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Vite diseguali: forza lavoro animale e capitale di specie (Social Reproduction Feminism parte III)

L’ingestione simbolica e materiale dei corpi animali, che con un termine altisonante ma efficace Derrida (1989, trad. it. 2011) ha chiamato carnofallogocentrismo, è alla base dell’istituzione del Soggetto Umano che ha separato e subordinato l’Animale dalla fondazione dell’Umano appropriandosene ed escludendolo al medesimo tempo. L’ideologia della specie ha così definito e dominato i corpi animali e animalizzati. Il pensiero femminista, radicando il carnofallogocentrismo in una visione contestuale e intersezionale, ha mostrato in particolare come la confluenza di animalizzazione e femminilizzazione sia servita a rafforzare la posizione subalterna delle femminei animali sia sul piano dei segni, dagli stereotipi linguistici ai corpi-oggetto dell’immaginario, che su quello delle azioni, per mezzo di abusi e violenze sessuali e dello sfruttamento del loro lavoro produttivo e riproduttivo.

Dalla narrazione dell’Uomo cacciatore come motore dell’evoluzione (ampiamente decostruita dalla primatologia femminista), alle retoriche del lavoratore operoso e del soldato vittorioso, mangiare carne è proprio del soggetto muscolare, sano, vigoroso, attivo, dunque maschile, non mangiare carne qualifica il soggetto come debole, vegetale, passivo, dunque femminile. Il rifiuto della carne come rifiuto dell’ordine patriarcale era già condiviso da molte suffragette, una scelta rispetto alla quale, per esempio, andrebbe contestualizzata la violenza della nutrizione forzata riservata a quante sceglievano di fare lo sciopero della fame in carcere al fine di delegittimarne la radicalità politica, ma è stata la riflessione ecofemminista sulle proteine femminilizzate (Adams, The Sexual Politics of Meat, 1990), cioè quelle ottenute dallo sfruttamento delle capacità riproduttive degli animali femmina, ad evidenziare come il veganesimo sia per il femminismo un atto politico e non semplicemente una scelta alimentare. Allo stesso tempo, non bisogna ignorare che sono state spesso le donne con il loro lavoro di cura a veicolare la norma carnofallogocentrica nel contesto di una rigida divisione dei ruoli di genere, del lavoro e degli spazi, preservando le “tradizioni familiari” in cucina, o precludendosi la scelta vegetariana per venire incontro alle esigenze del capofamiglia, o ancora assicurando a quest’ultimo fra tutti i membri della casa un’alimentazione a base di carne in situazioni di povertà o scarsità alimentare.

Se, come riconosciuto dal femminismo socialista, la lotta di classe non può non essere anche di genere, una prospettiva femminista intersezionale di liberazione dai rapporti di forza del capitalismo non può non prendere in considerazione anche il capitale della specie accumulato sfruttando il lavoro produttivo-riproduttivo dei corpi “da reddito”. Nel complesso animal-industriale il corpo degli animali, totalmente alienati da se stessi, dal loro socius e dall’ambiente, prodotti (per altri) oltre che mezzi del loro asservimento, consente una disponibilità di capitale economico totalizzante che non solo “assicura chance di vita ineguali” (Bujok), ma prima ancora è reso possibile dal presupposto – specista e sessista – delle vite disuguali di uomini e animali.

Nell’attuale epoca del biotutto, come la definiscono Herzig e Subramaniam (Labor in the age of “bioeverything”, 2017), il lavoro non è più definibile nei termini dell’umanesimo marxiano, ma deve prendere in considerazione il diverso posizionamento dei corpi al lavoro in assemblaggi che sono umani, animali e macchinici. Rivedendo la posizione marxiana in chiave antispecista, Jason Hribal è stato tra i primi a riconoscere a pieno titolo la condizione di lavoratori agli animali non umani (e dunque anche a riconoscerne l’agentività e le capacità di resistenza), a ricondurre l’origine del plusvalore allo sfruttamento del lavoro riproduttivo dei mammiferi femmina, e a rilevare le intersezioni dello sfruttamento nel “mercato della carne”ii. Ma una confluenza fra analisi bioeconomica e biopolitica del capitale di specie è ampiamente presente anche nel pensiero di Donna Haraway, che proprio dal femminismo socialista prende avvio, dalle riflessioni sull’Oncotopo™ di Testimone modesta (1997, trad. it. 2000), il topo-femmina geneticamente modificato brevettato dalla DuPont per sviluppare “con affidabilità” il cancro alla mammella, fino alle recenti considerazioni (Staying with the Trouble, 2016) sui nodi che legano i nostri corpi ai corpi delle cavalle gravide, costrette a stare immobili e attaccate a un catetere per la raccolta dell’urina da cui si ricava il Premarin (PREgnant MARes’ urINe), un estrogeno coniugato usato soprattutto per le terapie ormonali in menopausa e nelle transizioni m-t-f. Stupisce allora che, nonostante le numerose evidenze sulla “connessione femminile”, come la definisce Karen Davis, rilevate dall’ecofemminismo, dal tecnofemminismo e dal femminismo nero, il Social Reproduction Feminism (SRF) sia rimasto sostanzialmente impermeabile all’antispecismo.

Oggi, negli allevamenti intensivi, le mucche lavorano per circa 350 giorni l’anno, sono sottoposte a mungitura in un sistema di rotazione a catena strettamente cadenzato (e ormai anche robotizzato) e, visto l’estremo sfruttamento fisico, sostituite non appena le loro performance scendono sotto il livello considerato “ottimale” (una mucca da latte in allevamento sopravvive in media 4 anni, dopodiché, stremata, viene macellata, mentre la vita delle mucche in natura è di circa 20 anni). Inseminate artificialmente e sincronizzate per ovulare, le madri sono separate dai vitelli entro 48 ore dal parto, in modo che la produzione di latte sia interamente riservata al mercato: negli ultimi 40 anni la produzione del latte vaccino è più che raddoppiata, e mediamente una mucca produce tra i 20 e i 30 lt. al giorno – la patologia più comune per mucche da latte è la mastite – contro i 4 lt. di cui avrebbe bisogno un vitello, potendo essere munta fino al settimo mese di gravidanza.

Il modello del “bordello riproduttivo”, in sostanza l’allevamento della riproduzione, che già Gena Corea (1985) rintracciava nello sfruttamento animale, negli attuali circuiti della tecnobioeconomia che colonizzano interamente la potenza generativa zoe “ha il volto postumano delle femmine della specie”, come scrive Angela Balzano. Pratiche come l’inseminazione artificiale, il trasferimento di embrioni, la clonazione, la maternità surrogataiii, spesso subordinano, più o meno consapevolmente, alcuni corpi femminili usati come fabbriche di ovuli o incubatrici viventi, mentre ne individuano altri come destinatari privilegiati di una retorica tutta commerciale della scelta personale, oscurando così le problematiche politiche che generano e muovono questi circuiti.

Il progetto secolare di colonizzazione eugenetica del mondo animale culmina nella produzione di animali-femmina brevettati che sfruttano una precisa retorica del materno, come le scrofe SuperMom™ Maternal Line commercializzate dalla Newsham Choice Genetics, progettate per produrre più prole ma anche per avere un latte più nutriente e crescere figli più sani e vigorosi (per il mattatoio) come è proprio di una brava madre. Considerate nella realtà come “macchine da salsicce”, anche le scrofe come le mucche sono inseminate artificialmente con l’ausilio del rape rack (il termine in disuso, ma la tecnologia è regolarmente in uso), un sistema di contenimento che evita la ribellione dell’animale alla violenza della pratica, in prossimità del parto tenute all’interno di una stretta gabbia di acciaio definita iron maiden, e infine legate immobili su un fianco alle sbarre delle gabbie in modo da avere le mammelle sempre esposte per la lattazione.

Una prospettiva ecofemminista, ha scritto Greta Gaard (Reproductive technology, or reproductive justice?, 2010) “rende visibile le cattive condizioni di salute e la sofferenza inflitta alle femmine di tutte le specie” da quelle da reddito, sfruttate per le loro capacità riproduttive “a quelle che lavorano in condizioni insicure e illegali per macellare altri corpi animali, a quelle madri che in gravidanza o allattamento bevono l’acqua o respirano l’aria inquinata dagli scarichi degli allevamenti intensivi, trasmettendo queste sostanze inquinanti ai figli, e infine a quelle che consumano i prodotti della riproduzione femminile nutrendosi degli antibiotici e degli ormoni della crescita oltre che della sofferenza di questi corpi, del loro latte e delle loro uova”.

Guardando, per esempio, all’industria della carne nella prospettiva dei lavoratori umani, ci si accorge di come siano stati soprattutto etnia e genere a definire sia la divisione delle mansioni sia le relazioni di potere – a loro volta inscindibili dai significati sociali e culturali del carnivorismo – in un settore come questo in cui le dinamiche di animalizzazione (emarginazione, discriminazione, degradazione, sfruttamento, sottrazione del tempo della vita) coinvolgono tutti i lavoratori, alienati dal proprio corpo ma anche dal corpo animale. Questi operai, definiti dai media “carne da macello” e che di sé dicono di essere trattati “come animali”, sono in maggioranza immigrati, molti dei quali illegali, sottoposti a mansioni ripetitive e turni massacranti (con un turnover annuo anche del 100%), e ad altissimo rischio di infortuni quasi mai denunciati per la mancanza di tutele, soprattutto amputazioni o malattie, da infezioni a lesioni muscolo-scheletriche peraltro molto simili a quelle contratte dagli animali, cui si aggiungono le violenze sessuali subite dalle donne più che in altri ambiti lavorativi (mentre alla diminuzione delle ispezioni governative per garantirne la sicurezza fa riscontro un aumento dei raid per espellere gli illegali).

Accanto alle gerarchie su base etnicaiv, le gerarchie di genere incarnate nelle architetture e nei dispositivi dell’industria della carne hanno riservato agli operai uomini le mansioni centrali legate alla lavorazione della carne fresca, l’uccisione degli animali e il controllo dei macchinari, e alle donne, per le quali lavorare in questo settore è sempre stato socialmente più sconveniente, il settore della carne lavorata (affettati e insaccati); fra le operai, poi, mentre le bianche erano in genere impiegate nelle mansioni di pulizia, alle donne afroamericane erano riservati i lavori meno appetibili e meno adatti a persone “sensibili”, svolti in ambienti caldi, umidi e maleodoranti (Horowitz, 2003).

Nella fabbrica globale dei corpi, la formula classica marxiana D-M-D’ potrebbe essere sostituita da quella B-M-B’, scrive Stefan Helmreich (Species of biocapital, 2008), dove la prima B indicherebbe il biomateriale, e B’ il biocapitale che si ottiene dalla trasformazione di B in merce (M); va evidenziato però, con Helmreich, che ciò non significa che B’ è contenuto necessariamente in B, come se i corpi fossero “naturalmente” contenitori di capitale, come se la produttività fosse l’essenza della specie, e gli organismi delle fabbriche naturali, ma che solo precise relazioni e condizioni socio-economiche rendono possibile la trasformazione di B in B’.

E se, per evitare di essenzializzare le “specie di capitale” da una parte, ma anche ciò rispetto cui queste diverse “specie” sono misurate, cioè il capitale stesso, si chiede Helmreich, “ci domandassimo non cosa succede alla biologia quando è capitalizzata, ma piuttosto se il capitale sia necessariamente il segno sotto il quale ogni incontro contemporaneo dell’economico e del biologico deve transitare?”. Problematizzando l’assunto specista implicito nella distinzione delle specie di capitale, dunque, potremmo destabilizzare l’idea che il capitale sia l’unica moneta di scambio, e lo scambio del capitale l’unica misura del valore, nei circuiti della bioeconomia?

In altri termini, nonostante l’attuale mobilitazione totale della forza lavoro – allo scopo in effetti di una sua totale immobilizzazione – in modi in cui dinamiche tradizionali e mezzi nuovi si combinano per colonizzare la produttività e riproduttività dei corpi animali tutti, la forza lavoro non può essere mai interamente attualizzata nel lavoro. L’abuso della potenza di un corpo alienato e mercificato, insomma, “non elimina la potenza di non fare parte della forza lavoro” (Ciccarelli, Forza lavoro, 2018) v. Comprendere perché, per chi e secondo quali relazioni sociali e rapporti di potere un (e quale) corpo diventa “produttivo” è fondamentale per una politica che rimetta i corpi in movimento, piuttosto che soltanto al lavoro. L’antispecismo, d’altronde, lungi dall’essere una nuova “definizione” da sostituire alle precedenti, andrebbe colto piuttosto come il movimento dei corpi im-propri, cioè smarcati da ogni forma di proprietà (Filippi, Il marchio della bestia e il nome dell’uomo), della specie come del capitale; il movimento verso la “dissipazione dell’oikonomia” e per la celebrazione di un’inoperosità im-potente, quella dei corpi in relazione che resistono in comune nella vita che, im-personalmente, li attraversa.

i Termine che uso nella consapevolezza che la natura dei corpi è sempre prodotta, che ovviamente non significa ignorarne la dimensione situata e incarnata, ma al contrario essere capaci di non considerarla come qualcosa di statico e pre-esistente ai modi possibili del suo accadere materialsemiotico.

ii Hribal cita per esempio il caso delle giovanissime “operaie del sesso” in Bangladesh che assumono steroidi normalmente somministrati ai bovini per acquistare peso e avere un corpo più “appetibile” e “in carne” per i clienti.

iii Tema, quest’ultimo, estremamente complesso e non esauribile in poche righe, rispetto al quale questa riflessione intende principalmente problematizzare la retorica della “libera scelta”, nella consapevolezza che il personale non è mai l’individuale, e che anche chi ricorre consapevolmente all’uso di queste pratiche non è mai svincolato dai circuiti e dagli apparati medici, economici, politici e sociali entro cui queste hanno luogo.

iv Gli ispanici sono subentrati agli est-europei ed agli afroamericani a partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con una dequalificazione e precarizzazione del lavoro, la progressiva perdita del potere sindacale e la drastica riduzione dei salari.

v Purtroppo anche Ciccarelli, che pure sostiene che condizione migrante e femminile sono decisive per comprendere la forza lavoro contemporanea, esclude nella sua analisi qualsiasi considerazione dei corpi non umani al lavoro.

(immagine in evidenza: Miru Kim ‘The Pig that Therefore I Am’ (2010))

‘Inefficienza Strategica’ di Sarah Ahmed (Social Reproduction Theory)

Sarah Ahmed è una studiosa britannica-australiana che si occupa di teoria femminista e queer, di postcoloniale e critica della razza. Tra le sue numerose monografie segnaliamo Strange Encounters: Embodied Others in Post-coloniality (Routledge, 2000), Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others (Duke University Press, 2006); On Being Included: Racism and Diversity in Institutional Life (Duke University Press, 2012), e Living a Feminist Life (Duke University Press, 2017). Nel 2016 si è dimessa dalla propria cattedra in Cultural Studies and Race del Golsmiths’ College, University of London, per denunciare il fallimento del proprio ateneo di occuparsi delle molestie sessuali a danno delle proprie studentesse motivando la sua decisione sul suo blog feminist killjoy (la ‘guastafeste femminista’).

Dal blog di Sarah Ahmed pubblichiamo come parte del nostro mini-speciale sul femminismo e la ‘social reproduction theory’, una selezione di un suo post intitolato ‘inefficienza strategica’. Nell’amministrazione sempre più procedurale della vita, universitaria ma non solo, regolata da mille norme e commissioni, Ahmed descrive il problema della cosiddetta ‘inefficienza strategica’ attiva all’interno dell’apparente ‘caos istituzionale’ , cioè il modo in cui la riproduzione sociale delle gerarchie sessuali e razziali viene perseguita anche attraverso quei momenti in cui la macchina sembra non funzionare (come quando si smarriscono le carte che servono a far andare avanti una procedura di denuncia di molestie sessuali o un permesso di soggiorno o un reclamo formale), ma anche quando le attività di cura vengono scaricate su  o delegate a donne o minoranze perché il soggetto privilegiato semplicemente dice di non esserne capace. L’inefficienza è dunque collegata alla gerarchia, sollevando qualcuno da certe mansioni, quali il lavoro meno valorizzato dall’istituzione (per esempio nell’università il lavoro amministrativo o quello di cura delle studentesse e studenti). ‘La gerarchia viene tenuta in piedi dall’impatto differenziale dell’inefficienza’. Non sapere o non voler fare rappresenta uno dei modi attraverso cui il lavoro della riproduzione viene strategicamente affermato, come quando il cosiddetto governo della migrazione funziona proprio non funzionando o quando il soggetto privilegiato scarica sulle spalle delle altre e gli altri, il ‘lavoro domestico istituzionale’ e non. Come ci dicevano Maria Rosa Dalla Costa e Silvia Federici negli anni 70, il lavoro non costituisce solo il luogo dell’emancipazione per le donne, ma anche il luogo in cui da lei ci si aspetta una riproduzione del proprio ruolo sociale di ‘servizio’ e ‘cura’ domestica. Alle donne e alle minoranze, dunque, la riproduzione sociale chiede un doppio lavoro attraverso un doppio vincolo affettivo che Cristina Morini ha efficacemente chiamato ‘per amore o per forza’ mettendo in questo modo ‘la differenza di genere al lavoro’ nelle parole di Ahmed. L’inefficienza, Ahmed sottolinea, non ha dunque a che fare solo con il malfunzionamento delle cose, ma il modo stesso in cui funzionano, il loro ‘sistema operativo’. L’inefficienza delle procedure di reclamo o ricorso contro le ingiustizie, la lentezza come tattica, l’inerzia istituzionale diventano il modo per produrre un ‘senso di sfinimento’, stancare le persone in modo che rinuncino – un meccanismo che vediamo anche in Italia al lavoro nell’attuazione del cosiddetto reddito di cittadinanza o nella proposta di riforma della legge sul divorzio. L’inefficienza, il blip della macchina e il suo rumore, è quello che la macchina della riproduzione sociale richiede per funzionare, e richiede anch’essa una differente comprensione e forse diverse tattiche.

Buona lettura

Immagine in evidenza: Sarah Bridgland, Taken It All, 240 x 107 x 88mm, found staple box, paper, letterpress, paint, string, glue, 2007

Sarah Ahmed/Guastafeste femminista

Inefficienza Strategica (trad. di feminoska e Roberto Terracciano)

In questo post descrivo un problema che ho chiamato “inefficienza strategica”. Questo nome mi è venuto in mente mentre ascoltavo le esperienze di chi aveva presentato un reclamo formale. Mi hanno raccontato di ritardi eccessivi ed inspiegabili; di cartelle riservate, inviate alla persona sbagliata o a indirizzi incompleti, e di interi file di reclamo scomparsi misteriosamente; di riunioni i cui verbali erano imprecisi e sconclusionati, in contrasto con le politiche e le procedure. Da accademica che lavora nell’Università da oltre vent’anni, queste scene di caos istituzionale mi erano familiari.

Ma sentivo anche qualcos’altro oltre alla confusione, o in mezzo ad essa. Udivo il suono dei macchinari: quel rumore assordante mi suggeriva che l’inefficienza non ha a che fare soltanto col malfunzionamento delle cose, ma può essere anche il modo stesso in cui funzionano. In altre parole, ho iniziato a rendermi conto che l’inefficienza non riguarda solo gli errori di un sistema operativo; gli errori possono essere un sistema operativo. In passato, mi ero già interrogata sull’inefficienza come dispositivo, e come essa possa essere intesa come risultato. Un giorno, durante il mio primo anno come docente, mi trovavo nell’ufficio del dipartimento. Una persona dell’amministrazione cercava qualcuno che registrasse le valutazioni per un corso. Incuriosita, domandai perché il

Professor X non potesse registrare i voti da sé dal momento che era il coordinatore. 

Mi guardò in modo particolare, uno sguardo che diceva: “è una lunga storia, ma non posso raccontartela”. Successivamente ne parlai con un’altra accademica. Mi disse che tutti sapevano che non si poteva fare affidamento sul Professor X per la registrazione dei propri corsi – se gli fosse stato affidato il lavoro di correzione non l’avrebbe fatto. Negli anni successivi venni a sapere che raramente al Professor X veniva affidato un lavoro amministrativo: anche se era stato nominato direttore di questo e quello, in realtà non era lui a svolgere il lavoro (nonostante facesse parte delle sue responsabilità in quanto direttore). Se in amministrazione si preoccupavano di distribuire il lavoro del Professor X ad altri membri del personale (sempre più giovani, di solito donne) non era perché pensassero che il Professor X fosse speciale, saggio o importante. Lo facevano perché ci tenevano agli studenti e non volevano che ne pagassero le conseguenze.

Il Professor X, in ogni caso, beneficiava della sua inefficienza; gli venivano risparmiati certi tipi di incarichi, le mansioni amministrative che potremmo descrivere come il lavoro domestico istituzionale. Liberarsi di quel lavoro significa avere più tempo per il lavoro che conta, quello della ricerca. Questo è un esempio di inefficienza strategica: il modo in cui certe persone vengono sollevate dallo svolgimento di mansioni che ne rallenterebbero la progressione di carriera. Ovviamente altre persone ereditano quel lavoro […] Il modo in cui l’inefficienza viene premiata e il ruolo di questo riconoscimento nella riproduzione delle gerarchie deve esserci di insegnamento: si tratta di chi fa cosa, e di chi è risparmiato da determinati compiti. Nell’ambito della carriera accademica, l’efficienza può essere intesa come una forma di svantaggio: vieni rallentata da quello di cui devi occuparti […] I motori della riproduzione sociale sembrano funzionare perfettamente, anche quando il resto non funziona affatto. Possiamo trasformare questa osservazione in una domanda: esiste una connessione tra l’inefficienza nel modo in cui vengono gestite alcune faccende e l’efficienza con cui le istituzioni si riproducono?

Riconsideriamo una delle esperienze più comuni che mi sono state riferite: dopo aver presentato un reclamo formale, vieni spesso lasciata in attesa. Potrebbe essere l’attesa della risposta a una lettera, una relazione, un’indagine, un risultato, la decisione di qualcuno. Ricordiamoci quanto sia difficile presentare un reclamo: spesso si viene messi in guardia dal farli; chi procede spesso lo fa sulla scorta di un’urgenza: un reclamo spesso rappresenta l’ultima spiaggia. E la posta in gioco può rivelarsi il proprio futuro; la decisione in merito ad un ricorso può aprire o chiudere un portone.. Tutto può fermarsi quando un reclamo è in corso; puoi mettere una vita in attesa o avere la sensazione che la tua vita sia stata messa in attesa.

In quel lasso di tempo, la persona che avvia un reclamo formale è spesso molto impegnata. Aspetta, ma allo stesso tempo ricordasollecita, invia richieste; fa domande, domande su domande: che sta succedendo? Come si evolve la situazione? In questo senso si può considerare il reclamo come “differenza di genere al lavoro”: un ulteriore lavoro dovuto al fatto che non sei supportataPersino quando le politiche e gli impegni volti a rispettare differenze e pari opportunità sono state concordate, ci si può imbattere in quello che un’altra professionista ha definito “inerzia istituzionale”, la mancanza di una volontà istituzionale di cambiare […]Per inerzia, ci ritroviamo di fronte quel muro istituzionale. Il muro esprime concretamente ciò che significa rimanere bloccate. Il muro restituisce un’immagine di rigidità ma anche di lentezza: si può incontrare resistenza nella durezza di comprendonio.

(immagine: anonim*)

Molte persone con cui ho avuto modo di parlare finora, percepiscono la lentezza come una tattica, utilizzata intenzionalmente per scoraggiare e impedire il reclamo. Ho intervistato due studenti insieme in merito alla propria esperienza di reclamo collettivo. Una di loro l’ha descritta in questo modo: “Quello che cercano di fare è sfinirti. È un’ottima strategia, messa in atto tuttora”. Essere lenti è una “buona strategia” per rispondere a un reclamo in virtù di ciò che genera: un senso di sfinimento. Lo sfinimento appare quindi non soltanto la conseguenza del ricorso, ma una delle sue fasi: le persone vengono stancate in modo che rinuncino. L’inefficienza strategica può aiutarci a comprendere che la mancata creazione di un documento non riguarda semplicemente l’incapacità di fare qualcosa, ma è un tentativo di fare qualcosa.

Quando il tentativo fallisce, viene presentato un reclamo. L’inefficienza strategica riguarda non solo la mancata creazione di documenti, ma anche il loro smarrimento. Ad oggi mi sono stati segnalati diversi smarrimenti di documenti o di prove relative a documenti presentati. Una persona che ho intervistato era in grado di dimostrare come la propria Università avesse fatto sparire alcune prove (aveva salvato alcune schermate prima che i dati venissero rimossi manualmente da qualcuno). Ha descritto l’accaduto come sabotaggio. Ed è certamente il termine utilizzato da molte persone per descrivere la rimozione intenzionale o l’inquinamento di prove che avrebbero avvalorato un reclamo.

Le prove possono anche mancare per incompetenza amministrativa – quantomeno, lo smarrimento può essere spiegato con l’incompetenza. In questi casi non è necessario cancellare deliberatamente qualcosa, può sparire come conseguenza di come le cose tendono ad essere fatte. Penso a un caso in cui un documento contenente informazioni riguardo un’indagine di larga scala sulle molestie è stato perso insieme ad altri documenti. La spiegazione dell’organizzazione riguardo lo smarrimento dei documenti faceva riferimento a “ un problema nelle Risorse Umane”.

Si può utilizzare l’inefficienza per dimostrare che la prova non è stata rimossa. E quindi, l’inefficienza diventa il modo in cui viene rimossa l’evidenza della rimozione delle prove (5). Con l’uso del termine strategico intendo che a un’organizzazione fa comodo l’inefficienza, agita su base intenzionale o meno […] Voglio quindi dire che l’inefficienza è utile nella misura in cui supporta una gerarchia già esistente. Penso all’inefficienza e penso al chi è chi, un manuale sull’importanza, una biografia dei baroni.

Ho già collegato inefficienza e gerarchia, suggerendo che l’inefficienza può essere usata per sollevare qualcuno dallo svolgimento di certe mansioni, il lavoro meno valorizzato (il che non significa che sia un lavoro privo di valore o che non riconosciamo il valore di tale lavoro): il lavoro amministrativo. La gerarchia viene tenuta in piedi dall’impatto differenziale dell’inefficienza. Si potrebbe supporre che l’inefficienza sia fastidiosa ma indiscriminata, che riguardi tuttu e tutto. Ascoltare le storie di chi ha presentato un reclamo mi ha insegnato che l’inefficienza può essere discriminatoria.

Per gli/le studenti e il personale più precario a causa delle proprie condizioni finanziarie o abitative, più un reclamo dura a lungo, tanto più si rischia di perdere. Se si è già al limite, stando sul pezzo a stento, un ritardo può significare il disastro; una vita intera può disfarsi pezzo per pezzo; ci si può trovare per strada o alla mercé della volontà altrui […]

L’inefficienza può essere il risultato di procedure che cambiano costantemente in modo tale che nessuno abbia un assetto stabile. L’inefficienza (strategica o meno) può essere la conseguenza del sottofinanziamento e dell’istituzionalizzazione della precarietà del personale, che riguarda anche l’iniqua distribuzione della precarietà, il modo in cui alcuni vengono protetti dal dover stare sempre in movimento o al passo con la continua modifica delle procedure. Credo sia importante sottolineare questo punto perché esistono molti amministrativi che si impegnano in questo settore e danno il loro meglio per gli/le studenti e il personale che deve redigere ricorsi e lamentele. Renderlo un problema amministrativo, “quel problema alle Risorse Umane”, elimina la necessità di affrontare problemi ben più profondi e strutturali. L’incapacità di sostenere coloro che aiutano chi presenta reclami è un fallimento strutturale; un fallimento nel sostegno che viene riprodotto e distribuito.

Per alcuni un malfunzionamento amministrativo è un disastro che vale una vita. […] Documenti mancanti, persone mancanti: in ciò che viene cancellato può nascondersi una storia; la storia di un fallimento, di chi non ce l’ha fatta e di chi non ne ha voluto sapere. Inefficienza strategica: il modo in cui alcune sparizioni non vengono contate perché ritenute “perse nel sistema”.

In questo post ho esplorato e spiegato la connessione tra gli effetti discriminatori dell’inefficienza e l’efficienza con cui le organizzazioni riproducono sé stesse come se fossero dedicate a un certo tipo di persone, coloro che hanno le carte in regola e che sono nel posto giusto; quelli seri, abili, con le spalle coperte e ammanicati. Quello che segue è un paradosso. Un paradosso come insegnamento: Chi ha meno bisogno di presentare reclami è chi meglio può sopportarne le conseguenze. Chi ha più bisogno di farlo, è chi peggio può sopportarne le conseguenze. Rendere difficile la procedura di reclamo non è quindi un ambito dell’attività istituzionale separato dal resto del lavoro svolto. Rendere difficile un reclamo è il modo in cui le istituzioni fanno quel che fanno: il bip. Il bip di un messaggio di errore è il rumore: il rumore di una macchina.

Riferimenti Garland-Thomson, Rosemarie (2014).”The Story of My Work: How I became Disabled,” Disability Studies Quarterly, 34(2). np. ————————- (2011). “Misfits: A Feminist Materialist Disability Concept,” Hypatia: A Journal of Feminist Philosophy. 26(3): 591-609.

1 Non sto affatto dicendo che le questioni sollevate in questo post siano specifiche del settore dell’istruzione superiore. L’università è il mio campo più che il mio oggetto: lo studio si focalizza su questo ambito perché è qui che opero. Uso i dati che sono stata in grado di raccogliere a causa della mia collocazione. Il mio progetto sui reclami è più legato al discorso sul potere che sull’università in quanto tale. Potrebbero essere realizzati studi simili sui reclami in diversi settori. Rispetto agli argomenti affrontati in questo post, si potrebbe esplorare l’uso dello sfinimento come tecnica di gestione o la connessione tra inefficienza amministrativa e precarietà sociale in una serie di settori.