Skip to main content

La rappresentazione degli animali non umani in Donna Haraway

Le due giornate del convegno internazionale Zoosemiotica 2.0. Forme e politiche dell’animalità, organizzato dal Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo (1-2 Dicembre 2016), hanno riunito studiosi di diversa provenienza per riflettere sulla significazione dell’animale nei diversi campi del sapere, ovvero sulla gestione di quella “soglia insicura” che ha sempre collegato la definizione dell’animale non umano a una precisa visione e posizione dell’animale umano nel mondo.

Se nella zoosemiotica originata dal contesto delle scienze naturali del secondo dopoguerra la relazione uomo-animale è stata impostata nei termini di una gestione efficiente dei passaggi di informazione, secondo i principi della cibernetica di primo ordine[1], una seconda zoosemiotica richiede un ripensamento delle relazioni interspecie estranea agli approcci dell’umanesimo occidentale, in cui la la possibilità di instaurare relazioni differenti vada di pari passo con la ridefinizione dei termini stessi della relazione.

Durante il convegno è emersa, più o meno esplicitamente, una sostanziale impossibilità di definire animali se non con parole “proprie”: resta sempre linguistico, infatti, il riconoscimento del “tu” animale, ed è sempre nel linguaggio dell’io che si crea lo spazio che lascia parlare l’altro anche riconoscendogli un diverso linguaggio. Pur essendo chiaro che la questione animale è soprattutto una questione rappresentazionale, però, solo in pochi casi la funzione della rappresentazione è stata messa in discussione. Non stupisce allora che la riflessione antispecista del femminismo, in particolare nella sua versione postumanista, o per dirla con Haraway “compostista”[2] – che sulla ridefinizione della rappresentazione e sui saperi situati ha sempre lavorato – sia stata pressoché assente, fatta eccezione per qualche riconoscimento tributato a un generico femminismo per aver aperto la strada all’adozione di un paradigma finalmente postantropocentrico.

Nel mio intervento, ho scelto di soffermarmi su tre fra i numerosi animali non umani per la produzione tecnobiopolitica dei corpi che compaiono nei lavori di Donna Haraway, ovvero i primati[3], l’oncotopo[4] e il cane[5], per mostrare come nella sua teoria la rappresentazione della differenza molteplice (femminile, animale, macchinica) e la fine del mito dell’origine si accompagnano sempre a un radicale lavoro di decostruzione della nozione di rappresentazione.

Tre fondamentali cedimenti di confine, fra umano e animale, fra organico e macchinico, e fra fisico e non fisico (ovvero fra materiale e informazionale) caratterizzano secondo Haraway[6] l’epoca nella quale viviamo, da lei recentemente definita Cthuluchene[7], nel cui mondo, articolato e multiforme come un insettoide o un trickster, “più che umano, altro da umano, inumano, e umano come humus”[8] s’incontrano dando vita a complessi assemblaggi naturalculturali. Attraverso le crepe aperte da questi cedimenti ciò che appariva come naturale e invariabilmente “dato” cessa di essere tale, ma al contempo si apre anche un nuovo campo di possibilità.

Come sempre, per Haraway, affermare che ogni ottica è una politica del posizionamento, e che dunque l’io e l’altro sono questioni prospettiche, non significa rifiutare la visualità, ma dislocarla, trasportarla altrove così da essere “capac[i] di unirsi a un altro, per vedere insieme senza pretendere di essere un altro”[9]. L’altro, infatti, può essere tale solo mantenendo il suo essere in-appropriato, cioé in una condizione di relazionalità critica”[10] non prefissata in alcuna categoria della differenza, e perciò in grado di sfuggire alle strategie rappresentazionali (di dominazione, incorporazione, opposizione o strumentalizzazione).

Le tecnologie di produzione dei primati

Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.
Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.

L’identificazione di una “specie” a partire dalla tassonomia di Linneo è, come ricorda l’etimologia latina del termine, il frutto di un’operazione anche visiva, che usa la distinzione per fissare le differenze fra corpi puri, e allontanare così il pericolo dell’ibridazione (sia a livello materiale che simbolico)[11]. Ogni scienza è sempre una tecnoscienza che produce l’oggetto del proprio conoscere materializzando una precisa semiotica nei corpi di cui esprime una “forma particolare di appropriazione-conversazione”[12]. Anche la primatologia è una specifica tecnologia per l’incarnazione dei primati, oscillante fra i poli dell’orientalismo e del racconto fantascientifico – essendo sempre allotopico il mito dell’origine e della fine dell’uomo civilizzato[13]. Se prima della seconda guerra mondiale riguarda la visione in modo molto più esplicito, dopo la seconda guerra mondiale, coniugando ingeneria umana, sociobiologia e spiegazioni genetiche, si pone soprattutto il problema della comunicazione.

Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.
Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.

Emblematica della prima fase è la vicenda di Carl Akeley: tassidermista, biologo e inventore, divenuto famoso per aver imbalsamato l’elefante Jumbo, una delle principali attrazioni del circo Barnum tragicamente investito da un treno[14], e animatore dell’allestimento dell’Akeley Hall dell’American Museum of Natural History di New York. Qui, fra i 28 diorami delle principali famiglie della fauna africana, è custodito il gigante di Karisimbi, ucciso da Akeley in un’avventurosa spedizione nello Congo Belga, nel 1821 – dove di lì a poco il re Alberto I inaugurerà il primo parco nazionale africano, l’Albert National Park, caldeggiato da Akeley stesso.

Quell’anno il museo ospita il secondo congresso internazionale dell’eugenetica: anche se un museo è soprattutto un luogo dell’intrattenimento, un museo di storia naturale negli Stati Uniti in quel periodo deve anche contribuire al programma educativo della nazione. Tassidermia, fotografia[15] e pratiche di conservazione rappresentano una vera e propria profilassi per fermare il decadimento della storia e la corruzione del corpo, e contenere il timore per la fine dell’America preindustriale attribuita soprattutto alla grossa ondata di immigrazione di fine secolo. Avere sempre davanti agli occhi l’origine della civiltà contribuisce a contrastare le patologie del corpo individuale e collettivo sul piano medico e morale.

manifesto-pubblicitario-del-circo-barnumNel secondo dopoguerra, la natura diventa ciò che cura in contrasto alla potenza distruttiva della storia. Le scimmie sono considerate gli esseri più capaci di riportare l’uomo civilizzato a ciò ha già perso ma che ora rischia di perdere per sempre. Gli studi della primatologia sul campo tendono a privilegiare la prospettiva “al femminile” delle donne scienziate (di norma bianche e di estrazione borghese), sfruttando l’associazione donna-scimmia per porre maggiormente l’accento sulle relazioni affettive e sulla tematica della maternità.

La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.
La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.

Haraway[16] analizza il manifesto pubblicitario di un ciclo di documentari del 1984 del National Geographic sposorizzati dalla Gulf Oil su Jane Goodall, nota primatologa ed etologa americana che inizia a lavorare negli anni ‘60. Nel manifesto originale, sopra lo slogan “Understanding is Everything”, la sua mano stringe quella di uno scimpanzé. Il gesto è isolato da un ampio contesto di relazioni: l’Africa, i nativi, il momento storico della decolonizzazione, la posizione dominante della primatologia euroamericana, la stessa posizione delle primatologhe rispetto ai primatologi. La mano dell’animale indica metonimicamente la Natura, la mano di Goodall la scienza, una scienza femminilizzata, che persegue però sempre lo stesso scopo, significare e insieme produrre la verità della natura.

Quelli che non possiedono il linguaggio continuano a non potersi rappresentare da soli, e non resta loro che essere rappresentati. È una politica della rappresentazione che non fa alcuna differenza, perché mantiene immutata la sintassi e il luogo del Soggetto che continua a nominare il Tu a partire dal Sé. La relazione resta subordinata agli elementi che mette in relazione, rimane una modalità di espressione del loro essere, non la modalità stessa del loro essere-in-relazione.

Animali (e) cyborg

Come ha scritto Paul B. Preciado in “Le féminisme n’est pas un humanisme” (2014), “la macchina e l’animale (i migranti, i corpo, la farmacopornografia, i bambini della pecora Dolly, i cervelli elettronumerici) […] sono omonimi quantici” di un nuovo animalismo. Nonostante pensando ai cyborg – a loro volta simili a salamandre che possono ri-generarsi ma non riprodursi perché si sottraggono al ritorno dell’identico[17] – tendiamo a considerare soprattutto la relazione tra macchine e animali umani, la prima teoria del cyborg, funzionale al potenziamento del maschio umano, è sperimentata in effetti sull’animale non umano.

HAM, il primo scimpanzé-astronauta.
HAM, il primo scimpanzé-astronauta.

In “Cyborgs and Space” (1960), Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline riportano i primi esperimenti eseguiti presso il NY Rockland State Hospital su un topo innestato con una pompa osmotica per il rilascio graduale di sostanze chimiche, modello per il futuro uomo [man] aumentato finalmente “libero di esplorare, creare, pensare e sentire”. Il sogno della razionalità tecnologica dell’uomo occidentale, incarnato solo un anno dopo HAM, il primo scimpanzé mandato nello spazio.

Loro discendente è l’oncotopo, un topo geneticamente modificato brevettato dalla DuPont e usato soprattutto per gli studi sul cancro al seno. Con l’oncotopo, venduto in cataloghi e classificato in database, l’ordine tassonomico si riconfigura come brand e segue le regole del copyright. La sua realtà semiotica, istituzionale e biochimica, è una realtà di “secondo ordine”[18]: la sua esistenza è un’invenzione che dev’essere costantemente sottoposta a manutenzione, essendo sempre possibile una mutazione che ne vanifica l’utilità.

The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).
The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).

Attore naturalculturale nel dramma della tecnoscienza, anche l’oncotopo è un ibrido in-appropriato che minaccia la purezza delle categorie. Come noi ma non come noi, l’oncotopo tuttavia è con noi, perché con noi condivide dei confini fragilissimi stabiliti da una rete complessa di tecnologie e relazioni d’uso dove nulla, nemmeno i diritti, esiste in astratto. Entrare in una relazione di diritto con questi animali vuol dire assumersi la responsabilità dei confini condivisi che dipendono dalle differenti capacità e forze in atto. Responsabilità [response-ability] significa essere attenti alla relazione che si crea nell’intra-azione[19] tra attori naturalculturali capaci di divenire e rispondersi reciprocamente.

Una storia di co-evoluzione

Saper vedere la nostra co-costituzione con gli altri non umani significa anche riconoscere la nostra sostanziale parzialità: non cercare una presunta identità originaria, ma al contrario riconoscere la co-evoluzione interspecie. Haraway usa la definizione di specie compagne [companion species], che distingue da quella di animali da compagnia [companion animal], per sottolineare questo divenire insieme. In When Species Meet, Haraway parla di numerosi “altri significativi” [significant others], gatti selvatici, polli d’allevamento, batteri, cavalli e creature marine. Ma soprattutto del suo cane Cayenne, con cui pratica la disciplina dell’agility, che le offre una conoscenza situata di come le relazioni interspecie portino alla luce ciò che non si conosce ancora ma che per questo può essere sempre possibile.

Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).
Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).

L’addomesticamento, generalmente letto come strumento dell’evoluzione dell’uomo secondo una dialettica servo/padrone, in realtà è una storia di azioni distribuite, un processo emergente di coabitazione. Non c’è stata da un lato l’evoluzione biologica degli animali e dall’altro quella culturale degli umani, ma le cose si sono mescolate molto più di quanto non dica la biologia: basti considerare per esempio i cambiamenti del sistema immunitario di chi vive quotidianamente a contatto con animali come i gatti, come leggiamo in uno studio recente.

Fare il cane domestico, sostiene Haraway, è un lavoro che richiede autocontrollo e una serie di capacità che si acquisiscono nella relazione specifica, dove è in gioco non solo l’economia affettiva, ma anche quella “lavorativa”. Se l’idea che gli uomini realizzano i loro intenti attraverso degli strumenti, siano essi gli animali o le macchine, è sintomo di un narcisismo tecnofilico di matrice umanista, l’idea che i cani sono portatori di amore incondizionato verso gli uomini esprime un narcisismo analogo, semplicemente capovolto di segno. I cani addomesticati infatti, condividono con noi anche una storia fatta di crimini e terrore, e sono stati usati, per esempio, come potenti armi da guerra. Si comprende allora la polemica harawaiana[20] contro chi, come Deleuze e Guattari[21], difende la natura dell’animale selvatico (nella fattispecie la muta di lupi) e considera snaturato l’animale addomesticato, che tra le altre cose ripropone la dicotomia naturale/artificiale presente anche nella distinzione sesso/genere.

Perché gli altri significativi siano anche significanti, però, la distinzione fra natura e cultura e quella fra linguaggio umano e linguaggio animale non funzionano, perché in ultima istanza non escono dalla trappola dell’uno se non attraverso la sua duplicazione. Piuttosto che passare dall’identico al suo doppio, Haraway propone, da una parte, di spostarsi sui molti, su ciò che sfuggendo alla riproduzione mimetica dell’uno che trova l’altro per ritrovare se stesso, trasformi le relazioni di corrispondenza (rappresentazionali) in relazioni di co-implicazione (performative), per fare la differenza senza identificarla, e contemporaneamente differenziare la rappresentazione. Dall’altra, di assumersi la responsabilità di at-testare[22] le nostre configurazioni con gli altri non umani a partire dai confini condivisi. Dal momento, però, che il linguaggio è solo una delle possibili forme di articolazione di questo mondo che in molti abitiamo, è ora di mettere da parte il sogno di un linguaggio comune, e iniziare a sognare quello di una “potente eteroglossia infedele”[23].

 

[1] D. Haraway, Primate Visions. Gender, Race and Nature in the World of Modern Science, Routledge, New York, 1989, pp. 102-3.

[2] Id., “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, «Environmental Humanities», vol. 6, 2015, p. 161.

[3] Id., Primate Visions, cit.

[4] Id., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™: femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, Milano, 2000.

[5] Id., Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Sansoni, Firenze, 2003; Id., When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 2008.

[6] Id., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1999².

[7] Definizione che evoca il nome di Cthulhu, creatura fantascientifica partorita dalla penna di H. P. Lovecraft, da cui Haraway si discosta però esplicitamente: Id., “Anthropocene, Capitalocene…”, cit., p. 160.

[8] Ivi.

[9] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 117.

[10] Id., “The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others”, 1992.

[11] Id., When Species Meet, cit., p. 17.

[12] Id., Primate Visions, cit., p. 357.

[13] Ibidem, p. 137.

[14] Non è poi così strano che anche la genealogia “mostruosa” del cyborg si leghi allo all’esibizione di una prodigiosità spaventosa e visibile, il freak.

[15] Non solo Akeley è noto anche come inventore di una speciale macchina fotografica con otturatore rotante per le fotografie naturalistiche in movimento, la Akeley Motion Camera, ma significativamente alla spedizione del 1821 prese parte anche Eastman, della Eastman-Kodak.

[16] D. Haraway, Primate Visions, cit., pp. 133 ss.

[17] Id., Manifesto Cyborg, cit., p. 83.

[18] Id. Modest Witness, cit., p. 99.

[19] K. Barad, “Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter”, 2003.

[20] D. Haraway, When Species Meet, cit., pp. 27 ss. Haraway non risparmia la sua critica nemmeno a Derrida (L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano, 2006), che nudo di fronte allo sguardo del proprio gatto, non si assume fino in fondo il rischio dell’intersezione visiva, incapace di acccogliere il suo invito al divenire animale fuori dalle regole dell’Io: Ibidem, pp. 19 ss.

[21] G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e Schizofrenia, sez. II, Castelvecchi, Roma, 1996, pp. 150 ss.

[22] A questa idea si collega la definizione harawaiana di “testimone modesta”, in Testimone Modesta, cit.

[23] Id., Manifesto cyborg, cit., p. 84.

The Sound of Culture. Razza e tecnologia attraverso il banco mixer

In ingegneria informatica l’espressione master/slave indica il protocollo di comunicazione in cui una macchina o un processo principale controlla una o piu’ macchine o processi subordinati. La medesima terminologia può essere applicata anche a sistemi tecnologici pre-informatici, quali un sistema video centralizzato, una rete di orologi o un impianto idraulico, purché basati sul medesimo rapporto di subordinazione. Nonostante sia recentemente stata messa in discussione negli Stati Uniti in quanto “eticamente inaccettabile”,i la definizione sopravvive ancora oggi nel linguaggio colloquiale della programmazione. Stranamente non vi e’ alcuna traccia di un uso del termine in questa accezione prima della fine della seconda guerra mondiale. Non e’ dunque una sgradevole eredita’ linguistica di un altro tempo a trovare spazio nel lessico tecnologico contemporaneo. C’e’ forse una ragione piu’ profonda che puo’ spiegare questa curiosa incongruenza?

Copertina del libro con un opera di David Huffman
La copertina del libro con un’opera di David Huffman

Edito quest’anno dalla Wesleyan University Press, The Sound of Culture. Diaspora and Black Technopoetics indaga in profondita’ la relazione che tiene insieme corpo nero, schiavitu’ ed il nostro modo di concepire la tecnologia. Passando in rassegna una notevole quantita’ di fonti eterogenee che vanno dalla letteratura proto-sci-fi vittoriana al jazz, dai blackface minstrel show al cyberpunk, Louis Chude-Sokei disegna un originale percorso critico che mette al centro il modo in cui la modernita’ occidentale ha dato senso al concetto di macchina, ritrovandone le tracce nell’interdipendenza tra i due processi fondanti dell’era moderna: industrializzazione e schiavitu’. Se il passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale puo’ essere assunto come il primo passo verso la progressiva tecnologizzazione della modernita’, anche il nostro rapporto con la tecnologia dovra’ necessariamente essere messo a confronto con il retaggio culturale della schiavitu’. E’ questa infatti l’istituzione che piu’ di ogni altra ha sostenuto la rivoluzione industriale, garantendo ad essa quelle fondamenta socio-economiche senza le quali la stessa risulterebbe semplicemente impensabile. Secondo l’autore, la costruzione del concetto di razza e la concezione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia vanno intese come due storie che corrono parallele sotto la superficie della modernita’, talvolta producendo veri e propri punti di contatto che emergono in forma di letteratura, musica o cinema, o affiorano in determinati avvenimenti storici. Razza e tecnologia sarebbero dunque due concetti speculari; l’uno si riflette nell’altro attraverso lo specchio deformante dell’ansia.

Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935
Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935

Numerosi case studies sostengono la riflessione e donano concretezza ad un impianto critico complesso ed affascinante. Il libro si apre con la storia di Joice Heth, anziana schiava afro-americana messa in mostra tra il 1835 ed il 1836 da P. T. Barnum, impresario e fondatore dell’omonimo circo. Inizialmente reclamizzata con discreto successo come la ultracentenaria nutrice di George Washington, la sua fama crebbe ulteriormente quando il pubblico fu indotto a credere che l’ormai semiparalizzata donna non fosse un essere umano bensi’ un sofisticato trucco tecnologico. Se la storia di Joice Heth puo’ essere gia’ nota a chi ha familiarita’ con l’orrore degli zoo e dei circhi umani,ii l’autore ne arricchisce l’analisi con una prospettiva inedita, intrecciandola con la vicenda del “Turco”, presunto automata giocatore di scacchi costruito nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per intrattenere Maria Teresa d’Austria. L’esibizione in contemporanea delle due “meraviglie”, avvenuta fortuitamente nel dicembre del 1835 a Boston, fornisce l’input per intrecciare criticamente la storia di un essere umano ritenuto erroneamente una macchina con quella di una macchina erroneamente elevata al rango di creatura pensante, rendendo cosi’ tangibile il legame tra tecnologia e schiavitu’ che sottende tutta la riflessione. L’implicita razializzazione della tecnologia e’ pertanto il leitmotiv che attraversa l’intero libro. D’altronde lo stesso termine “robot”, coniato nel 1923 dal drammaturgo Karel Capek, e’ un adattamento dal ceco “robota” il cui significato oscilla tra “corvèe”, “servitu’” e “schiavo”.

Se questo e’ l’assunto di partenza, grazie all’abbondanza di riferimenti il libro offre molteplici percorsi di lettura potenzialmente indipendenti. Ad esempio, nel sondare i limiti dell’umano in quanto messi in discussione dall’incerto status attribuito allo schiavo nero (uomo, animale o pura forza lavoro – e dunque macchina?) la riflessione entra necessariamente in dialogo con il postumanesimo. Espanso nella sua dimensione razziale e riletto attraverso la lente fornite dal pensiero caraibico della creolite’ e del metissage, il cyborg di Donna Haraway trova cosi’ un antecedente ideale nel concetto di synthesis-genesis di Edouard Glissant e soprattutto nel pensiero di Sylvia Winter. La riflessione su un “pre-postumanesimo” di matrice caraibica sembra inoltre assumere una valenza quasi programmatica nell’intento di riportare al centro del dibattito critico lo specifico contributo proveniente da una regione del mondo postcoloniale che ha fatto della sintesi delle opposizioni un modus vivendi prima ancora che un modus pensandi, ed ha visto in tempi recenti la specificita’ della propria condizione esistenziale divenire un paradigma utilizzato a piacimento nell’accademia occidentale.

E’ lecito a questo punto domandarsi quale sia il sound a cui il titolo si riferisce. La domanda e’ ancor piu’ legittima per quanti conoscono Chude-Sokei come l’autore, a partire dagli anni novanta, di un pugno di seminali articoli aventi come oggetto la cultura sound system ed il dub giamaicano.iii Questi articoli, che come egli stesso ha ricordato suscitarono all’epoca una accoglienza decisamente fredda nel mondo accademico,iv costituiscono invece oggi un riferimento fondamentale per quanti si accostano all’analisi di questi fenomeni culturali. Ma per quanto i riferimenti musicali non manchino, questo non e’ un libro sulla musica ne’ tantomeno sul suono. Almeno non nella sua dimensione fenomenologica. Come lo stesso autore si preoccupa di spiegare nell’introduzione, il sound del titolo va piuttosto inteso nel peculiare senso attribuito al termine in Giamaica, significato che egli stesso aveva gia’ evidenziato in uno scritto del 1997:

“In Jamaican English a “sound” means many things simultaneously. In addition to the basic definition of the word it means also a song, a style of music or a sound system. It is in the final definition that all the different meanings find dynamic peace (…) Sound in Jamaica means process, community, strategy and product. It functions as an aesthetic space (…) an imagined community (…) which operates not by the technologies of literacy but through the cultural economy of sound and its technological apparatus…”v

Copertina dell'album di Scientist, Giamaica 1982
Copertina dell’album di Scientist, Giamaica 1982

Va dunque inteso come una ecologia, l’ambito di produzione di una sfera pubblica all’interno della quale la sintesi creativa di corpi neri e tecnologia diviene possibile in modi inediti ed imprevedibili. Ecco che il dub giamaicano torna qui prepotentemente quale locus sonoro privilegiato dove questo post-umanesimo caraibico si concretizza. Il risultato e’ un’audio-fantascienza tutta analogica che produce una temporalita’ out of sync, una sorta di futuro antico ben rappresentato nelle copertine dei dischi, e dove il confine tra magia nera e scienza (anch’essa nera) del suono si fa fluido e permeabile.

Appare chiaro come un silenzioso dialogo con l’Afrofuturismo sia un’altro dei percorsi di lettura che attraversano il libro nella sua interezza. Pur condividendone buona parte degli interessi di ricerca nei tipici temi della musica nera, della fantascienza e della tecnologia, Chude-Sokei ci tiene a rimarcare la sua indipendenza rispetto ad ogni etichetta. All’Afrofuturismo sembra rimproverare di essersi cristallizzato in una sorta di canone decisamente localizzato su un asse nord-Atlantico, supportando in tal modo una concezione eccessivamente stabile ed omogeneizzante della identita’ nerasostenuta dall’analisi di una produzione culturale prettamente anglo-americana. L’insistenza sul dub giamaicano quale riferimento privilegiato tra tutti i territori sonori possibili va cosi’ a replicare la funzione che l’accento sul pensiero della creolite svolge sul piano dei riferimenti critici: il tentativo di spostare il baricentro dell’analisi da una prospettiva occidento-centrica per includere (alcune del-) le diverse e spesso irriducibili sfumature della blackness. Dopotutto, mano a mano che l’industria musicale ne coopta le innovazioni per rivenderle sul mercato globale, il cuore pulsante della sperimentazione musicale e tecnologica di matrice afro si sposta sempre piu’ ai margini dell’occidente. Ed i suoni del global ghettotech, che Steve Goodman ha provato a mappare con la potente immagine di un planet of drums, ci rimandano ad una cartografia in cui Johannesburg, Dakar e Kingston hanno la stessa importanza di Londra o Detroit.vi

King Tubby, the dub originator
King Tubby, the dub originator

Ma a discapito della sua presenza esplicita in qualche decina di pagine, l’influenza del dub appare rilevante nella struttura stessa del lavoro. Se consideriamo dub come verbo anziche’ nome, processo piuttosto che oggetto, l’intera riflessione di Chude-Sokei diviene una riuscita forma di dubbing critico. Alternando costantemente concetti e riferimenti durante tutto il corso dell’opera, l’autore assume il ruolo di un concept engineer, che riesce a fare emergere nuovi spazi di discussione dalla giustapposizione di storie e prospettive che, seppur distanti tra loro, concorrono a vario titolo alla costruzione di quella formazione culturale che siamo soliti definire modernita’. Herman Melville e William Gibson, Gilles Deleuze e Aime’ Cvodoo haitiano e cibernetica sono solo alcuni degli elementi che vanno aggiunti a quelli gia’ citati per ricomporre almeno parzialmente il quadro di un’opera complessa e stimolante. Sebbene possa risultare difficile per il lettore condividere la medesima familiarita’ che l’autore dimostra di avere nei confronti di questa pluralita’ di storie ed approcci, grazie alla sapiente alternanza degli stessi e ad un impianto critico ben articolato la lettura riesce sempre a trovare sempre una via attraverso uno dei molteplici percorsi possibili. In altre parole, il mix suona solido ed invita la mente alla danza. Per chi invece era in attesa di un libro che raccogliesse piu’ direttamente le fila del pluridecennale lavoro dell’autore sulla musica giamaicana e le sue derivazioni, niente paura; un volume che raccoglie tutti gli articoli gia’ editi ed alcuni nuovi scritti sull’argomento e’ in via di pubblicazione.


Note

[i]Nel 2003, a seguito ad un complaint formale da parte di un lavoratore anonimo, la Contea di Los Angeles ha inoltrato richiesta ufficiale ai propri costruttori, assemblatori e fornitori di materiale tecnologico per la sostituzione della terminologia master/slave all’interno dei protocolli. L’anno successivo il termine e’ stato eletto “most politically incorrect term” dal Global Language Monitor. Attualmente il termine e’ stato sostituito daprimary/replica ma sopravvive nel linguaggio colloquiale della programmazione.

[ii] Sugli zoo umani si veda: Lamaire, S. et al. 2002. Zoo umani, Dalla Venere ottentotta ai reality show. Verona: Ombre Corte.

[iii] Chude-Sokei, L. 1994. “Post-Nationalist Geographies: Rasta, Reggae and Reiventing Africa” in African Arts 27 (4); Chude-Sokei, L. 1997a. “Dr. Satan’s Echo Chamber: Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Bob Marley Lecture, Reggae Studies Unit, Institute of Caribbean Studies, University of the West Indies, Mona; Chude-Sokei, L. 1997b. “The Sound of Culture. Dread Discourse and the Jamaican Sound Systems.” In Language, Rhythm and Sound: Black Popular Cultures in the Twenty-First Century, edited by Joseph K. Adjaye and Adrianne R. Andrews, 185-202. Pittsburgh: University of Pittsburg Press.

[iv] “When I first started writing about sound systems nobody knew what the hell I was on about. Even in Jamaica I was booed and attacked because it wasn’t a “serious” topic for a scholar…” (Louis Chide-Sokei facebook profile, consultato il 31 ottobre 2016)

[v] Chude-Sokei, L. 1997a. Op. Cit.

[vi] Goodman, S. 2012. Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear (Technologies of Lived Abstraction). Cambridge-London: The MIT Press. pp. 172-175.