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La rivoluzione è femmina e cyborg. Ma non solo

A Westworld (WW), il gigantesco parco a tema gestito dalla Delos Corporation, spiega il Dottor Ford, suo direttore creativo, non si va tanto per trovare conferma di quello che già si è, quanto per avere un assaggio di quello che si potrebbe essere. Chi va a WW per dare libero sfogo alle fantasie più estreme è consapevole del fatto che il gioco si fa più duro man mano che ci si allontana dal centro e si procede verso il confine, andando da Sweetwater, la città all’ingresso del parco, verso Pariah, ricettacolo di delinquenti ed emarginati appositamente concepita per avere un aspetto “Tex-Mex”. Ma, a ben guardare, di confini il parco è disseminato un po’ dovunque, dal momento che i visitatori (guests) interagiscono con una popolazione di cyborg (hosts) perfettamente programmati per essere indistinguibili dagli umani.

Dolores e Teddy
Dolores e Teddy

Nel mantenere questa ambiguità su chi siano effettivamente gli Altri a WW, se gli umani che arrivano da fuori o gli androidi che vivono lì dentro, la serie TV della HBO ci racconta l’attrazione e il rischio del confine, coniugando il mito della frontiera spaziale tipico del genere western, con quello della frontiera della vita biologica proprio della fantascienza sull’intelligenza artificiale (IA). In entrambi i generi, l’immaginario è caratterizzato in senso fortemente patriarcale. Tradizionalmente, nel western, l’uomo alla frontiera è l’avventuriero, l’esploratore, il fuorilegge temerario protagonista dell’azione, mentre la donna alla frontiera, perché sia funzionale alla piena espressione delle capacità e possibilità del soggetto maschile, è vulnerabile e passiva, un oggetto da proteggere e possedere che facilita la buona riuscita della conquista della terra di cui è anche rappresentazione metonimica.

il Dottor Ford
il Dottor Ford

D’altra parte, nella fantascienza sull’IA lo scienziato (qui per giunta raddoppiato nella diade Ford-Arnold) che nel segreto del suo laboratorio riproduce la vita in totale solitudine e senza l’ausilio della componente femminile, ripropone il god-trick del creatore che con la sua hybris oltrepassa il limite della vita umana. Ma il confine è uno spazio tanto codificato quanto instabile. Definito dall’insieme dei suoi attraversamenti sia materiali che simbolici, il confine è un t(r)opos privilegiato per osservare le dinamiche anche contrastanti che mette in atto: ecco perché, al di là dell’originalità narrativa e della qualità della scrittura che hanno decretato fin da subito la sua popolarità, è interessante guardare come WW articoli queste dinamiche, esplorando molteplici livelli del confine fra umano e macchinico. Nelle riflessioni che seguono mi soffermo in particolare sulla rappresentazione di genere ed etnia nella serie, per vedere come, e soprattutto rispetto a quali relazioni di differenza, alcuni personaggi superano i confini in cui li incasellano le premesse narrative.

Logan e William
Logan e William

I filoni narrativi più collaudati nel parco sembrano funzionare grazie alla riproposizione dei ruoli fissi che gli hosts performano in loop per i guests. Questi ultimi, in prevalenza ricchi maschi bianchi di cui la coppia Logan/William è l’esempio prototipico, vanno a WW per sperimentare il piacere e il potere dell’avventura. Stupri, risse, omicidi sono all’ordine del giorno, ma sono solo i guests a poterli “agire”, mentre gli hosts eseguono le funzioni per le quali sono stati programmati, fondamentalmente soggiacere, quando non soccombere, alle fantasie sfrenate dei visitatori (gli hosts possono morire per mano dei guests, ma non viceversa). Si tratta di fantasie decisamente declinate al maschile, dato che pochissime sono le scene funzionali allo sviluppo del racconto in cui appaiono guests donne e inoltre, rispetto alle hosts di sesso femminile tutte molto attraenti, non viene dato alcun peso a relazioni né etero né omosessuali con hosts di sesso maschile: al Mariposa Saloon, il bordello della città di Sweetwater, per esempio, vediamo solo sex workers donne, se si eccettua una breve scena di sesso a tre di cui è protagonista Logan nel primo episodio.

 

Dolores e William
Dolores e William

Le due protagoniste femminili della storia, Dolores e Maeve, offrono una prospettiva che, se è forse esagerato definire femminista, non resta sicuramente ancorata agli stereotipi cui inizialmente allude. Dolores è un’ingenua e sognatrice figlia di famiglia dall’aspetto etereo – bionda, occhi azzurri, carnagione pallida, una specie di mix western di Alice e di principessa Disney –, costantemente in pericolo e in attesa di riunirsi al suo principe (Teddy) o di essere salvata dall’eroe buono (William), figure altrettanto tagliate con l’accetta che ne costituiscono la controparte maschile.

Maeve ed Escaton
Maeve ed Escaton

Al contrario Maeve, madame del Mariposa Saloon, è scanzonata, per nulla sprovveduta e molto sensuale: capelli, pelle e occhi scuri, nel suo vestito da seduttrice Maeve impersona la parte di chi vive “alla giornata” (come fa d’altronde ogni host senza saperlo) e ha imparato a cavarsela da sola, non aspetta nessun eroe se non i clienti del Mariposa Saloon, e invece di fantasticare sull’amore romantico preferisce scopare con Hector Escaton, bel tenebroso dal grilletto facile. Entrambe tuttavia, man mano che la storia progredisce, sembrano deviare, seppure in modi diversi, dal ruolo di genere che è stato loro assegnato: e lo fanno sia letteralmente, mostrando di poter uscire fuori narrative e recuperare la memoria di un vissuto diverso, sia simbolicamente rispetto all’immaginario che evocano e da cui progressivamente si discostano. Destinate a ricoprire all’infinito il ruolo dell’Altro in una storia già scritta, Dolores e Maeve si costruiscono una storia alternativa a partire da quella che hanno già vissuto ma che è stata loro cancellata programmaticamente.

Maeve nel labirinto
Maeve nel labirinto

[Spoiler Alert] Mentre Dolores si avvia verso il centro del labirinto, scopriamo che molto probabilmente è stata vittima di uno stupro, che il suo iniziale salvatore (William) è in realtà il suo persecutore (The Man in Black), che nel suo personaggio è stata inglobata la narrative di Wyatt, l’imprendibile bandito autore dei massacri di di WW cui tutti danno la caccia (che di fatto è lei), e che la capacità di uccidere di cui è dotata si volgerà contro il suo stesso creatore. Lungo questo percorso, Dolores vive una specie di inabissamento progressivo, aggirandosi fra differenti livelli spazio temporali per sottrarsi alla ripetizione che la imprigiona alla ricerca di un’identità profonda di cui vuole a tutti i costi riappropriarsi. Per converso Maeve, che in una scena dell’E08 vediamo sdraiata sulla nuda terra proprio al centro del labirinto, insieme alla figlia con cui è stata violentemente uccisa e di cui andrà alla ricerca fino alla fine, compie un percorso di liberazione inverso, un andare verso l’Altro che comporta l’uscita dal ruolo nel quale è intrappolata, tanto che della sua vicenda è stata data anche un’interessante lettura in chiave transgender. Il suo cambiamento avviene in modo molto più concreto e doloroso di quanto non accada a Dolores. Maeve deve esporsi fisicamente e morire violentemente molte volte per conquistare finalmente l’accesso all’upgrade che le consentirà di organizzare la rivolta finale. Il suo riscatto è come la fuga da una gigantesca gabbia: lo stesso che vorrebbe compiere l’uccellino-host che nell’E05 va a posarsi sulla sua mano dopo esser stato riparato da Felix, il tecnico-chirurgo asioamericano del Livestock Management, reparto “riparazioni” della Delos, che mostra a Maeve come tutte le sue azioni dipendano dal core programming, e che la fa anche entrare nelle stanze dove gli hosts sono creati, rendendola testimone della nascita della sua stessa specie.

Dolores e Bernard
Dolores e Bernard

Dolores non cerca mai di uscire dal parco del quale è l’host più “anziano”, Maeve sente di non appartenervi affatto. La rivolta di Dolores rimane in fondo individuale, e pur scardinando lo stereotipo nella quale è intrappolata dalla narrative assegnatale, anche la sua vendetta è compiuta sulla base di una motivazione fortemente personale (la strage della sua famiglia e la violenza subita). In questo percorso di individuazione Dolores è sempre accompagnata per mano, non la vediamo distesa su un tavolo in posizione orizzontale come spesso Maeve – sottoposta a continue riparazioni materiali –, ma perlopiù seduta in “modalità-analisi”, in dialogo (guidato) con Ford o Bernard Lowe, suo primo collaboratore alla guida della Divisione Programmazione.

Maeve e Felix
Maeve e Felix

Maeve sa di essere una macchina manovrata dall’alto, e non ha bisogno di cercare se stessa; anche il ricordo della morte della figlia scatena in lei un desiderio di ribellione collettiva piuttosto che di vendetta personale. La sua autonomia non è mai l’individualismo di Dolores, perché Maeve sa perfettamente che per ribellarsi ai padroni è necessaria una sollevazione condivisa dal basso, e per far questo bisogna radunare il maggior numero possibile di hosts: peraltro, contrariamente a quanto accade a Dolores, la cui evoluzione è curata passo dopo passo dai massimi vertici della Delos, essendone anche il progetto più ambizioso, ad aiutare Maeve fra i guests è invece Felix, personaggio che occupa una posizione di subalternità nella gerarchia della corporation, essendo in definitiva un sottoposto che esegue gli ordini dei piani alti.

Se come ha scritto Aaron Bady in un articolo sul New Yorker ogni storia di robot racconta la resistenza dei lavoratori contro il padrone che li sottopone a condizioni disumane di sfruttamento, e anche le storie western incentrate sulla guerra civile americana parlano soprattutto – come insegna W. E. DuBois – della rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi per la conquista della libertà, l’emancipazione di Maeve come cyborg femmina che è anche e soprattutto un cyborg femmina nero acquista un significato molto diverso da quella di Dolores, con cui pure condivide parte del percorso. Infatti, nonostante sia Dolores che Maeve si liberino della femminilità stereotipata che rappresentano (dove comunque Dolores è già lo stereotipo alto e Maeve quello basso), Dolores resta una figura privilegiata e tutto sommato integrata, mentre Maeve mantiene sempre una posizione marginale e doppiamente subalterna, perché non è soltanto l’Altro dell’umano maschio, ma è anche l’Altro dell’umano maschio bianco.

Escaton nella stanza di Charlotte
Escaton nella stanza di Charlotte

La questione non è ovviamente così schematica, perché la connotazione etnica non è in sé un indicatore stabile di subalternità a WW, ma dipende molto dal confine che mette in pericolo e dalle relazioni di potere che chiama in causa. Prendiamo ad esempio Charlotte Hale, rampante direttore esecutivo della Delos. Quando nell’E07 Theresa Cullen, la Responsabile Operativa del parco, si reca nella stanza di Charlotte, questa ostenta molto tranquillamente la propria relazione sessuale con lo stesso personaggio con cui guarda caso si accompagna Maeve, cioè Escaton. Ma se Maeve ed Escaton si rapportano in una posizione assolutamente paritaria, Charlotte nel suo ruolo partecipa di un potere patriarcale rispetto al quale Escaton appare un mero strumento di piacere per giunta gratuito, dato che Charlotte non è tecnicamente una guest e quindi non ha bisogno di pagare per divertirsi con le attrazioni del parco (si noti che in tutta la scena Escaton rimane legato alla spalliera del letto facendo da sfondo al dialogo fra le due donne al quale non prende parte in alcun modo, quasi fosse in modalità stand-by). Di contro, la scena a mio parere forse più disturbante dell’intera serie vede nell’E05 Elsie Hughes, collaboratrice di Bernard, alle prese con Bart, un host nero che dev’essere ricondizionato, inquadrato di profilo dietro a un tavolo in modo da evidenziarne i genitali mentre cerca goffamente di versare dell’acqua in un bicchiere.

Elsie e Bart
Elsie e Bart

Qui Elsie si lascia andare a una battuta sessista e razzista sul suo “talento”, che sarà tragicamente sprecato nella nuova narrative cui è destinato (quale non è dato sapere), mostrando come lo sguardo e le parole di Elsie nel ruolo di potere che in quel momento occupa (come del resto quando bacia Clementine nell’E01) riducano il difettoso Bart a un corpo-oggetto, escludendolo da una storia il cui antefatto e i cui sviluppi non conosceremo mai.

Che in WW anche le IA non solo femmina abbiano diverse etnie, contrariamente a quanto accade di solito, è senz’altro un aspetto interessante della serie, dove due degli hosts protagonisti, Maeve e Bernard, sono neri: tuttavia rispetto a Maeve, l’appartenenza etnica sembra mantenere Bernard – che inizialmente non sappiamo nemmeno essere un host –in una posizione di subordinazione rispetto agli altri personaggi con cui si relaziona maggiormente. Bernard infatti è di fatto una replica con la pelle nera di Arnold, il primo co-creatore del parco con Ford, e la sua apparente posizione di parità è in realtà una manipolazione orchestrata da Ford che nella relazione mantiene sempre il potere maggiore (chi ha visto la serie potrebbe pensare lo stesso riguardo a Maeve, soprattutto considerando la scena finale del treno, ma da spettatori ci conforta sospendere le ipotesi più facili e aspettare la seconda stagione). È stato notato, peraltro, che la figura di Bernard è costruita in modo appositamente femminilizzato, definita più da quello che gli è stato fatto che da quello che ha fatto: per esempio, la sua (seppur falsa) memoria incentrata sull’accudimento del figlio malato da un lato lo maternizza e dall’altro, rispetto alla coppia di creatori maschi Ford-Arnold da cui “discende”, lo pone in una posizione di ricettività passiva (Bernard è colui che accoglie il core code di Arnold).

In definitiva, se c’è una cosa che la narrazione di Westworld ci mostra molto bene, pur lasciando ampio margine nel rispetto dello spettatore a numerosi dubbi, ripensamenti e capovolgimenti che appaiono sempre possibili, è che i confini dell’umano non hanno proprietà stabili, ma il loro significato dipende dagli attraversamenti e dalle dinamiche di potere e resistenza che riescono a mettere in gioco. L’importante è ricordare che arrivare a toccare il confine è un piacere violento, ma che le conseguenze possono esserlo altrettanto.

LOTTO MARZO. Sciopero Ricercatoru e Docenti

Un’ondata di femminismo si è generata a sud, dalle donne (cisgenere e trans) che al grido di “ni una menos” hanno sollevato la questione della violenza e degli omicidi, diffondendosi in tutta l’America Latina. Questa onda si è propagata in Polonia, dove le donne hanno bloccato per giorni il paese per difendere il diritto all’aborto e all’autodeterminazione. Si è fatta marea, inondando le strade di Roma e portando in tutta Italia una mobilitazione di donne e soggettività queer a protestare contro la violenza di genere. Negli Stati Uniti le donne hanno inondato la capitale e le maggiori città contro l’insediamento di Trump e contro il razzismo e il sessismo che hanno preso il sopravvento nel paese. Soltanto quando la marea ha travolto e bloccato i maggiori aeroporti degli Stati Uniti i media internazionali si sono resi conto della portata di queste proteste, tacendo però il carattere transnazionale della rivolta di donne di paesi distanti, ma unite nella lotta contro il patriarcato e il capitalismo.

L’otto marzo 2017 sarà una giornata di lotta e mobilitazione transnazionale e le donne di 22 paesi hanno indetto lo sciopero per bloccare il lavoro di produzione e riproduzione nel Capitalismo che assegna valore diverso alle nostre vite, invisibilizza il lavoro di cura, crea disparità di salari e produce profitto dalla capitalizzazione delle differenze. Il sistema del genere, riprodotto attraverso l’eterosessualità obbligatoria, impone ruoli e assegna aspettative (una violenza in sé), generando e alimentando la violenza contro altri corpi più vulnerabili. In questo contesto, le frontiere rappresentano una ferita sanguinante sui corpi delle persone migranti, sulle quali si produce profitto senza reputarle degne di vivere.

Da sempre l’Università ci ha spinto a produrre il doppio per aver riconosciuta la metà: numerosissime studenti affollano le aule e mandano avanti le ricerche nei dipartimenti sfidando il soffitto di cristallo che le divide dalle posizioni di presitigio, o dal miraggio di un contratto. Ma oggi, dopo anni di riforme e tagli la situazione è collassata. Il patrimonio di conoscenze di pensieri divergenti sono considerati minoritari, inutili e addirittura dannosi all’interno di un paradigma della conoscenza finalizzato al profitto: una vera e propria condanna a morte per gli studi di genere, femminili, queer e postcoloniali che vede l’accorpamento (leggi chiusura) del dottorato di studi culturali e postcoloniali in cui molte di noi si sono formate e in cui tutte noi avevamo trovato una comunità orizzontale di crescita e scambio. Dal femminismo abbiamo imparato a partire da noi per produrre un pensiero che potesse cambiare il mondo. Le pensatrici e scrittrici postcoloniali ci hanno insegnato ad ascoltare e pensare accanto, non parlare “al posto di”. Il pensiero queer ci ha mostrato come praticare l’arte del fallimento e del tradimento delle epistemologie monumentali. Mai come in questo momento crediamo che le conoscenze debbano servire per prendere posizione, mettendo in discussione i nostri privilegi ed esprimendo un pensiero divergente contro la violenza del sistema dei generi, le misure di austerità e tagli che hanno condannato a morte l’Università e le conoscenze, contro il razzismo isituzionale e le politiche securitarie che in nome della difesa delle donne e delle persone LGBTI perseguitano e deportano le persone migranti, ma soprattutto contro ogni tipo di confine, materiale e immateriale, tra nazioni e generi.

Per questi motivi aderiamo allo sciopero dell’8 marzo. Alcune sciopereranno regolarmente, ma la maggior parte di noi, senza contratto, riconoscimento e tutela alcuna all’interno dell’università, dovrà inventare nuove forme di assedio al capitalismo cognitivo. Nelle aule dove insegniamo, spesso gratuitamente, incroceremo le braccia dal lavoro non riconosciuto e non retribuito. Diserteremo dall’obbligo autoimposto di dover essere sempre visibili e produttive che ci spinge in continuazione all’autosfruttamento. Rifiuteremo di praticare ogni forma di cortesia verso chi scambia la nostra precarietà come la legittimazione ad una totale e perenne disponibilità. Troveremo nuovi ed imprevedibili modi per prendere parola e manifestare la nostra rabbia contro questo sistema ed esprimere la nostra solidarietà con chi lotta per un mondo senza disparità, violenza e confini.

Capitalismo delle piattaforme e governo della società. La ‘global community’ di Facebook

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Qualche giorno fa, il presidente e fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una lettera  che contiene alcune affermazioni programmatiche molto interessanti sul futuro della piattaforma, quali le priorità e la visione di insieme che sottenderà i prossimi sviluppi della programmazione. Si tratta di un documento molto rilevante, nella misura in cui si inserisce nel dibattito più generale sulle grandi aziende statunitensi che gestiscono i più grandi servizi online e i processi politici che li vedono coinvolti. Pensiamo per esempio ad alcune delle accuse più ricorrenti rivolte al gigantesco social network dai politologi americani e non solo, cioè che il medium crea delle ‘filter bubbles’ esponendoci solo a opinioni simili alle nostre (quella che Zuckerberg definisce ‘riduzione della diversità informativa’ e quindi il rischio della polarizzazione) e che non permette di distinguere le notizie vere dalle false (le famose bufale), definite dal miliardario americano come il rischio del ‘sensazionalismo’. Di fronte a questi rischi ed ‘errori’, come vengono definite, Facebook promette maggiori investimenti nelle sue tecnologie di intelligenza artificiale (A.I.), prefigurando algoritmi in grado non solo di distinguere il vero dal falso, ma di gestire il feed degli utenti in modo tale da evitare sia la ‘bolla del filtro’ che la polarizzazione delle opinioni, selezionando una varietà di punti di vista da cui costruire una opinione più equilibrata. Facebook si pone dunque esplicitamente nella inedita posizione di governatore dell’informazione sociale, e quindi come nuova infrastruttura della società (post)civile globale.

Rispetto ai giorni in cui l’azienda rifiutava fermamente, seguendo l’esempio di Google, l’idea di essere una media company, definendosi in primo luogo come una azienda a vocazione tecnologica, si tratta di un importante mutamento già annunciato qualche mese fa. In questo modo, la piattaforma comincia a collocarsi esplicitamente nel dominio dei media, quindi paragonandosi a media come la televisione e la stampa, e come conseguenza accollandosi anche le responsabilità politiche della governance. Se, da un altro punto di vista, grandi aziende della Silicon Valley hanno stabilito la governance attraverso piattaforme informatiche (Internet delle cose, smart city and smart government, sharing economy, gig economy etc) come loro campo di azione, Facebook è l’unica che sposta l’asticella di questo intervento dalla regolazione algoritmica dei flussi logistici, alla regolazione diretta di quello che il documento definisce il ‘tessuto sociale’, cioè alla modulazione dei processi associativi e e dei ‘valori collettivi’ che da essi emergono.

Abbiamo visto nei giorni della vittoria di Trump, una presa di posizione politica  da parte dei giganti della Silicon Valley, che, con l’eccezione di Uber  (che infatti ha subito un boicottaggio con l’hashtag #DeleteUber), si sono schierate generalmente con l’opposizione, diventando i portabandiera della tradizione liberale americana e dei suoi valori (esemplificati dalla citazione di Lincoln con cui la lunga lettera di Zuckergberg non a caso si chiude), ma anche della globalizzazione contro la minaccia ultranazionalista del populismo di Trump. Se il motto che sintetizza la missione di Facebook, è “rendere il mondo più aperto e connesso”, questo si sposa male con la chiusura nazionalista di eventi come la Brexit e l’elezione dell’imprenditore americano. La lettera presenta Facebook come il governatore di un tessuto sociale globale connesso che si individualizza in ambienti e regioni specifiche (dalla Germania all’India, dall’Egitto al Nepal) che producono ‘norme culturali’ eterogenee, non governabili a partire da una unica norma. La curva della normazione , che Foucault  descriveva relativamente ai meccanismi di sicurezza, variabile e differenziata, sostituisce la ‘normalità’, mentre l’apertura e la connessione realizzano la continuità del processo di valorizzazione.larger

Se come notavano autori diversi quali Celia Lury e Maurizio Lazzarato   qualche anno fa, l’azienda postfordista non produce in primo luogo merci, ma mondi in cui vivere, ecco che Zuckerberg presenta la missione della sua azienda, il suo ‘viaggio’ come ‘creazione di un mondo’ naturalmente ‘aperto e connesso’ che porti avanti ol processo espansivo di socializzazione che porta l’umanità, nelle parole della lettera, ‘dalle tribù, alle città, alla nazione’, verso una dimensione inevitabilmente globale. E’ una nuova immagine del vecchio eurocentrico concetto di progresso, che nella visione di Zuckerberg conduce verso un sempre maggiore processo di socializzazione planetaria. Facebook si presenta dunque, come tutta la Silicon Valley, come rappresentante di una forza di globalizzazione che implicitamente oppone la chiusura nazionalista della Brexit e di Trump. La missione di Facebook diventa quindi quella di facilitare ed espandere il processo di globalizzazione nella misura in cui quest’ultimo presenta delle ‘sfide’, dei ‘rischi’ e delle ‘opportunità’ che possono essere colte soltanto da quella che la lettera descrive come una ‘comunità globale’.

La lettera dunque rende esplicite quelle che sono le sfide della costruzione di nuove ‘infrastrutture sociali’ che permettano alla comunità globale di organizzarsi e rafforzare quel ‘tessuto sociale’ compromesso dalla globalizzazione stessa. E’ interessante notare come questa spinta a costruire una comunità globale si dia nel contesto dei problemi di governance incontrati dai gestori della piattaforma e che questa nuova visione sia centrata attorno ai ‘gruppi’. Zuckerberg dunque sposta il focus dalle reti sociali interpersonali (quali quelle accumulate da un profilo personale) alle ‘pagine’ (che costituiscono il motore dello sfruttamento economico della piattaforma con i loro ‘mi piace’) ai ‘gruppi’ come focus degli investimenti futuri, ponendosi paradossalmente come l’inventore della sociometria, lo psichiatra Jacob Moreno , il problema della regolazione psicosociale della vita delle popolazioni.

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E’ sulla questione dei gruppi che emerge la visione e il modello di società che Facebook propone come soluzione alla crisi di governance globale (ma significativamente non alla crisi economica).

Sono convinta che non è un caso che la questione dell’infrastruttura sociale, come la chiama Zuckerberg, sia emersa attorno alla popolarità dei ‘gruppi’ sulla piattaforma, identificati come area per cui costruire nuovi servizi. In particolare Zuckerbeg si riferisce a quelli che vengono definiti ‘gruppi molto significativi’, cioè gruppi che diventano velocemente luoghi di sostegno e di cura per individui isolati da una condizione specifica (una rara malattia, per esempio, o anche gli sposi e le spose dei militari costrette a spostarsi di città in città senza poter costruire una vera rete sociale). A differenza delle reti interpersonali (amici, famiglia e conoscenti), i gruppi non solo resuscitano la vecchia immagine della ‘virtual community’ centrata sulla cura di cui parlava Howard Rheingold nei primi anni novanta, ma la integrano in un ‘tessuto sociale globale’, che è identificato con la piattaforma nel suo insieme. Le comunità di Facebook o gruppi performano tutte le funzioni che ancora oggi altri servizi online permettono (pensiamo alla piattaforma Slack o ai forum anonimi per vittime di violenze), ma le performano all’interno di un unico network privato con una architettura centralizzata server/client (o cloud) che ospita una popolazione di miliardi di utenti modellata attraverso il diagramma del grafo sociale e i metodi della social network analysis. Il sociale per Zuckerberg non è, come sostengono molti critici dei social, un sociale fatto di individui isolati e connessi (insieme ma soli come diceva Sherry Turkle), ma un social composto da gruppi e sotto-gruppi. nella misura in cui è il gruppo, non la comunità il referente tecnosociale che sottende la piattaforma e nella misura in cui lo’individuo non esiste se non come membro di un gruppo, per quanto piccolo esso sia. La società evocata da Zuckerberg con il nome di comunità e un insieme di sotto-insiemi connessi, cioè insieme topologicamente discontinui e continui che restituisce l’immagine di un globo eterogeneo ma connesso. Evocando implicitamente i primi studi della social network analysis, Zuckerberg descrive la società come un granuloso tessuto di piccole reti, che uniscono e differenziano, ma che compongono anche dopotutto un singolo plateau. E’ questa specifica composizione che permette, per Zuckerberg, alla rete sociale di diventare l’infrastruttura attraverso cui rispondere alle crisi globali, identificate significativamente e principalmente con il terrorismo e il cambiamento climatico.

SAN FRANCISCO, CA - SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)
SAN FRANCISCO, CA – SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Qualche anno fa, l’antropologa e attivista americana del movimento Occupy, Joan Donovan mi ha raccontato come è stato il movimento Occupy ad avere utilizzato per primo in maniera significativa e orientata politicamente la capacità logistica delle reti sociali, cioè la loro capacità di trasformarsi da reti di opinione a reti capaci di coordinare azioni su larga scala. Quando l’uragano Sandy si abbattè su New York, il movimento Occupy si dimostrò capace di mobilitare un processo di raccolta e movimento di risorse che dimostrò una capacità di ‘autogoverno dell’emergenza’ che i governi locali e nazionali stremati dai tagli non riescono quasi più a dare. La maggior parte degli usi innovativi della piattaforma raccontati dalla lettera vengono dagli utenti, dall’intelligenza di quella general sociality catturata da questi nuovi media. Nel suo lavoro più recente, Donovan ha iniziato a definire ‘ipercomune’ (o hypercommon) la capacità di cooperazione sociale resa possibile dalle reti, che rendere possibile nuove forme di autogoverno e modelli di produzione, che si differenziano sia dal modello statale che da quello aziendale.

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Significativamente, Zuckerberg non inserisce tra le priorità politiche per la nuova comunità globale, la crisi del debito, la precarietà, lo sfruttamento o la tragedia delle migrazioni, ma si ferma alle pandemie, al terrorismo, e al cambiamento climatico. La piattaforma diventa il modo attraverso cui la società si difende dai danni e li previene. Il cambiamento sociale sta tutto nella capacità di individui (la ‘nonna’ che avrebbe iniziato il movimento della marcia delle donne contro Trump è l’esempio più significativo) di viralizzare la rete sociale come infrastruttura della mobilitazione. Se la piattaforma sta proponendo una alternativa al protezionismo ipernazionalista di May o Trump o delle nuove destre, lo fa rimanendo comunque fermamente all’interno di quello che Nick Srnicek ha definito il ‘capitalismo delle piattaforme’  – oggetto dell’importante incontro organizzato da Euronomade e Macao a Milano degli inizi di marzo.

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In sintesi, il documento di Zuckerberg rende ancora più chiaro come Silicon Valley stia formulando quella che Foucault descriverebbe come una nuova ‘razionalità politica’, che assume l’eredità del liberalismo e nel neoliberalismo nell’identificare il problema principale il governo delle ‘popolazioni’ (i milardi di utenti), la massimizzazione della loro vita sociale, politica e culturale, e la protezione dai ‘rischi’ e ‘errori’ della circolazione dell’informazione (dalle notizie false, sensazionalismo, polarizzazione, divisioni al terrorismo, il cambiamento climatico e le pandemie) all’interno di una economia di mercato globale che non mette però mai in discussione i rapporti di proprietà o l’accumulazione di valore economico. Insieme al movimento della Silicon Valley per la smart city (aspramente criticato tra gli altri per esempio da Evgeny Morozov ), il capitalismo delle piattaforme intensifica la sua vocazione a farsi governo della società. Quali forme di tecnopolitica e non solo possono rispondere a questa nuova configurazione?

 

 

 

Il trono gay di Uomini e donne. Appunti sul regime di visibilità omonormativo in Italia

 

Marò so troppo belli quei ragazzi. Maria ha fatto troppo bene ad invitarli. Ha fatto vedere che lui era fidanzato per cinque anni, hanno vissuto insieme… proprio come i fidanzati. Sono bellissimi, tanto rispettosi. No, non vanno travestiti, proprio come i maschi. Sono persone normali come tutti quanti gli altri. 

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È la parola “normali” ad autorizzarmi a seguire a bocca spalancata e occhi sgranati la conversazione tra le due signore in Circumvesuviana. In generale non riesco a resistere alle conversazioni altrui sul treno, ma solitamente provo a seguire con maggiore discrezione; questa volta però, la parola normalità, fa scattare quel campanello che mi autorizza a non provare vergogna per i miei guilty pleasure: “interesse di ricerca”. La stessa scusa che uso ogni volta che devo giustificare in certi ambienti la mia passione per la televisione e la cultura pop. “Interesse di ricerca” è quello che mi ha autorizzato a tornare a guardare dopo anni Uomini e donne. Evidentemente non riesco proprio a contenermi e la signora, che mi trova a fissarla a mandibola slogata, m’ interpella con lo sguardo: che guard a fa?! Ed io: Signora scusate ma mi ero persa la puntata di ieri; mi potete dire che è successo?

In realtà ho seguito questa vicenda dall’inizio dell’estate scorsa, quando si rincorrevano prima i rumors, poi notizie più fondate, su un possibile trono gay ad Uomini e donne per celebrare in tv le unioni civili. Ad onor del vero ci sono dei – se pur non illustrissimi – precedenti. È già nel 2012 va in onda sull’emittente privata Napoli TV Made in love, che ricalcando il format di Canale5, invita “cacciatori” gay a corteggiare i “protagonisti”, in studio e in esterne, sotto gli occhi di una “giuria” di opinionisti, che ha visto sfilare –questa volta sì- illustri nomi, come Anna Paola Concia. Certo NTV non può vantare la stessa distribuzione di Canale5, ma la trasmissione ottiene un discreto successo attraverso la sperimentazione della distribuzione on line, grazie ad un sito e un canale Youtube. Di certo non avrà contribuito come Uomini e donne per un nuovo senso di accettazione nella comunità nazionale, ma di fatto la trasmissione non rimane un fenomeno folkloristico e va letta come una prima esperienza nella produzione di una comunità di froci che si riconoscevano negli stessi valori e nello stesso desiderio di rappresentazione.

Alla fine di agosto il mio viaggio in bla bla car Messina Napoli (quattro froci e una frociarola) ha avuto al centro della nostra chiacchierata proprio questo hot topic. Abbiamo letto e commentato diversi articoli da diversi siti in cui erano segnalati papabili tronisti, tutti sbagliati, ma una sola grande verità, la redazione cercava un vero uomo: MxM come si scrclaudio-sonaive sulle applicazioni da rimorchio gay, maschio che cerca maschio. Se in generale ci sarebbe molto da riflettere sulla misoginia espressa all’interno dello spazio gay, nello specifico di questa trasmissione televisiva, la produzione di un modello di gay egemonico viaggia di pari passo con la riaffermazione costante della mascolinità egemonica, con continui riferimenti al vero uomo, un modello a cui per la prima volta anche i gay hanno accesso. Claudio è un vero maschio, e tra i suoi corteggiatori no femminelle, tutti con le barbe, molti risvoltini, ma nessun polso piegato, nessun accenno, nessuna eccedenza dal modello antropologico “corteggiatore”. Distinguerli dai corteggiatori che sono lì per l’altra tronista infatti è impresa difficile, anche perché la parola gay non è mai pronunciata, raramente quella omosessuale. Mi confondo definitivamente quando scopro che nella puntata ci sono due tronisti omonimi e per distinguerli usano l’espressione “l’altro Claudio”.

È interessante notare come la mascolinità esploda nel momento in cui viene messa in scena nella sua rappresentazione più stereotipata; durante una delle puntate Mario, uno dei corteggiatori, invita Claudio a conoscere la sua squadra di calcio e, raccontando il suo coming out, lanciano due tiri in porta. I corpi sudati in quello spazio omosociale[1] non permettono tanto ai protagonisti di iscriversi nel maschile egemonico, ma mostrano come la mascolinità stessa sia un insieme di dispositivi che forniscono strumenti di narrazione a chiunque voglia posizionarsi in quello spettro[2]. In questo modo la mascolinità come dato essenziale esplode, rendendo inoltre manifesto il desiderio omoerotico in uno spazio solitamente molto rigidamente segnato da argomenti machisti.

Se alcune parole rappresentano un vero e proprio tabù altre sono al centro di questa messa in scena televisiva: uguale e normale. Questo mantra è ripetuto da chiunque prenda parola dalla prima puntata in cui viene presentata questa sperimentazione, fino alla fatidica scelta, in cui la senatrice Monica Cirinnà, autodefinitasi “umile legislatore”, ringrazia Maria De Filippi per aver presentato questa questione al grande pubblico: “Grazie per il senso di normalità. Questa è la parola più importante”. Sono d’accordo: normalità è la parola più importante. Il perimetro della norma che disciplina lo spazio pubblico non produce la sua forza nell’autorità di escludere ciò che sta fuori, ma nell’autorevolezza di allargare i propri confini mobili portando al suo interno sempre nuovi soggetti, ma solo dopo averli resi docili, bonificati. La norma funziona solo in parte attraverso i dispositivi legislativi, gran parte del suo potere è nella sedimentazione di dispositivi culturali che la ribadiscono e legittimano fino a renderla trasparente, fino a renderla la normalità[3].

Credo che sia banale dire che la trasmissione partecipi allo stesso progetto di normalizzazione dell’omosessualità in Italia, che ha prodotto nei mesi passati una legge che permette anche al nostro paese di mettersi al passo con gli altri nella retorica “è l’Europa a chiedercelo”. In questa prospettiva progressista, proprio nel senso che ci sono paesi che stanno più avanti ed altri più arretrati rispetto al modello liberale omosessuale, l’Italia non aveva da recuperare solo da un punto di vista legislativo; molto ancora resta da fare nella creazione di una cultura nazionale che permetta l’assimilazione e soprattutto nella fabbricazione di un modello di gay tollerabile, proprio perché assimilabile. Partendo da queste considerazioni credo che il trono gay sia stato il programma che più ha contribuito negli ultimi anni alla produzione di un “regime di visibilità omonormativo”. Se il regime di visibilità è l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione di alcuni soggetti, questo può essere definito omonormativo descrivendo la traiettoria di assimilazione dell’omosessuale nel mainstream, in un regime culturalmente e politicamente egemonico[4]. Gay e lesbiche, un tempo tra i soggetti più destabilizzanti per l’ordine della società, oggi sono assimilabili, perché funzionali, al progetto di rifondazione dell’Occidente nel sistema neoliberista. Il regime di visibilità omonormativo in Italia, ed in questo senso il trono gay, è evidentemente parte del progetto di normalizzazione della comunità LGBT nella retorica europeista dei valori liberali.

Tuttavia la parte più interessante di questo discorso gira intorno alle contraddizioni di questo regime di visibilità omonormativo italiano, fondato per lo più su ciò che deve restare invisibile. Nelle prime esterne i corteggiatori continuavano a parlare del loro coming out, raramente pronunciato in questi termini, molto più spesso si utilizzava l’espressione “come hai detto quella cosa lì?”. Queste narrazioni mi hanno presto disaffezionata, ormai bruciata dall’esperienza. Infatti fino all’arrivo delle prime serie completamente dedicate alla rappresentazione di comunità gay e lesbiche (penso a Queer As Folk e L World), i froci nelle serie televisive avevano spazio nella trama solo per tutto il tempo in cui vivevano le tribolazioni dell’accettazione. Arrivat* al coming out rimaneva giusto lo spazio per trovare un partner, magari fare un figlio, per poi morire in modo tragico o essere convocat* da improrogabili impegni all’altro capo del mondo. Addio Nancy, la prima lesbica a fare coming out in Roseanne (Pappa e Ciccia in italiano), addio alla dottressa Weaver in ER. In Italia è ancora così: qualcuno ha notizie su come stia Sandrino Palladini di Un posto al sole?

Temevo che anche in Uomini e donne avesse preso quella china, fino a quando la signora in Circumvesuviana non mi ha convinta a risintonizzarmi e sono stata rapita da diverse (noiosissime) puntate in cui Claudio, Mario e Francesco, i suoi corteggiatori, litigavano sull’opportunità di mezz’ora di esterna senza telecamere. Francesco, aveva beneficiato di questo privilegio per poter baciare Claudio, e Mario, furioso di gelosia, continuava a rifiutare questa possibilità, sognando un bacio al supermercato. Ma è proprio Claudio a ribadire più volte che l’espressione dell’affettività è qualcosa di privato, da sperimentare solo negli spazi appropriati. Si crea nel mio cervello un corto circuito tra quello che diceva la signora, e in buona sostanza festeggia l’intera opinione pubblica, cioè la possibilità di vedere i gay come uguali e normali, e ciò che si poteva vedere concretamente nella messa in scena televisiva: niente! In una trasmissione che solitamente non è avara nell’espressione di un erotismo anche molto esplicito; ma ciò che trovo degno di nota è che l’argomento utilizzato da Claudio in trasmissione, osannato dagli applausi del pubblico in studio (vera e propria tifoseria del tronista) è esattamente lo stesso che in modo rabbioso hanno utilizzato gli omofobi per commentare la trasmissione: “certe cose le fai a casa tua”. Dentro e fuori la trasmissione, protagonisti, fans e detrattori si sono allineati nella ricostruzione di un muro invalicabile tra il pubblico e il privato, e la costruzione di uno spazio appropriato per la manifestazione dell’affettività.

La normatività della cultura eteropatriarcale ha da sempre barricato l’intimità nella sfera del privato, rendendola l’istituzione esclusiva e privilegiata per rapporti che non possono essere considerati nudi del loro valore politico[5]. La retorica di un’intimità serena nasconde in realtà un discorso ideologico di disciplinamento, assicurando un rifugio, un nido sicuro, per colorclaudio-e-marioo che adottano un stile di vita “proprio”. L’intimità è un premio/una consolazione per chi accumula frustrazioni nella quotidianità dell’oppressione e dello sfruttamento della vita pubblica. Questo nido è la prigione in cui confinare ogni forma di sessualità non conforme, soprattutto quelle che hanno ripercussioni nello spazio pubblico e s’impongono con la visibilità, pretendendo riconoscimento. Normalizzare, dunque, significa bonificare tutto ciò che evade dallo spazio del privato creando la convenzione per qualunque narrazione di affetti. La matrice eteronormata, attraverso il rispetto più o meno consapevole delle forme di relazione istituzionalizzate, si radica nella struttura della nostra società fino a farsi trasparente; in questo modo essa può continuare a regolare la normalità oltre i confini del sesso e della pratica eterosessuale in un regime di visibilità che anche in questo senso può essere definito omonormativo.

Con un balzo indietro di 40 anni rispetto all’irruzione del femminismo, che ha sfidato i confini tra pubblico privato, e con la completa cancellazione di altrettanti anni di lotta per la visibilità frocia, la questione viene riproposta esclusivamente attraverso il coming out: il gay italico viene allo scoperto in questa pratica performativa che produce se stesso come docile cittadino e ringrazia il mondo intorno per lo sforzo d’accettazione. In questa prospettiva fa la differenza quella che nel corso della trasmissione può essere definita la “questione madre”. Le madri dei corteggiatori, infatti, sono molto presenti e hanno un ruolo centrale nello svolgimento della narrazione e nella costruzione della parte più emotiva del format. Entrano nello schermo della rappresentazione portando con sé vecchie foto, raccontano il passato, le storie più dolorose, augurano un futuro d’ amore romantico, auspicano un matrimonio, sognano nipoti. Sono portatrici di memoria e custodi della tradizione, rappresentando la possibilità di un cambiamento rassicurante, di una trasformazione personale che non cambi le regole d’ intellegibilità sociale dei valori tradizionali e familisti. Ma il segno che qualcosa è cambiato nella società è proprio nella puntata finale, nel catartico bagno di folla partenopeo. L’ultima esterna prima della scelta si svolge proprio a Napoli tra mandolini, sfogliatelle, pastori e un panorama umano che nulla ha da invidiare ai personaggi dei presepi. La rappresentazione del centro storico è quella solita dello zoo umano in cui orde inseguono la bellissima coppia di stranieri, regalano dolci, corni benauguranti, formulano riti propiziatori. Tutto rigorosamente sottotitolato, anche quando è in italiano, a sottolineare come si tratti di qualcosa di incomprensibile, culturalmente diverso. La folla urla diverse volte “Claudio, Napoli ti ama”. Dunque anche il Meridione, che nella rappresentazione televisiva è ancora legato alla narrazione di una comunità barbarica presente sul suolo nazionale, irriducibilmente legata ai valori più retrivi, è ormai pronto al cambiamento: se la madre può cambiare, se Napoli può cambiare, tutto il mondo può cambiare.

Questa idea di cambiamento è però completamente epurata da qualunque progetto di trasformazione sociale, in cui le froce possano destabilizzare il paradigma delle mascolinità egemoniche, in cui altre intimità possano sfidare i valori della famiglia tradizionale, in cui la rappresentazione di altre sessualità non conformi possano fare esplodere i confini di disciplina dello spazio privato. Forse allora dovremmo collocarci proprio sul margine meridiano nella sfida al regime di visibilità omonormativo, per recuperare le storie di resistenza dei femminielli al fascismo e alla disciplina dei generi; dovremmo narrarci come queer terrone, praticare l’abiezione come un atto terrorista contro il modello progressista dell’Europa liberale, che cancella un passato di resistenza e tenta di riscrivere un futuro disciplinato da nuovi paradigmi di assimilazione; dovremmo resistere alla tentazione di spostare un po’ più in là l’asticella dell’accettabilità e distruggere qualunque tipo di confine, materiale e immateriale.

 

 

 

[1] Sedgwick Kosofsky, Eve. 1985. Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire. New York: Columbia University Press.

[2] Halberstam, Jack (Judith). 1998. Female Masculinity. Durham: Duke University Press.

[3] Butler, Judith. 2014. Fare e disfare il genere. Milano: Mimesis Edizioni.

[4] Duggan, Lisa. 1994. «Queering the State». Social Text 39 (39): 1–14.

———. 2004. The Twilight of Equality?: Neoliberalism, Cultural Politics,

and the Attack on Democracy. Boston, MA.

Puar, Jasbir K. 2007. Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press.

Stryker, S. 2008. «Transgender History, Homonormativity, and Disciplinarity». Radical History Review

[5] Berlant, Lauren, e Michael Warner. 2007. «Sex in Public» 24 (2): 547– 566.

 

 

La rappresentazione degli animali non umani in Donna Haraway

Le due giornate del convegno internazionale Zoosemiotica 2.0. Forme e politiche dell’animalità, organizzato dal Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo (1-2 Dicembre 2016), hanno riunito studiosi di diversa provenienza per riflettere sulla significazione dell’animale nei diversi campi del sapere, ovvero sulla gestione di quella “soglia insicura” che ha sempre collegato la definizione dell’animale non umano a una precisa visione e posizione dell’animale umano nel mondo.

Se nella zoosemiotica originata dal contesto delle scienze naturali del secondo dopoguerra la relazione uomo-animale è stata impostata nei termini di una gestione efficiente dei passaggi di informazione, secondo i principi della cibernetica di primo ordine[1], una seconda zoosemiotica richiede un ripensamento delle relazioni interspecie estranea agli approcci dell’umanesimo occidentale, in cui la la possibilità di instaurare relazioni differenti vada di pari passo con la ridefinizione dei termini stessi della relazione.

Durante il convegno è emersa, più o meno esplicitamente, una sostanziale impossibilità di definire animali se non con parole “proprie”: resta sempre linguistico, infatti, il riconoscimento del “tu” animale, ed è sempre nel linguaggio dell’io che si crea lo spazio che lascia parlare l’altro anche riconoscendogli un diverso linguaggio. Pur essendo chiaro che la questione animale è soprattutto una questione rappresentazionale, però, solo in pochi casi la funzione della rappresentazione è stata messa in discussione. Non stupisce allora che la riflessione antispecista del femminismo, in particolare nella sua versione postumanista, o per dirla con Haraway “compostista”[2] – che sulla ridefinizione della rappresentazione e sui saperi situati ha sempre lavorato – sia stata pressoché assente, fatta eccezione per qualche riconoscimento tributato a un generico femminismo per aver aperto la strada all’adozione di un paradigma finalmente postantropocentrico.

Nel mio intervento, ho scelto di soffermarmi su tre fra i numerosi animali non umani per la produzione tecnobiopolitica dei corpi che compaiono nei lavori di Donna Haraway, ovvero i primati[3], l’oncotopo[4] e il cane[5], per mostrare come nella sua teoria la rappresentazione della differenza molteplice (femminile, animale, macchinica) e la fine del mito dell’origine si accompagnano sempre a un radicale lavoro di decostruzione della nozione di rappresentazione.

Tre fondamentali cedimenti di confine, fra umano e animale, fra organico e macchinico, e fra fisico e non fisico (ovvero fra materiale e informazionale) caratterizzano secondo Haraway[6] l’epoca nella quale viviamo, da lei recentemente definita Cthuluchene[7], nel cui mondo, articolato e multiforme come un insettoide o un trickster, “più che umano, altro da umano, inumano, e umano come humus”[8] s’incontrano dando vita a complessi assemblaggi naturalculturali. Attraverso le crepe aperte da questi cedimenti ciò che appariva come naturale e invariabilmente “dato” cessa di essere tale, ma al contempo si apre anche un nuovo campo di possibilità.

Come sempre, per Haraway, affermare che ogni ottica è una politica del posizionamento, e che dunque l’io e l’altro sono questioni prospettiche, non significa rifiutare la visualità, ma dislocarla, trasportarla altrove così da essere “capac[i] di unirsi a un altro, per vedere insieme senza pretendere di essere un altro”[9]. L’altro, infatti, può essere tale solo mantenendo il suo essere in-appropriato, cioé in una condizione di relazionalità critica”[10] non prefissata in alcuna categoria della differenza, e perciò in grado di sfuggire alle strategie rappresentazionali (di dominazione, incorporazione, opposizione o strumentalizzazione).

Le tecnologie di produzione dei primati

Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.
Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.

L’identificazione di una “specie” a partire dalla tassonomia di Linneo è, come ricorda l’etimologia latina del termine, il frutto di un’operazione anche visiva, che usa la distinzione per fissare le differenze fra corpi puri, e allontanare così il pericolo dell’ibridazione (sia a livello materiale che simbolico)[11]. Ogni scienza è sempre una tecnoscienza che produce l’oggetto del proprio conoscere materializzando una precisa semiotica nei corpi di cui esprime una “forma particolare di appropriazione-conversazione”[12]. Anche la primatologia è una specifica tecnologia per l’incarnazione dei primati, oscillante fra i poli dell’orientalismo e del racconto fantascientifico – essendo sempre allotopico il mito dell’origine e della fine dell’uomo civilizzato[13]. Se prima della seconda guerra mondiale riguarda la visione in modo molto più esplicito, dopo la seconda guerra mondiale, coniugando ingeneria umana, sociobiologia e spiegazioni genetiche, si pone soprattutto il problema della comunicazione.

Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.
Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.

Emblematica della prima fase è la vicenda di Carl Akeley: tassidermista, biologo e inventore, divenuto famoso per aver imbalsamato l’elefante Jumbo, una delle principali attrazioni del circo Barnum tragicamente investito da un treno[14], e animatore dell’allestimento dell’Akeley Hall dell’American Museum of Natural History di New York. Qui, fra i 28 diorami delle principali famiglie della fauna africana, è custodito il gigante di Karisimbi, ucciso da Akeley in un’avventurosa spedizione nello Congo Belga, nel 1821 – dove di lì a poco il re Alberto I inaugurerà il primo parco nazionale africano, l’Albert National Park, caldeggiato da Akeley stesso.

Quell’anno il museo ospita il secondo congresso internazionale dell’eugenetica: anche se un museo è soprattutto un luogo dell’intrattenimento, un museo di storia naturale negli Stati Uniti in quel periodo deve anche contribuire al programma educativo della nazione. Tassidermia, fotografia[15] e pratiche di conservazione rappresentano una vera e propria profilassi per fermare il decadimento della storia e la corruzione del corpo, e contenere il timore per la fine dell’America preindustriale attribuita soprattutto alla grossa ondata di immigrazione di fine secolo. Avere sempre davanti agli occhi l’origine della civiltà contribuisce a contrastare le patologie del corpo individuale e collettivo sul piano medico e morale.

manifesto-pubblicitario-del-circo-barnumNel secondo dopoguerra, la natura diventa ciò che cura in contrasto alla potenza distruttiva della storia. Le scimmie sono considerate gli esseri più capaci di riportare l’uomo civilizzato a ciò ha già perso ma che ora rischia di perdere per sempre. Gli studi della primatologia sul campo tendono a privilegiare la prospettiva “al femminile” delle donne scienziate (di norma bianche e di estrazione borghese), sfruttando l’associazione donna-scimmia per porre maggiormente l’accento sulle relazioni affettive e sulla tematica della maternità.

La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.
La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.

Haraway[16] analizza il manifesto pubblicitario di un ciclo di documentari del 1984 del National Geographic sposorizzati dalla Gulf Oil su Jane Goodall, nota primatologa ed etologa americana che inizia a lavorare negli anni ‘60. Nel manifesto originale, sopra lo slogan “Understanding is Everything”, la sua mano stringe quella di uno scimpanzé. Il gesto è isolato da un ampio contesto di relazioni: l’Africa, i nativi, il momento storico della decolonizzazione, la posizione dominante della primatologia euroamericana, la stessa posizione delle primatologhe rispetto ai primatologi. La mano dell’animale indica metonimicamente la Natura, la mano di Goodall la scienza, una scienza femminilizzata, che persegue però sempre lo stesso scopo, significare e insieme produrre la verità della natura.

Quelli che non possiedono il linguaggio continuano a non potersi rappresentare da soli, e non resta loro che essere rappresentati. È una politica della rappresentazione che non fa alcuna differenza, perché mantiene immutata la sintassi e il luogo del Soggetto che continua a nominare il Tu a partire dal Sé. La relazione resta subordinata agli elementi che mette in relazione, rimane una modalità di espressione del loro essere, non la modalità stessa del loro essere-in-relazione.

Animali (e) cyborg

Come ha scritto Paul B. Preciado in “Le féminisme n’est pas un humanisme” (2014), “la macchina e l’animale (i migranti, i corpo, la farmacopornografia, i bambini della pecora Dolly, i cervelli elettronumerici) […] sono omonimi quantici” di un nuovo animalismo. Nonostante pensando ai cyborg – a loro volta simili a salamandre che possono ri-generarsi ma non riprodursi perché si sottraggono al ritorno dell’identico[17] – tendiamo a considerare soprattutto la relazione tra macchine e animali umani, la prima teoria del cyborg, funzionale al potenziamento del maschio umano, è sperimentata in effetti sull’animale non umano.

HAM, il primo scimpanzé-astronauta.
HAM, il primo scimpanzé-astronauta.

In “Cyborgs and Space” (1960), Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline riportano i primi esperimenti eseguiti presso il NY Rockland State Hospital su un topo innestato con una pompa osmotica per il rilascio graduale di sostanze chimiche, modello per il futuro uomo [man] aumentato finalmente “libero di esplorare, creare, pensare e sentire”. Il sogno della razionalità tecnologica dell’uomo occidentale, incarnato solo un anno dopo HAM, il primo scimpanzé mandato nello spazio.

Loro discendente è l’oncotopo, un topo geneticamente modificato brevettato dalla DuPont e usato soprattutto per gli studi sul cancro al seno. Con l’oncotopo, venduto in cataloghi e classificato in database, l’ordine tassonomico si riconfigura come brand e segue le regole del copyright. La sua realtà semiotica, istituzionale e biochimica, è una realtà di “secondo ordine”[18]: la sua esistenza è un’invenzione che dev’essere costantemente sottoposta a manutenzione, essendo sempre possibile una mutazione che ne vanifica l’utilità.

The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).
The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).

Attore naturalculturale nel dramma della tecnoscienza, anche l’oncotopo è un ibrido in-appropriato che minaccia la purezza delle categorie. Come noi ma non come noi, l’oncotopo tuttavia è con noi, perché con noi condivide dei confini fragilissimi stabiliti da una rete complessa di tecnologie e relazioni d’uso dove nulla, nemmeno i diritti, esiste in astratto. Entrare in una relazione di diritto con questi animali vuol dire assumersi la responsabilità dei confini condivisi che dipendono dalle differenti capacità e forze in atto. Responsabilità [response-ability] significa essere attenti alla relazione che si crea nell’intra-azione[19] tra attori naturalculturali capaci di divenire e rispondersi reciprocamente.

Una storia di co-evoluzione

Saper vedere la nostra co-costituzione con gli altri non umani significa anche riconoscere la nostra sostanziale parzialità: non cercare una presunta identità originaria, ma al contrario riconoscere la co-evoluzione interspecie. Haraway usa la definizione di specie compagne [companion species], che distingue da quella di animali da compagnia [companion animal], per sottolineare questo divenire insieme. In When Species Meet, Haraway parla di numerosi “altri significativi” [significant others], gatti selvatici, polli d’allevamento, batteri, cavalli e creature marine. Ma soprattutto del suo cane Cayenne, con cui pratica la disciplina dell’agility, che le offre una conoscenza situata di come le relazioni interspecie portino alla luce ciò che non si conosce ancora ma che per questo può essere sempre possibile.

Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).
Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).

L’addomesticamento, generalmente letto come strumento dell’evoluzione dell’uomo secondo una dialettica servo/padrone, in realtà è una storia di azioni distribuite, un processo emergente di coabitazione. Non c’è stata da un lato l’evoluzione biologica degli animali e dall’altro quella culturale degli umani, ma le cose si sono mescolate molto più di quanto non dica la biologia: basti considerare per esempio i cambiamenti del sistema immunitario di chi vive quotidianamente a contatto con animali come i gatti, come leggiamo in uno studio recente.

Fare il cane domestico, sostiene Haraway, è un lavoro che richiede autocontrollo e una serie di capacità che si acquisiscono nella relazione specifica, dove è in gioco non solo l’economia affettiva, ma anche quella “lavorativa”. Se l’idea che gli uomini realizzano i loro intenti attraverso degli strumenti, siano essi gli animali o le macchine, è sintomo di un narcisismo tecnofilico di matrice umanista, l’idea che i cani sono portatori di amore incondizionato verso gli uomini esprime un narcisismo analogo, semplicemente capovolto di segno. I cani addomesticati infatti, condividono con noi anche una storia fatta di crimini e terrore, e sono stati usati, per esempio, come potenti armi da guerra. Si comprende allora la polemica harawaiana[20] contro chi, come Deleuze e Guattari[21], difende la natura dell’animale selvatico (nella fattispecie la muta di lupi) e considera snaturato l’animale addomesticato, che tra le altre cose ripropone la dicotomia naturale/artificiale presente anche nella distinzione sesso/genere.

Perché gli altri significativi siano anche significanti, però, la distinzione fra natura e cultura e quella fra linguaggio umano e linguaggio animale non funzionano, perché in ultima istanza non escono dalla trappola dell’uno se non attraverso la sua duplicazione. Piuttosto che passare dall’identico al suo doppio, Haraway propone, da una parte, di spostarsi sui molti, su ciò che sfuggendo alla riproduzione mimetica dell’uno che trova l’altro per ritrovare se stesso, trasformi le relazioni di corrispondenza (rappresentazionali) in relazioni di co-implicazione (performative), per fare la differenza senza identificarla, e contemporaneamente differenziare la rappresentazione. Dall’altra, di assumersi la responsabilità di at-testare[22] le nostre configurazioni con gli altri non umani a partire dai confini condivisi. Dal momento, però, che il linguaggio è solo una delle possibili forme di articolazione di questo mondo che in molti abitiamo, è ora di mettere da parte il sogno di un linguaggio comune, e iniziare a sognare quello di una “potente eteroglossia infedele”[23].

 

[1] D. Haraway, Primate Visions. Gender, Race and Nature in the World of Modern Science, Routledge, New York, 1989, pp. 102-3.

[2] Id., “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, «Environmental Humanities», vol. 6, 2015, p. 161.

[3] Id., Primate Visions, cit.

[4] Id., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™: femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, Milano, 2000.

[5] Id., Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Sansoni, Firenze, 2003; Id., When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 2008.

[6] Id., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1999².

[7] Definizione che evoca il nome di Cthulhu, creatura fantascientifica partorita dalla penna di H. P. Lovecraft, da cui Haraway si discosta però esplicitamente: Id., “Anthropocene, Capitalocene…”, cit., p. 160.

[8] Ivi.

[9] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 117.

[10] Id., “The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others”, 1992.

[11] Id., When Species Meet, cit., p. 17.

[12] Id., Primate Visions, cit., p. 357.

[13] Ibidem, p. 137.

[14] Non è poi così strano che anche la genealogia “mostruosa” del cyborg si leghi allo all’esibizione di una prodigiosità spaventosa e visibile, il freak.

[15] Non solo Akeley è noto anche come inventore di una speciale macchina fotografica con otturatore rotante per le fotografie naturalistiche in movimento, la Akeley Motion Camera, ma significativamente alla spedizione del 1821 prese parte anche Eastman, della Eastman-Kodak.

[16] D. Haraway, Primate Visions, cit., pp. 133 ss.

[17] Id., Manifesto Cyborg, cit., p. 83.

[18] Id. Modest Witness, cit., p. 99.

[19] K. Barad, “Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter”, 2003.

[20] D. Haraway, When Species Meet, cit., pp. 27 ss. Haraway non risparmia la sua critica nemmeno a Derrida (L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano, 2006), che nudo di fronte allo sguardo del proprio gatto, non si assume fino in fondo il rischio dell’intersezione visiva, incapace di acccogliere il suo invito al divenire animale fuori dalle regole dell’Io: Ibidem, pp. 19 ss.

[21] G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e Schizofrenia, sez. II, Castelvecchi, Roma, 1996, pp. 150 ss.

[22] A questa idea si collega la definizione harawaiana di “testimone modesta”, in Testimone Modesta, cit.

[23] Id., Manifesto cyborg, cit., p. 84.

Pratiche curatoriali e postcolonialità: EX NUNC, l’esperienza diasporica e il web.

Guardare le pratiche curatoriali più recenti significa dare ragione a chi, da una prospettiva ‘culturalista’, a partire almeno dagli anni Novanta del secolo scorso credeva che la curatela stessa, come specchio del mondo, non può essere letta separatamente dagli sviluppi tecnologici. Affermazione che chiama in causa lo specifico della cura dell’arte quanto il problematico ‘tema’ della rappresentazione.
Come si legge nell’introduzione al volume intitolato Curating Immateriality (non più così recente ma per diversi aspetti ancora molto valido), dalla nascita di internet, col passaggio da un modello di rete “centralizzata” a un modello di rete “distribuita”, anche l’ambito della produzione curatoriale, insieme a molti altri, si è decisamente esteso e trasformato; e il focus stesso della curatela si è spostato dall’oggetto verso i processi e le dinamiche dei network systems (Krysa 2006, 7-25). A partire da questa riflessione, e attraverso teorie e studi provenienti da più parti e ambiti, nel volume si osserva il ruolo del curatore (e le strutture del controllo curatoriale) in relazione alle attuali formazioni socio-politiche e tecnologiche. Si guarda, cioè, al modo in cui i network systems hanno cambiato e stanno continuando a trasformare la curatela, e si afferma che questa stessa attività, collocata nel contesto della immaterialità, non va intesa solo come pratica creativa e critica, ma anche e soprattutto come pratica politica. È proprio in questa direzione che le pratiche curatoriali online, dal mio punto di vista, diventano particolarmente interessanti; cioè quando le potenzialità linguistiche e formali messe a disposizione dalla rete vengono ‘agite’ in qualità di “interruzioni” (per usare un termine caro a Stuart Hall) capaci di contestare o contraddire le nuove forme di assoggettamento/controllo che la rete stessa è capace di produrre quotidianamente.

Su questi argomenti, di recente, mi è capitato di confrontarmi con Chiara Cartuccia, co-ideatrice e co-curatrice, insieme a Celeste Ricci, di EX NUNC, un progetto curatoriale pensato proprio per la piattaforma web (www.ex-nunc.org), nato nel 2014 e presentato in Italia lo scorso 5 novembre, all’interno del programma di NESXT (Torino). Di seguito riporto alcune delle osservazioni sui modi di agire della piattaforma che sono nate nel corso della nostra conversazione: concepite come appunti di una ricerca in progress, aperta, reciproca e finalizzata a una ‘verifica’ costante, più che alla formulazione di giudizi definitivi.


Chi, che cosa, come.

Per darne una descrizione sintetica, EX NUNC si pone come un tentativo di mappare, analizzare e interrogare le pratiche performative e la performatività, e opera nella doppia dimensione online/offline attraverso tre sezioni: Atlas, Journal e Curatorial. Quest’ultima, in particolare, fa della piattaforma digitale lo spazio privilegiato per l’esposizione e fruizione, dell’arte, proponendo un calendario di mostre dedicate a una tematica annuale (per il ciclo in corso, fatto di tre capitoli, il tema è Movement/History). Il programma si costruisce tramite invito diretto agli artisti, chiamati a confrontarsi con il focus tematico nonché con le necessità espositive dello spazio virtuale. Detto con le parole delle sue autrici, Curatorial è “un’area che noi leggiamo e interpretiamo come un vero e proprio project space, un luogo in cui presentare progetti curatoriali modellati per l’allestimento e la fruizione online. Finora abbiamo presentato solo lavori preesistenti, adattati al sito tramite un attento lavoro di collaborazione con gli artisti.” Nel caso della mostra M/H II Home, ad esempio, i disegni di Phoebe Boswell, originariamente concepiti come una striscia multimediale continua e lunga sette metri (“Tramlines” è il titolo dell’opera, realizzata nel corso di una residenza a Gothenburg, Svezia), diventano uno sfondo da scrollare verso il basso. In questa discesa si incontra la multimedialità (il tratto del disegno, a un certo punto, incornicia un’opera video che ha un suo sonoro), e i livelli della narrazione si sovrappongono, trasformano i modi della visione e influiscono sui tempi della percezione. Se pensiamo alle influenze reciproche tra ‘sistema-rete’ e utenza, il modo in cui le produzioni artistiche si ri-modellano e ri-formulano per rispondere alle esigenze della piattaforma digitale, da una parte, e a quelle della sua utenza, dall’altra (tempi, linguaggi, ecc) può essere certamente indicativo e significativo.

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Phoebe Boswell, Tramlines – screenshot dal sito EX NUNC

Ancora secondo le curatrici, “anche se è già molto interessante vedere come un lavoro ideato per altri contesti possa trovare una nuova forma sul web, nel futuro, condizioni economiche permettendo, ci piacerebbe avere delle opere concepite esclusivamente per la piattaforma, pensate avendo in mente, quindi, i linguaggi della rete e il suo pubblico. Pensiamo che lavorare con delle produzioni originali ci permetterà di capire meglio e più a fondo i limiti e le possibilità dello spazio online. Ogni intervento in Curatorial ci permette di capire meglio in che direzione ci siamo muovendo, quali sono i nostri strumenti, cosa dobbiamo affinare o evitare.”

In questo senso, dunque, Curatorial si assume l’impegno di utilizzare la tecnologia web per riflettere sui processi formali che stanno alla base delle metodologie adottate, mentre le si sta elaborando. “Siamo curiose di vedere cosa ci riserverà il futuro, soprattutto considerando la presentazione online di opere performance-based. Nel caso della performance il rischio più grande è presentare del materiale che abbia perso la sua natura temporale, presente, attiva, per ridursi a mera documentazione, materiale d’archivio, che deve essere necessariamente ri-attivato, perché soltanto un’ eco dell’evento che racconta. Penso che le possibilità d’uso del web per la produzione di opere d’arte siano infinite, i modi e strumenti in costante mutamento, e molti ancora da essere creati. Quello che posso dire è che per funzionare online un’opera originalmente modellata sul web deve saper conquistare le coordinate spazio-temporali caotiche, anacronistiche e vertiginose che questo non-medium consente. Quali saranno i risultati? Impossibile per me da dire, ma sicuramente li aspetto con ansia.”

 

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Curatorial, dunque, “è un assoluto work-in- progress, e siamo solo all’inizio.” Un inizio fatto di dubbi, più che di certezze, confessa Chiara Cartuccia. Un inizio rispetto al quale mi sembra importante interrogarsi sui rischi di subire/operare nuove forme di potere e controllo. Ancora dal punto di vista del duo curatoriale, “chi usa piattaforme online per la creazione e diffusione di materiale spesso vive nella gioiosa illusione d’essere totalmente accessibile, pienamente democratico e (potenzialmente) libero. In realtà lo spazio della rete è estremamente complesso e contraddittorio. L’illusione d’immediatezza porta a pensare che non ci siano barriere tra un contenuto internet e la percezione dell’utente, in verità la situazione è molto più complessa. Partendo dalla condizione in cui ci troviamo, da europei ben educati, che lavorano nell’arte e nell’accademia, diamo per scontate molte cose, dall’effettiva possibilità materiale di visitare un sito internet (ignorando molteplici fattori: disponibilità di connessione, mancanza di restrizioni censorie etc.) fino all’abilità dell’utente di comprendere le dinamiche della navigazione e la capacità d’analizzare criticamente un contenuto proposto. Parlando del nostro lavoro curatoriale online, trattandosi di un progetto artistico, abbiamo la fortuna di poter fruire del filtro mediatore delle opere stesse. Ogni nuova idea curatoriale per il sito ci permette di avviare una conversazione con gli artisti e i loro lavori, spesso capace di mettere in luce gli elementi problematici che l’abitudine rende invisibili. Il lavoro sul sito è una costante scoperta.”


Teorie nelle pratiche

Un ulteriore elemento di interesse, in relazione all’approccio della TRU, lo trovo nel focus tematico proposto quest’anno (Historical Body, da cui derivano i tre interventi curatoriali di Movement/History) attorno e attraverso il quale emergono molti dei topics riferiti alla “postcolonialità” come condizione attuale; penso alla migrazione, alla diaspora, al colonialismo e alla sua violenza ‘epistemica’, per citare Gayatri C. Spivak, ma anche all’archivio. Il ventaglio di problematiche che questi temi suggeriscono mi ricorda, ancora una volta, che anche nella dimensione ‘virtuale’ la rappresentazione audio-visiva gioca un ruolo di importanza cruciale, e prospetta nuovi scenari in cui la “performatività” riguarda innanzitutto gli immaginari (i significati, le narrazioni). Vorrei, allora, richiamare l’attenzione sulle potenzialità della rete di andare (di farci andare) oltre i regimi ‘normativi’ della rappresentazione, classificazione, catalogazione, selezione, ecc.
“Volevamo iniziare il cammino di EX NUNC analizzando l’elemento fondamentale per ogni pratica artistica basata sul gesto e l’azione: il tempo. E questo tempo, antilineare e antigerarchico, è, per noi, sempre esaurito e totalmente compreso in un istante che racchiude e illumina tutte le possibili temporalità. Un momento cosciente e attivo, quello agito, che parla di storia e storie, e funziona da cassa di risonanza anche (e tanto più) per quelle voci ammutolite del passato.
Postcolonial non è uno stato, una condizione ferma e definitiva, ma un processo ancora lontano dal compiersi. Identifichiamo come postcoloniale non un periodo storico, quello successivo la fine dei principali domini coloniali delle potenze europee in Africa e Asia, ad esempio, perché il regime di colonialità non ha avuto termine nell’interrompersi di certe dinamiche geo-politiche e militari. Si possono forse definire postcolonial tutte quelle riflessioni critiche e politicamente attive che hanno come obiettivo ultimo il realizzarsi di una piena decolonizzazione, quale liberazione da principi di dominazione, tanto economici/politici/sociali quanto culturali. In questo senso il nostro interesse per il postcoloniale trova le sue radici nell’attrazione per il negativo e il negato: narrative, immagini e voci che la storia occidentale, univoca e violentemente dominante, ha offuscato, ridotto e cancellato.”


Perché?: biografie della rete.

“Abbiamo scelto di lavorare anche nel virtuale perché volevamo essere nomadiche e instabili, ma conservavamo comunque il desiderio d’avere uno spazio tutto nostro cui fare ritorno. Fin dall’inizio, abbiamo sempre pensato di non volerci legare particolarmente alla città in cui ci troviamo ad abitare la maggior parte del tempo, Londra. Un po’ per la nostra naturale personale instabilità geografica, essendo tutte e due legate a diverse città e paesi, un po’ perché non riteniamo strettamente necessario né utile investire gran parte del nostro tempo nel tentativo di mantenere uno spazio fisico, in una città come questa. E non solo per ragioni economiche, ma soprattutto concettuali. Volevamo, appunto, essere potenzialmente ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo; vorremmo parlare a un pubblico molto più differenziato e mutabile di quello che una singola città europea possa offrire, o contenere.
Si, penso che la nostra esperienza di vita all’estero abbia indirizzato un po’ questo nostro interesse. In particolare vivere nella curiosa condizione di privilegio che la mobilità europea ci ha, fino ad ora almeno, garantito, e trovarsi a confronto con altri tipi di migrazioni (quelle che si possono definire “propriamente dette”) porta a domandarsi dove risiedano i nodi cruciali di certe differenziazioni. Inoltre penso anche che la nostra distanza dall’Italia, per diversi anni ormai, ci abbia reso forse più consapevoli delle nostre radici mediterranee, e abbia quindi rafforzato la nostra connessione (non solo intellettuale e culturale, ma anche romantica) con tutte le realtà che quel nostro mare lontano bagna, incontra e spesso respinge.”

The Sound of Culture. Razza e tecnologia attraverso il banco mixer

In ingegneria informatica l’espressione master/slave indica il protocollo di comunicazione in cui una macchina o un processo principale controlla una o piu’ macchine o processi subordinati. La medesima terminologia può essere applicata anche a sistemi tecnologici pre-informatici, quali un sistema video centralizzato, una rete di orologi o un impianto idraulico, purché basati sul medesimo rapporto di subordinazione. Nonostante sia recentemente stata messa in discussione negli Stati Uniti in quanto “eticamente inaccettabile”,i la definizione sopravvive ancora oggi nel linguaggio colloquiale della programmazione. Stranamente non vi e’ alcuna traccia di un uso del termine in questa accezione prima della fine della seconda guerra mondiale. Non e’ dunque una sgradevole eredita’ linguistica di un altro tempo a trovare spazio nel lessico tecnologico contemporaneo. C’e’ forse una ragione piu’ profonda che puo’ spiegare questa curiosa incongruenza?

Copertina del libro con un opera di David Huffman
La copertina del libro con un’opera di David Huffman

Edito quest’anno dalla Wesleyan University Press, The Sound of Culture. Diaspora and Black Technopoetics indaga in profondita’ la relazione che tiene insieme corpo nero, schiavitu’ ed il nostro modo di concepire la tecnologia. Passando in rassegna una notevole quantita’ di fonti eterogenee che vanno dalla letteratura proto-sci-fi vittoriana al jazz, dai blackface minstrel show al cyberpunk, Louis Chude-Sokei disegna un originale percorso critico che mette al centro il modo in cui la modernita’ occidentale ha dato senso al concetto di macchina, ritrovandone le tracce nell’interdipendenza tra i due processi fondanti dell’era moderna: industrializzazione e schiavitu’. Se il passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale puo’ essere assunto come il primo passo verso la progressiva tecnologizzazione della modernita’, anche il nostro rapporto con la tecnologia dovra’ necessariamente essere messo a confronto con il retaggio culturale della schiavitu’. E’ questa infatti l’istituzione che piu’ di ogni altra ha sostenuto la rivoluzione industriale, garantendo ad essa quelle fondamenta socio-economiche senza le quali la stessa risulterebbe semplicemente impensabile. Secondo l’autore, la costruzione del concetto di razza e la concezione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia vanno intese come due storie che corrono parallele sotto la superficie della modernita’, talvolta producendo veri e propri punti di contatto che emergono in forma di letteratura, musica o cinema, o affiorano in determinati avvenimenti storici. Razza e tecnologia sarebbero dunque due concetti speculari; l’uno si riflette nell’altro attraverso lo specchio deformante dell’ansia.

Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935
Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935

Numerosi case studies sostengono la riflessione e donano concretezza ad un impianto critico complesso ed affascinante. Il libro si apre con la storia di Joice Heth, anziana schiava afro-americana messa in mostra tra il 1835 ed il 1836 da P. T. Barnum, impresario e fondatore dell’omonimo circo. Inizialmente reclamizzata con discreto successo come la ultracentenaria nutrice di George Washington, la sua fama crebbe ulteriormente quando il pubblico fu indotto a credere che l’ormai semiparalizzata donna non fosse un essere umano bensi’ un sofisticato trucco tecnologico. Se la storia di Joice Heth puo’ essere gia’ nota a chi ha familiarita’ con l’orrore degli zoo e dei circhi umani,ii l’autore ne arricchisce l’analisi con una prospettiva inedita, intrecciandola con la vicenda del “Turco”, presunto automata giocatore di scacchi costruito nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per intrattenere Maria Teresa d’Austria. L’esibizione in contemporanea delle due “meraviglie”, avvenuta fortuitamente nel dicembre del 1835 a Boston, fornisce l’input per intrecciare criticamente la storia di un essere umano ritenuto erroneamente una macchina con quella di una macchina erroneamente elevata al rango di creatura pensante, rendendo cosi’ tangibile il legame tra tecnologia e schiavitu’ che sottende tutta la riflessione. L’implicita razializzazione della tecnologia e’ pertanto il leitmotiv che attraversa l’intero libro. D’altronde lo stesso termine “robot”, coniato nel 1923 dal drammaturgo Karel Capek, e’ un adattamento dal ceco “robota” il cui significato oscilla tra “corvèe”, “servitu’” e “schiavo”.

Se questo e’ l’assunto di partenza, grazie all’abbondanza di riferimenti il libro offre molteplici percorsi di lettura potenzialmente indipendenti. Ad esempio, nel sondare i limiti dell’umano in quanto messi in discussione dall’incerto status attribuito allo schiavo nero (uomo, animale o pura forza lavoro – e dunque macchina?) la riflessione entra necessariamente in dialogo con il postumanesimo. Espanso nella sua dimensione razziale e riletto attraverso la lente fornite dal pensiero caraibico della creolite’ e del metissage, il cyborg di Donna Haraway trova cosi’ un antecedente ideale nel concetto di synthesis-genesis di Edouard Glissant e soprattutto nel pensiero di Sylvia Winter. La riflessione su un “pre-postumanesimo” di matrice caraibica sembra inoltre assumere una valenza quasi programmatica nell’intento di riportare al centro del dibattito critico lo specifico contributo proveniente da una regione del mondo postcoloniale che ha fatto della sintesi delle opposizioni un modus vivendi prima ancora che un modus pensandi, ed ha visto in tempi recenti la specificita’ della propria condizione esistenziale divenire un paradigma utilizzato a piacimento nell’accademia occidentale.

E’ lecito a questo punto domandarsi quale sia il sound a cui il titolo si riferisce. La domanda e’ ancor piu’ legittima per quanti conoscono Chude-Sokei come l’autore, a partire dagli anni novanta, di un pugno di seminali articoli aventi come oggetto la cultura sound system ed il dub giamaicano.iii Questi articoli, che come egli stesso ha ricordato suscitarono all’epoca una accoglienza decisamente fredda nel mondo accademico,iv costituiscono invece oggi un riferimento fondamentale per quanti si accostano all’analisi di questi fenomeni culturali. Ma per quanto i riferimenti musicali non manchino, questo non e’ un libro sulla musica ne’ tantomeno sul suono. Almeno non nella sua dimensione fenomenologica. Come lo stesso autore si preoccupa di spiegare nell’introduzione, il sound del titolo va piuttosto inteso nel peculiare senso attribuito al termine in Giamaica, significato che egli stesso aveva gia’ evidenziato in uno scritto del 1997:

“In Jamaican English a “sound” means many things simultaneously. In addition to the basic definition of the word it means also a song, a style of music or a sound system. It is in the final definition that all the different meanings find dynamic peace (…) Sound in Jamaica means process, community, strategy and product. It functions as an aesthetic space (…) an imagined community (…) which operates not by the technologies of literacy but through the cultural economy of sound and its technological apparatus…”v

Copertina dell'album di Scientist, Giamaica 1982
Copertina dell’album di Scientist, Giamaica 1982

Va dunque inteso come una ecologia, l’ambito di produzione di una sfera pubblica all’interno della quale la sintesi creativa di corpi neri e tecnologia diviene possibile in modi inediti ed imprevedibili. Ecco che il dub giamaicano torna qui prepotentemente quale locus sonoro privilegiato dove questo post-umanesimo caraibico si concretizza. Il risultato e’ un’audio-fantascienza tutta analogica che produce una temporalita’ out of sync, una sorta di futuro antico ben rappresentato nelle copertine dei dischi, e dove il confine tra magia nera e scienza (anch’essa nera) del suono si fa fluido e permeabile.

Appare chiaro come un silenzioso dialogo con l’Afrofuturismo sia un’altro dei percorsi di lettura che attraversano il libro nella sua interezza. Pur condividendone buona parte degli interessi di ricerca nei tipici temi della musica nera, della fantascienza e della tecnologia, Chude-Sokei ci tiene a rimarcare la sua indipendenza rispetto ad ogni etichetta. All’Afrofuturismo sembra rimproverare di essersi cristallizzato in una sorta di canone decisamente localizzato su un asse nord-Atlantico, supportando in tal modo una concezione eccessivamente stabile ed omogeneizzante della identita’ nerasostenuta dall’analisi di una produzione culturale prettamente anglo-americana. L’insistenza sul dub giamaicano quale riferimento privilegiato tra tutti i territori sonori possibili va cosi’ a replicare la funzione che l’accento sul pensiero della creolite svolge sul piano dei riferimenti critici: il tentativo di spostare il baricentro dell’analisi da una prospettiva occidento-centrica per includere (alcune del-) le diverse e spesso irriducibili sfumature della blackness. Dopotutto, mano a mano che l’industria musicale ne coopta le innovazioni per rivenderle sul mercato globale, il cuore pulsante della sperimentazione musicale e tecnologica di matrice afro si sposta sempre piu’ ai margini dell’occidente. Ed i suoni del global ghettotech, che Steve Goodman ha provato a mappare con la potente immagine di un planet of drums, ci rimandano ad una cartografia in cui Johannesburg, Dakar e Kingston hanno la stessa importanza di Londra o Detroit.vi

King Tubby, the dub originator
King Tubby, the dub originator

Ma a discapito della sua presenza esplicita in qualche decina di pagine, l’influenza del dub appare rilevante nella struttura stessa del lavoro. Se consideriamo dub come verbo anziche’ nome, processo piuttosto che oggetto, l’intera riflessione di Chude-Sokei diviene una riuscita forma di dubbing critico. Alternando costantemente concetti e riferimenti durante tutto il corso dell’opera, l’autore assume il ruolo di un concept engineer, che riesce a fare emergere nuovi spazi di discussione dalla giustapposizione di storie e prospettive che, seppur distanti tra loro, concorrono a vario titolo alla costruzione di quella formazione culturale che siamo soliti definire modernita’. Herman Melville e William Gibson, Gilles Deleuze e Aime’ Cvodoo haitiano e cibernetica sono solo alcuni degli elementi che vanno aggiunti a quelli gia’ citati per ricomporre almeno parzialmente il quadro di un’opera complessa e stimolante. Sebbene possa risultare difficile per il lettore condividere la medesima familiarita’ che l’autore dimostra di avere nei confronti di questa pluralita’ di storie ed approcci, grazie alla sapiente alternanza degli stessi e ad un impianto critico ben articolato la lettura riesce sempre a trovare sempre una via attraverso uno dei molteplici percorsi possibili. In altre parole, il mix suona solido ed invita la mente alla danza. Per chi invece era in attesa di un libro che raccogliesse piu’ direttamente le fila del pluridecennale lavoro dell’autore sulla musica giamaicana e le sue derivazioni, niente paura; un volume che raccoglie tutti gli articoli gia’ editi ed alcuni nuovi scritti sull’argomento e’ in via di pubblicazione.


Note

[i]Nel 2003, a seguito ad un complaint formale da parte di un lavoratore anonimo, la Contea di Los Angeles ha inoltrato richiesta ufficiale ai propri costruttori, assemblatori e fornitori di materiale tecnologico per la sostituzione della terminologia master/slave all’interno dei protocolli. L’anno successivo il termine e’ stato eletto “most politically incorrect term” dal Global Language Monitor. Attualmente il termine e’ stato sostituito daprimary/replica ma sopravvive nel linguaggio colloquiale della programmazione.

[ii] Sugli zoo umani si veda: Lamaire, S. et al. 2002. Zoo umani, Dalla Venere ottentotta ai reality show. Verona: Ombre Corte.

[iii] Chude-Sokei, L. 1994. “Post-Nationalist Geographies: Rasta, Reggae and Reiventing Africa” in African Arts 27 (4); Chude-Sokei, L. 1997a. “Dr. Satan’s Echo Chamber: Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Bob Marley Lecture, Reggae Studies Unit, Institute of Caribbean Studies, University of the West Indies, Mona; Chude-Sokei, L. 1997b. “The Sound of Culture. Dread Discourse and the Jamaican Sound Systems.” In Language, Rhythm and Sound: Black Popular Cultures in the Twenty-First Century, edited by Joseph K. Adjaye and Adrianne R. Andrews, 185-202. Pittsburgh: University of Pittsburg Press.

[iv] “When I first started writing about sound systems nobody knew what the hell I was on about. Even in Jamaica I was booed and attacked because it wasn’t a “serious” topic for a scholar…” (Louis Chide-Sokei facebook profile, consultato il 31 ottobre 2016)

[v] Chude-Sokei, L. 1997a. Op. Cit.

[vi] Goodman, S. 2012. Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear (Technologies of Lived Abstraction). Cambridge-London: The MIT Press. pp. 172-175.

Da Standing Rock alla Palestina: Facebook tra la solidarietà e la sorveglianza

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Artwork in solidarity with Standing Rock and the water protectors. (Leila Abdelrazaq)

“Arrived safely. PM me for your concerns. We’re gonna beat back the Feds! Solidarity always.”

We stand with Standing Rock. A queste parole si è accompagnato più o meno l’ondata virale di post e check-in su Facebook dei giorni scorsi. Pare che oltre un milione di persone abbiano infatti scelto di geo-localizzarsi pubblicamente nei pressi della riserva indiana di Standing Rock, nel North Dakota, Stati Uniti d’America. A scatenare la reazione globale è stato un post, la cui origine sembra essere difficile da decifrare ma che è transitato attraverso i canali Facebook della Standing Rock Indian Reserve, la comunità resistente Sioux che si oppone alla costruzione sul suo territorio dell’oleodotto (Dakota Access Pipeline). Nel post si faceva riferimento al fatto che le autorità e lo sceriffo della contea stavano utilizzando lo strumento check-in di Facebook, grazie al quale è possibile registrarsi ed essere registrati in qualsiasi posizione geografica, per monitorare, individuare e localizzare gli attivisti, in centinaia già arrestati durante gli scontri con la polizia. Perciò i “Water Protectors” hanno richiamato la comunità transnazionale di solidali, chiedendo di registrarsi lì e condividere pubblicamente la localizzazione, così da ingarbugliare il sistema e confondere le autorità di polizia, un’azione quindi concretamente utile a proteggere tutti coloro impegnati fisicamente in prima linea nella difesa del territorio e delle risorse.

Se e quanto un’operazione di questo tipo possa essere effettivamente utile all’obiettivo dichiarato sembrerebbe difficile da definire, ma potrebbe non essere in realtà l’aspetto più significativo di questo discorso; sarebbe più importante ragionare sui due aspetti intrecciati della questione, ovvero l’uso di Facebook come strumento di controllo, sorveglianza e indagine da parte delle autorità di polizia, dall’altro la possibilità – forse – di poter ricorrere allo stesso strumento in maniera sabotante per innescare meccanismi di solidarietà, più che di resistenza. È chiaro che gli attivisti in North Dakota sono per lo più preoccupati dal monitoraggio diretto che da quello virtuale, così come è chiaro che, se veramente Facebook è adoperato a questo scopo, non sarà difficile distinguere le localizzazioni reali e magari non pubblicizzate, da quelle da remoto di questi giorni. Tuttavia, nonostante lo sceriffo della contea di Morton abbia pubblicamente negato questa pratica di controllo digitale, l’utilizzo dei social media come strumento di intelligence non è certo una novità, e l’abbiamo visto negli Stati Uniti anche nei confronti degli attivisti del movimento Black Lives Matter.

“From Palestine to Standing Rock” banner (Photo: Haithem El-Zabri with creative help from PYM) Fonte: mondoweiss.net

L’esperienza di Standing Rock ci dà modo di ripensare in qualche modo quella dei Territori Occupati Palestinesi. Che i due territori e le due comunità siano legate a doppio filo dalla necessità di fronteggiare l’avidità di un potere che si manifesta nelle forme di un colonialismo di insediamento (settler colonialism) sempre in fase espansiva, simbolicamente rappresentato dallo strumento del Caterpillar, di cui ha parlato Léopold Lambert sul suo blog The Funambulist; e che non a caso la comunità palestinese abbia in questi giorni lanciato un appello di solidarietà con le comunità indigene in lotta, è una delle parti più interessanti di questa storia, e che di certo andrà approfondita altrove. Un legame che fa da esemplare cornice a come un potere di matrice coloniale usi anche la sfera digitale per incidere, affermarsi e invadere lo spazio, coniugando la finalità di appropriazione con la necessità di dominazione e sorveglianza.

Sappiamo forse poco di Standing Rock, sappiamo però di BLM, così come sappiamo che non è una pratica desueta quella dei servizi di intelligence israeliani di usare Facebook non solo per monitorare il dibattito interno palestinese, ma anche per riuscire ad ottenere delle informazioni. Nell’ottobre dello scorso anno, nel pieno delle manifestazioni e degli scontri tra giovani palestinesi e militari israeliani, si diffuse la notizia che Israele si stava servendo di finti account palestinesi (creati ad hoc e raffiguranti bandiere palestinesi come immagini di copertina, con testi scritti in arabo e numeri di telefono locali) per riuscire a scoprire i nomi e i numeri di telefono di coloro che prendevano parte agli scontri con le forze israeliane in Cisgiordania. Questa forma di intromissione porta ad un livello superiore quello che è ormai una strategia solida, quella per cui pagine e profili personali di personaggi in vista vengono chiuse per violazione delle regole di Facebook (segnalate dagli stessi account fake che sono stati creati), o che ha portato in giudizio palestinesi accusati di aver fomentato la violenza con i loro post su Facebook, adducendo come prove l’attività degli stessi sui social network. È evidente quanto per un governo ossessionato dalla paranoia e dalla sorveglianza, e quindi caratterizzato da un fortissimo investimento tecnologico e un grosso expertise nel settore della cybersecurity, ma soprattutto con il totale controllo delle infrastrutture di telecomunicazione su tutto il territorio (Gaza e Cisgiordania comprese, nonostante il servizio sia poi appaltato a società palestinesi – la situazione è descritta in maniera interessante nei lavori delle studiose Helga Tawil-Souri e Myriam Aouragh), il crescente utilizzo di Facebook anche da parte della comunità palestinese non ha fornito che il pretesto per l’introduzione di nuovi metodi e nuovi terreni dove esercitare il proprio controllo. Le agenzie di sicurezza israeliane considerano Facebook una sorta di “open source information”, dove recuperare informazioni senza dover essere a rischio sul campo, e pare che solo poche settimane fa il Ministro della Giustizia israeliano abbia incontrato i vertici dell’azienda di Facebook per coinvolgerli in una task force contro i contenuti che incitano alla violenza contro Israele. Dietro la superficie pacificata di un accordo in risposta ad hate speech ed istigazione della violenza, c’è dunque il malcelato tentativo di assumere una posizione asimmetrica e di esercizio repressivo in quello che è diventato in qualche modo l’ennesimo fronte, stavolta virtuale, di questo conflitto, e per tentare di arginare tra l’altro l’espansione della campagna BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), che proprio anche grazie alla rete di Internet si alimenta.

Illustrazione di Carlos Latuff (2016)

Certamente, quest’ultimo evento solleva anche un punto importante sul ruolo, le collaborazioni e le responsabilità di un’azienda proprietaria e tendente al monopolio come quella di Facebook, generando ulteriori interrogativi su cosa succede quando ad essere merce di scambio o di vendita non sono solo i big data. Nel caso palestinese però, è bene notare che Facebook non emerge che come la punta dell’iceberg di una pratica di controllo ben più stratificata, che passa come si accennava per la digital occupation, e cioè il controllo delle infrastrutture di telecomunicazioni, e si insinua anche attraverso quello che Adi Kuntsman e Rebecca Stein hanno chiamato digital militarism, quel processo per cui la cultura militarizzata della società israeliana penetra le politiche del quotidiano attraverso i social media, contribuendo tra l’altro a sedimentare una percezione derealizzata dei palestinesi, da parte militare e civile.

La situazione palestinese nella sua complessità, e quella di Standing Rock nella sua piccola ma simbolica esperienza di controllo digitale, devono quindi indurre a ragionare anche su scale un po’ più ampie, senza dover necessariamente però ricadere nell’idea che ogni tentativo di porre resistenza o seminare solidarietà debba risultare inquestionabilmente indebolito o vanificato. Se Facebook può agire come un motore di accelerazione, non costa nulla pensare che questo possa succedere a Standing Rock grazie ora ad una maggiore attenzione della comunità globale. In questo caso l’operazione di dirottamento e détournment operato dalla comunità solidale a Standing Rock, se forse non è del tutto incisiva allo scopo di depistare le presunte indagini della polizia, è riuscita però a forare la bolla e a dare un senso politico ad una funzione banale e abusata – quella della localizzazione, riappropriandosi – certo parzialmente – dello strumento di Facebook. Indubbiamente, la solidarietà non risiede in un tag o in un like, che possono risultare effimeri se non sostenuti da una più profonda, ed anche materiale, attività di supporto, ma se la possibilità che nuove narrazioni autonome emergano e trovino spazio nel caos della rete è ancora un nodo cruciale, e se localizzarsi può servire a diffondere informazioni e generare azioni di solidarietà, allora si fa importante contribuire alla loro diffusione, da Standing Rock alla Palestina.

Città effimere e spazi condivisi: il modello Kumbh Mela a Venezia

In questi giorni abbiamo assistito al drammatico sgombero di Calais Jungle, il campo per rifugiati e immigrati, fermati alla frontiera tra Francia e Regno Unito. All’indomani della crisi siriana, la giungla ha visto la propria popolazione aumentare in modo sensibile, acuendo le drammatiche condizioni abitative, sanitarie e psicologiche che l’eterogenea popolazione viveva nel campo. Se l’attributo di giungla vuole sottolineare il forte contrasto tra l’assenza di regole all’interno del campo e il campo come espressione urbanistica del diritto internazionale, l’ultima delle tante giungle di Calais è stata sotto l’attenzione dei media anche per le forme di autorganizzazione di cui il campo si era dotato, con una toponomastica, ristoranti e drogherie, diventando così una città informale, persistentemente temporanea.

Le forme effimere di abitazione interrogano la Biennale di architettura di Venezia di quest’anno, il cui tema “Reporting from the Front” prende in considerazione le sfide contemporanee mettendo in questione lo stesso concetto di architettura. Lo apre cioè alla sua messa in discussione, alla rovina e all’effimero, a partire dallo studio dei materiali per arrivare alle metodologie di planning urbano,  piegate dalle pressioni di una vita sempre più precaria e mobile.

Architettura come sintomo o come cura

Come mettere in contesti estremamente diversi le sfide proposte dall’abitare temporaneo in cui i luoghi di transito acquisiscono sempre più significati, e dove l’instabilità si inscrive come cifra stabile delle nostre vite? Come si identifica il limite se la moltiplicazione di frontiere produce il mondo-come-confine? L’intuizione del team curatoriale, guidato da Alejandro Aravena, è stata quella disseminare queste sfide in una rete di concetti, estremamente eterogenei tra loro, ma che costituiscono in fondo la missione dell’architettura: una continua ricerca estetica che rappresenti o che risponda al pensiero egemonico contemporaneo.

Qualità della vita, ineguaglianze, segregazione, insicurezza, periferie, migrazione, informalità, igiene, rifiuti, inquinamento, catastrofi naturali, sostenibilità, traffico, comunità, abitazione, mediocrità e banalità sono i 17 temi che strutturano la biennale di quest’anno. 17 temi che portano il peso delle loro criticità, ma è proprio il loro carattere ambivalente a interrogare gli studi e i team che hanno risposto alla call di Venezia. L’inflessione di queste tematiche raggiunge punte importanti quando si parla, come fa Making Heimat del padiglione tedesco, di coniugare il ripensamento della nazione con la concezione di arrival country; sia che si tratti di parlare di velocità di costruzione e smaltimento e di qualità dei materiali per garantire alle realtà urbane in veloce espansione di ripensarsi in modo rapido.

La conversione dell’antico Arsenale a spazio espositivo, ad esempio, fa il paio con il riutilizzo dei materiali di costruzione di questa edizione che provengono in gran parte da quelle precedenti. Attraversando questo spazio mi sono chiesto se l’architettura si limita a documentare e rappresentare la velocità del ciclo di produzione e distruzione, se si impegna a lenire il dolore provocato dalla crescente precarizzazione della vita oppure se al contrario si dedica all’opposizione di questo trend.

Governance nelle megacittà effimere

Infografica del sistema di governance spazio-temporale di Kumbh Mela
Infografica del sistema di governance spazio-temporale di Kumbh Mela

L’Arsenale, narrato attraverso planimetrie e modelli, viene interrotto dal progetto di ricerca di Rahul Merhotra e Felipe Vera della Harvard Graduate School of Design, Ephemeral Urbanism: Cities in constant flux. Il punto di partenza è Kumbh Mela, sulle rive del Gange: una città effimera di 23 chilometri quadrati che sorge in simbiosi con le cicliche piene del fiume in occasione dell’omonima festività religiosa. La più popolosa delle città temporanee è stata disegnata, montata, amministrata e smontata tra il 2012 e il 2014 (prima che il Gange si riprendesse la terra per renderla terreno agricolo fertile) e risorgerà nuovamente per il prossimo festival religioso che si terrà nel 2024.

Il punto più interessante della ricerca consiste nell’aspetto che riguarda il governo e la logistica della città nomadica, la stratificazione di soggetti statali e locali che gestiscono non solo la spazialità ma anche la temporalità della città. Ragionando con Kumbh Mela, Merhotra e Vera riflettono sull’urbanistica effimera che si attualizza secondo diverse modalità e scopi (rituali, celebrativi, emergenziali, di rifugio e di estrazione) come occasione per pensare a nuove forme di progettazione e management urbano che tengano presente l’accelerazione crescente del metabolismo delle metropoli e alle forme di identità culturali transitorie che in esse si realizzano.

Kumbh Mela rappresenta un’alternativa per pensare alla progettazione urbana in cui vari soggetti e soggettività collaborano per uno spazio condiviso, come alternativa alla gestione non partecipata di situazioni emergenziali, a quella spregiudicata di eventi globali come le Olimpiadi o i Campionati mondiali di Calcio e all’utopianesimo plutocratico di celebrazioni come il Burning Man che ha prodotto il modello Black Rock City, esportato in seguito sia in Israele che in Europa.

 

I protocolli del potere: Io, Daniel Blake di Ken Loach (2016)

Daniel Blake, il protagonista dell’omonimo film di Ken Loach, è un carpentiere sessantenne, vedovo e senza figli a cui i medici hanno proibito di lavorare a seguito di un serio infarto che l’ha colpito sul lavoro. Per questo si rivolge allo stato sociale per ricevere l’indennità di malattia, un diritto dei lavoratori conquistato, come Loach stesso ha documentato, negli anni seguenti la seconda guerra mondiale sull’onda non solo di un boom economico ma soprattutto della forza e della sicurezza accumulata dalle classi lavoratrici inglesi durante la guerra. Invece di ricevere la sua indennità di malattia che gli avrebbe permesso di recuperare forze e salute, Blake si trova costretto, come molti britannici e non solo, ad attraversare un inferno burocratico dove macchine e umani, computer e ‘professionisti’ si concatenano per impedirgli l’accesso a quello che è un suo diritto.

La prima scena, mentre ancora scorrono i titoli iniziali e non si vedono i volti, ci fa ascoltare un surreale dialogo dove Blake è costretto a rispondere a un barrage di fuoco di domande da parte di una ‘professionista della sanità’ al soldo di una multinazionale americana a cui il governo inglese ha appaltato questo tipo di servizi – domande che nulla hanno a che fare con la sua certificata condizione medica. Il film non ci mostra la figura di questa professionista che nonostante il certificato medico lo dichiara abile al lavoro (che secondo i medici lo ucciderebbe), ma ci fa sentire tutto il peso della violenza dei protocolli che ormai mediano l’esercizio del potere sui corpi della popolazione. I protocolli, infatti, sono sempre più centrali non solo al funzionamento della rete Internet, ma alla trasformazione dei servizi pubblici e dell’assistenza al pubblico secondo i principi del New Public Management. Protocolli e procedure sono delle rigide condificazioni di regole che chi esegue un lavoro di tipo biocognitivo sono sempre più costretti a seguire. Si tratta di un discorso tecnico che può essere formulato da un umano o da una piattaforma informatica ma che comunque si presenta come un monologo con uun feedback o risposta strettamente codificata, dove andare fuori dai binari provoca una punizione o sanzione (per esempio perdere la pensione o sussidio per un mese e quindi la fame). Allo stesso tempo si tratta di un codice soggetto a tutti i bugs o momenti illogici dove i comandi dati sono contraddittori come quando il computer si impalla, ma questa volta quello che si impalla è il sistema burocratico e il costo è la vita o la morte.

Nel film vediamo spesso Blake lottare contemporaneamente contro burocrat*, impiegat* e guardie che continuano a negargli l’accesso all’indennità, costringendolo a fare domanda per il sussidio che a sua volta richiede 35 ore di lavoro settimanale da dimostrare impiegate alla ricerca del lavoro – secondo il regime che ormai si chiama workfare (che costringe a lavorare pur di ricevere un sussidio pur se lavoro non ce n’è, quindi girando a vuoto per esempio). Un abile artigiano che ha usato oltre agli strumenti da carpentiere anche la matita per tutta la sua vita, Blake si trova perso di fronte all’obbligo di usare le interfacce digitali, le piattaforme di stato, per richiedere il suo diritto alla malattia. Il pubblico in sala ride quando lo vede prendere il mouse e metterlo sullo schermo perché non ha mai usato un computer e freme empaticamente di frustrazione quando lo vede aspettare per ore che qualcuno risponda a un call centre a pagamento che gestisce i ricorsi o quando lo vede affannarsi per ore al computer solo per sentirsi dire che la sua sessione è scaduta per mancanza di tempo o che c’è un’errore nel suo modulo o che il computer si è impallato. Protocolli, piattaforme, regole e impiegati ridotti ad automi si compongono in una macchina crudele, sadica che, come rileva il ragazzo nero vicino di casa di Blake, serve solo ad umiliare ed ‘eliminare’ quanti più possibili ‘numeri’ (statistiche) dal sistema. E’ contro questa macchina infernale che si presenta come ‘morale’ che Blake compie la sua trasgressione più grande: scrivere con una bomboletta spray a grandi lettere calligrafiche la sua richiesta di indennità di malattia sul muro dell’ufficio tra le acclamazioni e i cori anti-polizia della folla del centro della città.

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D’altro canto però Loach, nella tradizione dei grandi storici inglesi della classe operaia come Richard Hoggarth e E.P. Thompson, non lascia solo il suo Blake davanti alla macchina sadica del workfare. Mentre ci mostra l’incubo di una rete asservita al potere, ci mostra anche tutta l’importanza e la vitalità delle comunità operaie del nord dell’Inghilterra, delle reti sociali di assistenza e aiuto reciproco, degli atti di quotidiana gentilezza e di sostegno che si esprimono anche come ribellione – come quando Blake si alza nell’ufficio comunale per chiedere che la ragazza madre di due figli che è arrivata tardi perchè trasferitasi da poco da Londra e poco avezza ai mezzi, possa avere il suo appuntamento, chiedendo agli astanti di lasciarla passare e quindi ricevere il sussidio di cui ha bisogno per sfamare sé stessa e i figli. Non ci sono deroghe alle regole però, e tutt’e due vengono buttati fuori dalle guardie giurate, diventando però amici con Blake che darà sostegno pratico e affettivo alla giovane famiglia. La ragazza infatti è stata sfrattata da Londra insieme ai due figli, costretta a trasferirsi per uscire dall’ostello e avere una casa per sé e i suoi figli. Come le nostre insegnanti, lei perde la sua rete familiare e di sostegno, cacciata dagli affitti alti, dalla mancanza di edilizia popolare e dalla tassa imposta dai conservatori sulle cosiddette ‘stanze sfitte’. La rete sociale della solidarietà operaia e dell’aiuto reciproco contro la rigidità delle regole e delle piattaforme di stato è basata in rapporti di vicinato, in gentilezze quotidiane, ma non è di per sé a-conflittuale o tecnofoba. Dopo lo scontro con il modulo online per fare domanda di disoccupazione, Blake si ritrova a passare una serata gioiosa con i suoi due vicini di casa, due ragazzi magazzinieri , in collegamento diretto su skype con un operaio cinese fan di calcio, che gli manda di nascosto le costosissime trainers che loro rivendono a metà del prezzo del negozio. Alle regole rigide del potere, ai suoi protocolli e al suo sadismo, Loach oppone dunque una rete fatta di solidarietà e aiuto reciproco e una tecnocultura artigianale che plasma il legno e cura le relazioni ma che usa anche la logistica della rete per creare nuovi legami transnazionali di un commercio solidale e anti-legalitario.