Da circa un secolo il termine tabloid è associato al peggio della stampa in circolazione, nonostante la categoria britannica includa in realtà una varietà di orientamenti politici e sociali. Nell’era di Brexit, i tabloid sembrano però avere guadagnato nuova baldanza, soprattutto quelli che hanno deciso di sposare e incitare la linea xenofoba e anti-europeista. Il risultato è stato un aumento tangibile di prime pagine con titoli contro migranti e rifugiati in particolare su The Daily Mail, The Daily Express e The Sun.
Non è un caso quindi che da agosto 2016 esista una campagna in UK che tramite un sito, un account su Twitter e Facebook e alcuni video ben confezionati, punta il dito contro il linguaggio dei tabloid e i loro continui attacchi a migranti e rifugiati politici.
Per Richard Wilson, il fondatore di Stop Funding Hate, il punto di svolta è arrivato nel 2015, quando il consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva invitato il Regno Unito a mettere un freno all’incitamento all’odio razziale a mezzo stampa dei tabloid. A richiamare l’attenzione del Consiglio era stato un articolo apparso su The Sun in cui i migranti in transito nel Mediterraneo venivano definiti scarafaggi.
Wilson vede un legame diretto tra l’aggressività anti-migranti dei tabloid e i crimini di discriminazione razziale che nel Regno Unito sono aumentati del 40% tra il 2015 e il 2016. “Ovunque tu vada, anche se non compri questi giornali, vedi comunque i loro titoli. Questo ha un impatto inevitabile sul modo in cui la gente pensa”, dice. Per quanto l’idea di un’influenza diretta sul ‘pensiero’ dei lettori azzeri cinquant’anni di studi sull’audience, la visibilità dei tabloid è certamente pervasiva nella loro capacità di influenzare altri media e di condizionare i limiti del dibattito politico, attraverso un processo che è stato descritto come tabloidization.
In un momento in cui le false notizie fanno ancora più notizia nelle catene di rimandi multimediali dalla stampa al digitale e viceversa, la battaglia di Stop Funding Hate contro i tabloid e i loro titoli velenosi ha raccolto finora 72.000 follower su Twitter e 230.000 su Facebook. Una campagna ambiziosa che dall’inizio guarda in alto, come dicono sul sito, per “cambiare i media una volta e per tutte”.
“Hate is a business model”
Stop Funding Hate è forse il primo caso di una campagna generalizzata, non mirata a un giornale né a un tema specifico, con un approccio ‘educativo’ ma allo stesso tempo molto pragmatico, che punta alle tasche di un settore della stampa storicamente sordo a richiami ‘morali’. Dal novembre 2016 la campagna Sleeping Giant persegue una missione simile nell’America di Trump, anche se circoscritta per lo più all’ambito digitale, allontanando gli inserzionisti da siti come Breitbart News.
A differenza del boicottaggio classico, quello di Stop Funding Hate non vuole incidere quindi su chi acquista i tabloid, ma sugli inserzionisti che li finanziano con la loro pubblicità. Il punto secondo SFH è che “hate is a business model”. Nonostante le inserzioni sulla carta stampata nel complesso continuino a perdere terreno rispetto a quelle online, il mercato della stampa nel Regno Unito e soprattutto quello dei tabloid rimane infatti molto redditizio.
Un business model che funziona in maniera piuttosto intuitiva: i titoli che danno addosso ai migranti fanno salire le vendite, e questo rende i giornali più desiderabili per gli inserzionisti. Il punto è, secondo SFH, che sebbene molti cittadini britannici non comprino i tabloid, la maggior parte di loro comunque si serve dei grandi marchi che fanno pubblicità sulle loro pagine, contribuendo quindi indirettamente ai profitti di questi giornali.
SFH cerca di fare leva sul profilo etico che molti di questi marchi si sforzano di mostrare su altri versanti, ergendosi a difensori contro le discriminazioni sul luogo di lavoro o promuovendo ‘valori sociali’. Eppure, quando si tratta di investire il budget pubblicitario, questi valori sono generalmente ignorati. È quanto hanno ribadito infatti dalla catena di grandi magazzini John Lewis: nonostante la “piena comprensione” degli argomenti i di SFH, non intendono entrare nel merito dei contenuti editoriali dei giornali dove piazzano le loro pubblicità.
Ma altri inserzionisti sembrano effettivamente sensibili al mantenimento della loro immagine, e perciò disposti a venire a compromessi. Il caso di maggiore successo è stato finora quello di Lego. A inizio novembre, poco prima del picco delle vendite prenatalizie, la compagnia danese ha ceduto alle pressioni di SFH, aggiuntesi all’appello inizialmente lanciato da un genitore su Facebook, e ha comunicato l’interruzione degli accordi commerciali con The Daily Mail. Prima e dopo Lego, anche la catena di ottica Specsever, The Body Shop e il provider di servizi internet Plusnet hanno interrotto le inserzioni su The Sun e The Daily Mail.
Il risultato più importante e indicativo per l’intero mercato pubblicitario britannico potrebbe però arrivare a maggio, quando la catena di supermercati (nonché’ banca ‘etica’ e impresa funebre) Co-op annuncerà la sua decisione a riguardo, dopo il la riunione annuale dei membri. Nei mesi precedenti, Co-op ha già mostrato di prendere almeno in considerazione le richieste pervenute via social media. Stop Funding Hate ha raccolto finora 7.700 firme e altre migliaia di visualizzazioni e condivisioni del video apposito. Se Co-op decidesse di assecondarne le richieste, concorrenti come Sainsbury’s potrebbero seguire l’esempio.
Tra economia morale elitista e populista
Gli oppositori accusano di la campagna di essere “elitista” e di promuovere la censura, riprendendo il noto ritornello della libertà di parola e di stampa come valore supremo. Ma come sottolineano i fondatori di SFH, in questo caso non si tratta di ostacolare o difendere una libertà individuale, quanto di contrastare “un modello di affari che ha un effetto negativo sulla vita delle persone”. Senza necessariamente tirare in ballo ogni volta, peraltro erroneamente, il povero Voltaire.
Eppure, la questione non è solo morale, poiché la campagna inevitabilmente comporta una serie di incentivi e disincentivi economici per gli inserzionisti che decidono di assecondarla. Il fatto che il sito di moda Thread si sia schierato con SFH, per esempio, si è subito trasformato in ottima pubblicità per lo stesso Thread tra gli utenti su Twitter e Facebook. Nel caso di Lego, analogamente, parecchi utenti hanno subito espresso apprezzamento per l’azienda mostrando i loro ultimi acquisti di mattoncini colorati. “L’incoraggiamento a ‘fare la cosa giusta’ per le compagnie deve funzionare in termini economici”, ha ammesso lo stesso Wilson.
Stop Funding Hate ha anche cominciato a raccogliere fondi per allargare il suo raggio di azione, per trasformarsi da “movimento” in “organizzazione”, superando in poco tempo le centomila sterline. L’obiettivo finale della campagna, precisa Wilson, non è però richiedere un qualche tipo di regolamento statale, o fare in modo che uno di questi tabloid sia ritirato dal mercato; basta limitarsi a non contribuire alla loro crescita e ai loro guadagni.
Social Network, tabloid e pubblici incrociati
Cosa ci dice questo sullo stato dei rapporti tra vecchi e nuovi media, e in particolare tra stampa e social networks? Da una parte che vecchi carrozzoni come i tabloid, nonostante il declino complessivo della carta stampata, sembrano ancora capaci di stabilire i termini del dibattito politico. Dall’altra, i social network possono dare forma a molteplici alternative in termini di discussione, informazione e contestazione; ma possono anche contribuire a legittimare, direttamente o indirettamente, il ruolo dei media mainstream. I nuovi media hanno sicuramente consolidato nell’ultima decade l’immagine di paladini della giustizia dei prosumers, soprattutto in seguito alle contestazioni globali del 2011-2014. Ma in tempi di tensioni politiche e sociali come il post-Brexit, in cui l’establishment mediatico tende a ricompattarsi sul versante conservatore, rischiano di giocare soprattutto di rimando o in difesa.
Intanto i pubblici nazionali mantengono o esasperano le divisioni interne. Giornali “di qualità” come The Independent e soprattutto The Guardian hanno una tiratura notevolmente più bassa, ma anche un numero decisamente più alto di seguaci su Twitter e Facebook rispetto ai principali tabloid. Nel complesso quindi gli utenti dei social media in UK hanno meno probabilità di essere lettori dei tabloid presi di mira da Stop Funding Hate. I due rimangono quindi gruppi poco comunicanti. A prescindere da quanti firmino la petizione o condividano i video di SFH, il pubblico dei tabloid rimane comunque ben solido, e troppo allettante per molte compagnie in termini di pubblicità.
Di sicuro, il fatto che una parte dei lettori di giornali si sia già spostata online, sta mandando lentamente ma progressivamente in crisi la pubblicità su carta stampata, che cerca di resistere con strategie più o meno discutibili. Quello che SFH ha reso chiaro però è che per molti non è più accettabile che gli inserzionisti pretendano di non curarsi dei contenuti dei giornali in cui fanno pubblicità. Se i grandi marchi dovessero cominciare uno dopo l’atro a ritirare le inserzioni, i tabloid saranno costretti per lo meno temporaneamente cambiare strategie e bersagli.