In ambito artistico, l’iconoclastia femminista si è rivolta in genere contro la rappresentazione di una femminilità osservata da e destinata a uno sguardo esclusivamente maschile. Le suffragette se la prendevano con i Preraffaelliti e le femministe della seconda ondata aggredivano le donne incastrate in pezzi d’arredamento di Allen Jones (oggi membro della Royal Academy e la cui visione della sessualità continua a essere definita “giocosa”). In questa tradizione si inserisce l’accesa controversia di quest’anno (si veda a tal proposito l’articolo di Betty Argenziano ripreso nel comunicato di Non Una di Meno ) sorta intorno all’installazione della versione gigante della poltrona Up 5&6 (1969) di Gaetano Pesce, un rotondeggiante tronco femminile senza arti per l’occasione trafitto da centinaia di frecce e intitolato Maestà sofferente. Ma la rabbia iconoclasta delle femministe non ha risparmiato neppure le figure e, per tramite loro, gli eventi congelati in una visibilità permanente a scapito, o meglio sulla pelle, dei corpi delle donne, il cui vissuto è stato all’opposto oscurato, quando non del tutto cancellato dalla memoria storica e spaziale di questi monumenti. Parte integrante di un tessuto sociale che si ritrova nello spazio pubblico condiviso, quando questo tessuto si smaglia o si buca, i monumenti sono soggetti a distruzioni rovinose che, invertendone la rigida verticalità con una scomposta orizzontalità, ci ricordano che la vita è “erroneamente considerata come una elevazione”, per usare le parole di Bataille.
È di qualche settimana fa la notizia della vincitrice del concorso indetto per rimpiazzare il monumento dedicato a Marion Sims, noto come “il padre della ginecologia”, che fino all’anno scorso si trovava nel Central Park di New York, in corrispondenza della New York Academy of Medicine, e che è stato rimosso dopo le proteste dell’estate 2017. Sulla scia delle vicende di Charlottesville, Virginia – dove qualche giorno prima, durante gli scontri sorti in seguito alla decisione di rimuovere la statua del generale dei confederati schiavisti Robert Lee, Heather Heyer era stata uccisa da un suprematista bianco – il 17 Agosto alcune componenti del Black Youth Project 100 inscenavano una performance indossando dei camici da ospedale macchiati di vernice fucsia. Un’idea ripresa dalle attiviste di NUDM, che l’8 Marzo di quest’anno hanno imbrattato con lo stesso colore la statua di Indro Montanelli a Milano per riportare l’attenzione sulla vicenda del suo acquisto di una bambina eritrea durante l’invasione italiana dell’Etiopia.
Tra i quattro progetti finalisti del concorso di New York, era stato selezionato in prima battuta quello di Simone Leigh, una figura femminile recumbente racchiusa in una siepe quadrangolare, poi sostituito con la proposta di Vinnie Bagwell, Victory Beyond Sims, un bronzo di donna con il caduceo in una mano e la fiamma perenne della vittoria nell’altra, a causa delle proteste della comunità di East Harlem. Gli altri due progetti finalisti prevedevano, quello di Kehinde Wiley tre donne unite per i capelli, quello di Wangechi Mutu un corpo umano seduto su un’enorme preda animale, entrambi fusi sotto una medesima membrana, a sottolineare la connessione tra le violenze coloniali esercitate sui corpi delle donne nere e sui corpi animali – nessi molto chiaramente evidenziati dall’analisi intersezionale di Breeze Harper a partire proprio dalla storia di Sims.
È il 1846 quando Marion Sims, medico originario della Carolina del Sud, si trasferisce a Montgomery, Alabama, dove allestisce un ospedale sul retro di casa con l’intento di ospitare delle pazienti su cui sperimentare una cura per le fistole vaginali (in genere causate da travagli prolungati o da un uso errato del forcipe). Come dilatatore per le sue ispezioni ginecologiche, Sims inizia ad usare una sorta di cucchiaio, perfezionato con l’aggiunta di uno specchio riflettente – lo speculum che prenderà poi il suo nome1. I pazienti di Sims sono donne schiave “prestate” alla medicina dalle piantagioni vicine, ormai rese “disabili alla schiavitù” a causa della loro patologia – che probabilmente sarebbe bastato un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie a tenere sotto controllo: le schiave infatti diventavano madri molto precocemente, erano spesso sottoposte a violenza sessuale, e malnutrite.
Nel sodalizio fra la ricerca medica e l’economia schiavista, i corpi disabili e dunque “inutilizzabili” delle schiave nere, impossibilitate al lavoro produttivo ma anche a quello riproduttivo così essenziale per quella economia (i dottori fornivano il pedigree ai compratori di schiavi per certificarne la salute fisica) erano riciclate nel circuito delle “piantagioni mediche” (Dudley), dove entravano per essere curate e protette ma finivano per scomparire. Qui, le pazienti vivevano separate dalle comunità di appartenenza e dal sapere che queste condividevano e tramandavano, e i loro corpi medicalizzati erano resi ancora più vulnerabili e impiegati come prove tangibili di teorie pseudoscientifiche in cui si consolidavano le intersezioni di razzismo, specismo e sessismo dell’ideologia coloniale.
Di queste donne, poco meno di una ventina, sono giunti a noi solo tre nomi, Anarcha (“raccolta” a diciassette anni dopo un lunghissimo travaglio), Betsey e Lucy, ma nulla si sa delle loro vite una volta prese in cura da Sims. Le poche notizie che abbiamo, infatti, arrivano dalle memorie del medico, anche perché alle schiave era proibito leggere e scrivere2; è dalle parole di Sims che apprendiamo, per esempio, che Anarcha fu sottoposta a ben trenta operazioni. Queste erano tutte eseguite senza anestesia, salvo somministrare alle pazienti, in fase post-operatoria, forti dosi di oppio, che più che funzionare da antidolorifico finiva per creare dipendenza e accentuare persino i sintomi delle fistole, a causa della costipazione provocata dallo stupefacente. Anche se molto probabilmente l’anestesia non era ancora una pratica diffusa (lo sarebbe divenuta di lì a poco), sebbene conosciuta, e anche se Sims la usò certamente sulle sue pazienti bianche3 una volta diventato un medico di “chiara” fama a New York, la convinzione eugenetica che i corpi dei neri fossero particolarmente insensibili e che ciò rispecchiasse la loro ebetudine e pigrizia patologica, teorizzata in quegli anni da Samuel A. Cartwright come “disestesia etiopica”4, escludeva a priori qualsiasi preoccupazione per il loro dolore fisico.
Che dai tempi di Sims lo speculum sia rimasto sostanzialmente identico, e che i pap test usati come primo strumento di prevenzione del tumore al collo dell’utero siano sempre più disattesi dalle donne, spesso per imbarazzo e paura, dimostra che il dolore fisico femminile è ancora una questione irrisolta: le invenzioni alternative all’attuale speculum, l’uso di materiali e forme meno invasive, un più adeguato training dei ginecologi a un maggiore rispetto delle differenze fra i corpi (per esempio nei casi di utero retroverso, che rende l’ispezione più dolorosa e richiede una diversa manualità) non hanno ancora trovato spazio adeguato. Per esempio, invece di prospettare alle donne possibilità più confortevoli come l’auto-ispezione, che nel 1972, anzi, causò l’arresto della femminista Carol Downer, accusata di insegnare alle donne questa pratica senza avere una licenza medica, e che oggi torna ad essere possibile grazie alla “decolonizzazione viscerale” del collettivo Gynepunk e del suo speculum DIY open source, le campagne contro il tumore al collo dell’utero tendono piuttosto a rivolgersi alle donne colpevolizzandole se non fanno una “prevenzione adeguata”.
Parlando della funzione sociale della primatologia e dell’orgasmo dei primati-femmina (Primate Visions, 1989), Haraway ha scritto che “la storia del femminismo moderno non sarebbe comprensibile senza la storia della moderna biologia della riproduzione e della ginecologia clinica”, tecnologie semiotiche e materiali che sostengono la missione morale del mantenimento dell’ordine e della purezza del corpo sociale. L’attenzione crescente, nel corso dell’Ottocento, per l’igiene e la salute concorreva alla costruzione del corpo di classe della borghesia, che si definiva e distingueva lungo gli assi del genere e della razza dai corpi degli altri categorizzati come infra-umani (Glick). Come ci ricorda Mary Daly in Gyn/Ecology (1978), nello stesso anno della Dichiarazione di Seneca Falls, il 1848, il Dottor Charles Meigs insegnava ai suoi studenti che il controllo degli organi femminili avrebbe permesso di controllarne la mente e lo spirito: tra le donne più pericolose5 c’erano le attiviste, le ostetriche, e le bloomer-wearers (cioè le donne che indossavano i pantaloni, che consentivano loro una maggiore libertà di movimento in tutti i sensi). E dieci anni più tardi, la clitoridectomia, che Sims praticava, sarebbe stata entusiasticamente accolta come cura per la “minaccia” della sessualità non riproduttiva e non strumentalizzabile che la masturbazione femminile rappresentava, presto affiancata dall’isterectomia, cura-pigliatutto utile come rimedio per un ampio ventaglio di “disordini”, dall’emicrania alle gravidanze indesiderate.
In questo contesto, lo speculum era impiegato come un dispositivo ottico, epistemologico e sociale insieme. Già a partire dalla sua etimologia, lo speculum chiama in causa la posizione di potere del Soggetto (verticale) di visione, che le analogie fra le immagini raffiguranti Sims alle prese con le sue pazienti e la nota incisione di Dürer con la donna sdraiata davanti all’artista che la ritrae in prospettiva illustrano molto chiaramente: l’amore per la verticalità accomuna sia l’impulso architetturale dell’umanità (così lo definisce Bataille) che l’immaginario dello specchio (Lacan). Di fronte allo specchio della scienza come a quello dell’arte, il corpo femminile è sulla scena di un teatro anatomico molto particolare (non a caso Sims era amico dell’impresario Barnum), senza tuttavia occupare mai la posizione dell’attore, poiché giace al contrario in un’orizzontalità forzata, che lo espropria del proprio stesso sguardo. Il corpo della donna appare soltanto perché il dispositivo, azionato dal soggetto che guarda e sa, possa esercitare su di esso il proprio potere, ma la storia del vissuto di questi corpi, in effetti, resta inarticolata e muta. Divenuti immagine senza parole, o del tutto scomparsi dietro altri sguardi e altre narrazioni, i corpi di Anarcha, Betsey e Lucy, e come loro di tante altre donne anche se non di tutte allo stesso modo, diventano oggetto d’indagine e strumento di sperimentazione, sono isolati, mutilati, anonimizzati.
Non solo la sterilizzazione forzata imposta per legge ma anche quella apparentemente “volontaria” era rivolta a donne economicamente svantaggiate e appartenenti a minoranze etniche, nell’ottica di un miglioramento della popolazione e dell’eliminazione delle vite “sbagliate” (Glick); prima di essere ufficialmente immesse sul mercato, le pillole anticoncezionali furono sperimentate in genere senza consenso sulle donne portoricane, sulle pazienti dei manicomi o sulle studentesse di medicina (minacciate di essere espulse dai corsi di studio se non collaborative). Ormai tristemente note sono la vicenda di Henrietta Lacks, una donna nera di umili origini di Baltimora, morta di cancro nel 1951, divenuta inconsapevole “donatrice” delle cellule tumorali poi denominate HeLa, replicate e usate nei laboratori di tutto il mondo ancora oggi (raccontata da Rebecca Skloot in La vita immortale di Henrietta Lacks, 2011); e quella di Saartjie Baartmann, la schiava nera di origini sudafricane divenuta ai primi dell’Ottocento un “fenomeno da baraccone” in tutta Europa per la sua steatopigia e per il suo “grembiule”, le labia minora particolarmente allungate, curiosità circense e scientifica (un sodalizio ricorrente) che dovette posare nuda per giorni davanti ai professori del Museo di Storia Naturale a Parigi, e servì da modello per le illustrazioni della Storia naturale dei mammiferi di Étienne Geoffroy Saint-Hilaire e Frédéric Cuvier, il quale ne avrebbe infine sezionato e analizzato il corpo dopo la morte precoce.
Prima della scultura di Bagwell che sarà installata a Central Park al posto di quella rimossa di Sims, se si eccettuano le già menzionate Gynepunk, il progetto artistico multimediale e collaborativo The Anarcha Project è stato l’unico a parlare delle violenze subite da queste donne da parte del sapere medico. Realizzato fra il 2006 e il 2007, e concepito per essere itinerante e coinvolgere le comunità locali e online attraverso seminari, teatro, poesia, proiezioni e performance “guidate”, il progetto è nato all’intersezione fra disability studies e black feminist studies. Al di là di alcune rigidità del mezzo principalmente legate all’età del lavoro, resta estremamente interessante l’idea delle curatrici di organizzare un anti-archivio ipertestuale, ancora oggi esistente, “appiccicoso” per chi lo consulta, chiamato a essere testimone di questa storia e non semplice osservatore. L’intento, che si ispira alla tradizione degli ipertesti femministi, come Patchwork Girl o My body. A Wunderkammer di Shelley Jackson, è quello di rompere con una tradizione secondo cui la conoscenza legittima è soltanto quella custodita nello spazio della ragione, depurato dalle interferenze dei corpi pur essendo su questi edificato.
Che la storia sia una questione di prospettive significa sempre che è una questione di corpi. Non esiste infatti una visione che non sia situata da qualche parte, che non appartenga a un soggetto posizionato, non esistono sguardi senza traiettorie, né traiettorie senza relazioni. La conoscenza non si inscrive soltanto su questi corpi, i corpi la escrivono, per così dire, e così facendo la “macchiano” di tutto quello che la verità tramandata come “leggibile” non contiene né ricorda. Proprio come faceva Carolee Schneemann nella performance Interior Scroll (1975) quando, per protestare contro il canone della storia dell’arte al maschile, leggeva un testo scritto su un rotolo che estraeva dalla sua vagina,6 capovolgendo l’ingiunzione alla neatness del Modernismo. In Speculum. L’altra donna (1974) Luce Irigaray, afferma che “se è vero che occorre rompere (con) un certo modo di specula(rizza)zione, non per questo bisogna rinunciare a qualsiasi specchio, né rinunciare ad analizzare l’influenza che ha questo piano della rappresentazione” sull’afasia dei corpi. Capovolgere lo specchio significa scompaginare l’archivio, “mettersi nel testo” (Cixous), andare a ri-guardare per interferire con la trasparenza della Storia e riportare in primo piano il fondo, il retro, i residui, i margini.
1 A Sims si deve anche la “scoperta” del vaginismo, l’irrigidimento involontario dei muscoli vaginali, che egli curava praticando delle incisioni e un allargamento dell’imene tramite un dildo in vetro, e la “posizione-Sims”, usata per gli esami postpartum del perineo e per le ispezioni rettali.
2 Deirdre Cooper Owens, in Medical Bondage. Race, Gender and the Origin of Modern Gynecology (2017) ipotizza che le schiave di Sims in Alabama lo aiutassero anche come infermiere, per quanto solo il New York Hospital fondato da Sims nel 1855 è documentato come primo ospedale per donne, dunque con personale femminile.
3 Per quanto le sue prime pazienti bianche a New York fossero perlopiù immigrate di origine irlandese, utili a continuare quella sperimentazione che lo avrebbe reso famoso fra le donne bianche delle classi agiate.
4 Lo stesso che aveva classificato il desiderio di fuga degli schiavi dalle piantagioni come disturbo mentale con il nome di “drapetomania”.
5 La “donna nervosa” su cui si concentrano i dispositivi di sessualità del sapere medico, psichiatrico e piscanalitico di cui parla Foucault in Storia della sessualità (1976).
6 Si veda anche la cunt art performativa di artiste come le subRosa o Boryana Rossa.