo avvicinati al tuo palazzo, ci sei sembrato sospetto; ci siamo fermati, siamo usciti dalle nostre macchine con le nostre pistole, e ti abbiamo detto di alzare le mani. Abbiamo sparato. Siamo la polizia. Siamo stati addestrati molto bene a fare il nostro lavoro.

Sono un immigrato. Lavoro. Ho i miei documenti. Vivo qui perché costa poco. Appartengo a un’ importante famiglia africana. Perché mi avete ucciso?

Sei nero, sei maschio e sei giovane. Non ne sappiamo niente di importanti famiglie africane. In Africa i neri vivono nelle capanne, cacciano e raccolgono durante il giorno, mangiano e cantano la notte, e si ammazzano tutto il tempo. Lì non c’è domani. Stai meglio qui. Perché stai morendo? Tu sei nero e giovane. Sei in carcere o in libertà condizionata. I liberali dicono che l’America è una società razzista. Dicono che i neri e gli scuri di pelle sono o totalmente senza lavoro o concentrati nei lavori peggio pagati; dicono che i datori di lavoro non assumono i giovani maschi neri. Voi siete il sottoproletariato: gente senza futuro, gente che non si sa comportare perché le istituzioni – famiglie, imprese, chiese e così via – hanno lasciato i ghetti insieme alla classe media che ha approfittato delle discriminazioni positive per trovare lavori migliori e posti migliori in cui vivere. Tu spacci. Tu sei uno stupratore. Tu sei un criminale. Tu potresti persino essere un terrorista. Noi ti cacciamo dalle strade. Se non ti arrestiamo, ti spareremo, con tutti i proiettili necessari.

Io sono un Fulani.

Sei in America adesso. Questa non è l’Asia o l’Africa. Qui è diverso. Alcuni radicali dicono che la gente come te non ha possibilità. Tu sei nero. Non ci piacciono i neri. Dicono che l’America è la terra della supremazia bianca. Non è solo che non ti assumiamo, ma anche che tu ci aiuti a creare un legame tra gli Americani bianchi. Tu fai funzionare il sistema.

Ma se io faccio tutto ciò… perché mi uccidete? Se mi tenete semplicemente nel ghetto, se non ho una scuola decente, un lavoro decente, diritti sociali… Voi avete tutte le risposte. Voi mi conoscete. Perché avete bisogno di uccidermi? Non vi basta essere bianchi?

In questo libro mi confronto con l’apparato di sapere – gli strumenti scientifici del sapere razziale – che produce questa domanda… Contro l’assunto che l’elemento storico costituisce il solo contesto ontologico, esamino il modo in cui gli strumenti dei progetti scientifici ottocenteschi hanno prodotto la nozione del razziale che istituisce il globale in quanto contesto ontoepistemologico – un gesto violento e produttivo necessario a sostenere la versione post-illuminista del Soggetto come la sola cosa esistente che si auto-determina. L’arsenale dei saperi che in questo momento governa la la configurazione globale (giuridica, economica, e morale) istituisce l’assoggettamento razziale mentre presuppone e postula che l’eliminazione dei suoi ‘altri’ è necessaria per la realizzazione dell’esclusivo attributo etico del soggetto, cioè l’auto-determinazione.

Nel corso di questo libro produco uno scavo della rappresentazione moderna mentre cerco di afferrare il ruolo produttivo che il razziale gioca nelle condizioni post-illuministe. Ogni parte del libro descrive un momento particolare di questa impresa. In primo luogo, considero il contesto di emergenza, e l’irrisolto problema ontologico che infesta la filosofia moderna dal primo diciassettesimo fino al primo diciannovesimo secolo, cioè proteggere l’uomo, l’essere razionale, dai poteri vincolanti della ragione universale. Questa lettura rivela che tutto ciò è stato fatto scrivendo il soggetto come una cosa storica e auto-determinata – una soluzione temporanea consolidata solo alla metà dell’Ottocento, quando l’uomo è diventato un oggetto del sapere scientifico. Secondo, la mia analisi del regime di produzione del razziale mostra come le scienze umane e sociali hanno affrontato questo problema ontologico fondamentale usando la differenza razziale come un attributo costitutivo dell’umano. Questa soluzione istituisce l’enunciato più basilare dell’assoggettamento razziale: mentre gli strumenti della ragione universale (le “leggi della natura”) producono e regolano le condizioni umane, in ogni regione globale, essa stabilisce (moralmente e intellettualmente) diversi tipi di essere umani, nominalmente, il soggetto auto-determinato e i suoi altri determinati da forze esterne, coloro le cui menti sono soggette alle loro condizioni naturali (nel senso scientifico). Precisamente questo enunciato, sostengo, sottende l’argomento basilare della sociologia delle relazioni razziali, cioè, che le cause della subordinazione degli altri d’Europa risiede nelle loro caratteristiche fisiche e mentali (morali e intellettuali) e il postulato che la soluzione al problema dell’assoggettamento razziale richiede l’eliminazione della differenza razziale. Infine, la mia analisi dei suoi effetti di significazione mostra come questo enunciato e gli strumenti scientifici che lo sostengono informano la costruzione prevalente dei soggetti statunitensi e brasiliani. In questi scritti, gli strumenti storici e scientifici producono contemporaneamente il soggetto nazione come un essere auto-determinato mentre circoscrivono la regione morale subalterna (altro-determinata) abitata dai membri non-Europei della comunità nazionale.

Dietro questo libro c’è il desiderio di comprendere perché e come dopo un secolo di confutazioni, il razziale sembra governare incontrastato la configurazione globale contemporanea. Spero che la mia critica della rappresentazione moderna dimostri che la forza politica del razziale risiede nel fatto che costantemente (ri)produce l’enunciato fondativo ontologico moderno. Ogni uso del razziale consistentemente articola l’attributo speciale dell’uomo, l’auto-determinazione, mentre fa esistere e contemporaneamente disconosce quello che significa altri-menti, annunciando la sua necessaria eliminazione. Poiché la spiegazione prevalente dell’assoggettamento razziale segue anch’essa questo mandato ontologico, non ci sorprende che oggi è usata in spiegazioni che sminuiscono le morti violenti della gente di colore, mentre un’infinita evidenza scientifica sociale le rende non solo scontate (in quanto risultato dell’esclusione giuridica e economica) ma anche giustificate (in quanto l’esito previsto della traiettoria della coscienza altro-determinata). Sento la domanda: come giustifica il sapere sociale scientifico l’omicidio della gente di colore? La mia risposta è: come spiega questo omicidio l’arsenale delle scienze sociali? Nelle prossime pagine offro una risposta temporanea a tutto ciò.