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Piattaforme politiche in Europa – L’utente invisibile

(Cover: Fabrice – Muiderpoort Station, Amsterdam 2010, detail. Photo: Giulia May)

 

In un presente distopico marcato da isolamento fisico, le piattaforme digitali stanno acquisendo un ruolo ancora piu’ centrale nelle nostra vita sociale e privata. Ci fanno essere vicini ai nostri cari, trovare informazioni (utili o meno), ripensare le connessioni lavorative, trovare corsi di yoga online, comprare cose e condividere contenuti emozionanti o ansiogeni – in breve ci fanno essere parte di un sistema interconnesso di comunita’ vicine e lontane.

Se le conseguenze sociali, culturali e psicologiche di questi nuove dinamiche di interazione con i media digitali sono ancora da vedersi, appena prima dell’inizio dell’era della pandemia una serie di studi stavano cercando invece di misurare l’impatto delle piattaforme digitali sulla partecipazione politica. L’ultimo numero del 2019 dell’International Communication Journal, con una sezione speciale dedicata alle piattaforme politiche in Europa, sembra l’occasione ideale per cercare di riprendere qualcuna delle domande sospese sulle piattaforme digitali e il loro uso politico – mentre cerchiamo di processare altri usi in versione amplificata dal nostro isolamento iperconnesso.

Curato da Marco Deseriis e Davide Vittori, lo speciale include sei casi studio sull’uso delle piattaforme digitali in diversi contesti europei e da parte di vari attori politici. Se il filo comune è come ogni piattaforma renda possibile delle forme di partecipazione politica, una domanda centrale rimane latente e inespressa: chi sono le persone che usano queste piattaforme digitali, come le usano e perché’ in questi studi non hanno quasi mai voce?

1. Le piattaforme digitali nel “lungo decennio”

Piattaforme sociali e/o piattaforme politiche. Il lungo decennio, come Deseriis e Vittori chiamano quello che si è appena chiuso, è stato dominato da movimenti anti-autoritari e anti-austerità che hanno incorporato l’uso dei social media in maniere nuove e dirompenti. Se la logica dei social network commerciali può avere facilitato i movimenti nella loro fase iniziale, si è rivelata presto meno adatta a sostenere strategie a lungo termine (van Dijck & Poell, 2013). Per questo diversi gruppi hanno cominciato a orientarsi verso strumenti specializzati (e software open-source) per supportare i loro processi decisionali. Deseriis e Vittori insistono che gli elementi comuni a social media platforms (SMPs) e digital democracy platforms (DDPs) rimangono più importanti delle differenze, nonostante queste siano significative. Da una parte le SMPs, nate per estrarre profitto da dati personali e informazioni condivise, che però data l’ampia base di utenti hanno contribuito a rivitalizzare l’azione politica. Dall’altra le DDPs, fatte per essere di supporto a processi di partecipazione e deliberazione, ma di fatto spesso limitate nel loro impatto e raggio di azione.

Come influisce la logica algoritmica sulla partecipazione? Un tema importante nei dibattiti recenti è stato quello sulla ‘logica algoritmica’ dei social media, e quanto questa condizioni l’agency politica degli utenti. C’è chi sostiene che la logica algoritmica, che ha sostituito la logica editoriale dei media analogici, condizioni la partecipazione in maniera più sottile e pervasiva (e.g van Dijk & Hacker, 2018). Altri enfatizzano invece la creatività e ingegnosità degli utenti, dimostrando come si possa giocare con le funzionalità di ogni piattaforma e aggirarne i limiti (e.g. Clark et al., 2014). Un’altra autrice che contribuisce allo speciale, Maria Bakardjieva, conclude che “la partecipazione dei cittadini… non può essere ridotta alla sola architettura delle piattaforme, ma ne è sicuramente influenzata”. Quello che fa la differenza, sostiene Bakardjieva, è “chi partecipa? A cosa? Per quale scopo?”.

 

(Street mosaic in Grodno, Belarus. Photo: Victoria Strukovskaya)


2. Gli utenti delle piattaforme istituzionali

Una piattaforma può rafforzare i membri di un partito? Deseriis e Vittori cercano di valutare l’impatto delle piattaforme usate da Podemos e da 5 Stelle, rispettivamente Participa e Rousseau, sulla democrazia interna dei due partiti e gli squilibri di potere. Entrambi i partiti hanno un forte “orientamento tecno-populista” (Deseriis, 2017), ma allo stesso tempo sono caratterizzati da traiettorie politiche e ideologiche profondamente diverse, riflesse anche da modelli organizzativi divergenti: una varietà di nodi decisionali centralizzati e decentralizzati (Podemos) contro un modello senza alcun intermediario tra vertici e membri di partito (5 Stelle). Deseriis e Vittori sostengono che, nonostante queste distinzioni, in entrambi i casi le funzionalità delle piattaforme sono utilizzate in maniera molto selettiva, per confermare soprattutto decisioni già prese dai vertici di partito. Questa potrebbe essere una delle ragioni del netto declino dei partecipanti al voto che entrambe le piattaforme hanno registrato dopo il primo anno di vita. Altre possibili ragioni includono l’abbandono dei primi iscritti, o il fatto che ai membri viene richiesto di votare troppo frequentemente, o – nel caso di Rousseau – che agli utenti non vengono offerte altre prospettive se non quelle dei vertici quando si tratta di votare su argomenti controversi. Di certo per confermare queste ipotesi ci vorrebbero nuovi studi, che dovrebbero includere anche gli utenti di entrambe le piattaforme.

Una piattaforma può mantenere alta la qualità del dibattito nel tempo? Guardando solo a quello che succede sui social media verrebbe da rispondere no, ma anche le amministrazioni locali in Europa hanno cercato di rimodellare la partecipazione e deliberazione online. Nel loro studio su Decidim, la piattaforma che permette ai cittadini di Barcellona di contribuire al piano strategico della città, Borge Bravo, Balcells e Padró-Solanet analizzano la “qualità deliberativa” del dibattito su turismo e ospitalità. Dalla loro analisi il tempo risulta essere un fattore chiave, nelle varie fasi che attraversano le conversazioni su piattaforme come Decidim. Se all’inizio la maggior parte degli utenti cerca di costruire argomenti persuasivi e razionali, con l’avanzare della discussione arriva invece spesso anche un impoverimento della qualità del dibattito. Questo a sua volta può fare si che nuovi utenti siano meno interessati a prendere parte e abbassa la soglia degli argomenti accettabili, mentre i pochi utenti rimasti trasformano il dibattito in scontro personale. La loro conclusione è che una deliberazione spontanea online è possibile, ma la difficoltà maggiore è riuscire a mantenere la qualità di questa deliberazione nel tempo.

Dove sono posizionati gli utenti delle piattaforme governative? Come sostiene Bakardjieva, dipende molto da chi crea la piattaforma, chi la usa e quali strategie si adottano per cercare di influenzare chi governa. Il suo studio compara tre soluzioni in uso nella città bulgara di Stara Zagora: una piattaforma governativa, una collaborativa creata dai cittadini, e una pagina Facebook. La piattaforma governativa, voluta dalla municipalità, può essere usata dai cittadini per riportare guasti o problemi e richiedere documenti. Come in altri casi simili, gli utenti di questa piattaforma sono posizionati come clienti. A fare la differenza nel caso della piattaforma collaborativa è il fatto che questa sia stata concepita e disegnata dai cittadini. Attraverso una serie di interviste con il nucleo dei fondatori, Bakardjieva descrive come gli utenti di questa piattaforma non siano solo messi nella condizione di segnalare un problema, ma anche di ricevere una risposta. Caso per caso, la piattaforma collettiva ha infatti costruito nel tempo un suo potere di negoziazione ed è ora riconosciuta dagli amministratori come interlocutore politico pur mantenendo una forte autonomia.

 

(Photo: Peyman Farmani)


3. Gli utenti delle piattaforme commerciali

Basta una piattaforma per promuovere la partecipazione? Bakardjieva offre anche un esempio da manuale su come ogni piattaforma possa assecondare diversi scopi. Quando un altro gruppo a Stara Zagora inizia a mobilitarsi per salvare un parco locale da piani di sviluppo edilizio, diventa chiaro che la disputa necessita di strumenti diversi da quelli utilizzati per la cooperazione, e gli attivisti li trovano in Facebook, piattaforma multifunzione. A questo gruppo infatti Facebook offre un apparato di comunicazione generalista che viene capito e usato abilmente dal gruppo di cittadini. Allo stesso tempo, Bakardjieva ammette che una partecipazione efficace non può essere costruita solo attraverso Facebook o nessun’altra piattaforma. Nel caso del parco, il supporto offerto da altri gruppi e media si rivela infatti cruciale per mobilitare numeri più consistenti della popolazione. In generale, come si sostiene dall’inizio dello scorso decennio con l’idea di media convergence e approcci simili, è essenziale continuare a considerare come le piattaforme digitali si collegano (e sovrappongono) con altre forme mediatiche e di mobilitazione.

Può una piattaforma mettere insieme partecipazione e rappresentazione? In un altro contributo allo speciale Louise Knops e Eline Severs presentano il caso della Piattaforma dei Cittadini per il Supporto ai Rifugiati (CPRS), una pagina Facebook creata in Belgio in risposta alla crisi del 2014-2015 per coordinare assistenza e logistica. Lo studio guarda a come nel corso degli anni CPRS abbia assunto sempre più un ruolo di portavoce politico dei belgi che supportano politiche di immigrazione più inclusive e accoglienti. Questa prospettiva rinforza studi precedenti che hanno sostenuto che le reti sociali online possano trovare un compromesso tra la logica della partecipazione e la logica della rappresentazione (Gerbaudo, 2017). Altro aspetto interessante dell’articolo è l’enfasi sul ruolo centrale giocato dall’amministratore della pagina del CPRS, che quotidianamente si occupa di filtrare e selezionare i contenuti pubblicati e condivisi dai membri della pagina, cosa che ricorda come la “logica editoriale” molto spesso coesista con la “logica algoritmica” e non sempre in ruolo subordinato. Ancora una volta, come ammettono le autrici, nuovi studi con più utenti sarebbero necessari per confermare questi risultati.

Può una piattaforma combinare partecipazione e apprendimento sociale? Dan Mercea e Helton Levy esplorano la relazione tra questi due fenomeni su Twitter, guardando a un insieme di retweets della “People’s Assembly” britannica tra il 2015 e il 2016. La Network Theory finora sembra avere interpretato l’apprendimento sociale come un processo che include diffusione e validazione da parte degli utenti, che in Twitter corrisponde ai retweet. Allo stesso tempo, come notano Mercea e Levy, i retweet possono anche essere visti come una forma di “cura” della conoscenza collettiva, facendo da filtro a rumore e informazioni non rilevanti. Nel caso della People’s Assembly, i retweet infatti sembrano avere contributo a distribuire e rendere evidente la conoscenza delle ragioni che portano diversi attori a cooperare nell’Assembly, mantenendo allo stesso tempo un insieme di risorse comuni sul movimento. Lo studio è basato su un’analisi quantitativa dei retweets e su un piccolo numero di interviste con utenti di Twitter che – suggeriscono anche in questi caso gli autori – andrebbe ampliato per potere raggiungere delle conclusioni più generali.

 

(Photo: Vladislav Nikonov)

4. L’utente-bersaglio: non è altro che propaganda

Perché le piattaforme online facilitano le campagne reazionarie? Se questo numero speciale guarda soprattutto ai successi della partecipazione digitale o ai suoi possibili ostacoli, altri studi recenti si sono dedicati invece a esplorare quello che qualcuno chiamerebbe il lato oscuro delle piattaforme. Dopotutto Brexit è andata come è andata, e altre campagne reazionarie hanno raccolto un discreto successo in Europa e altrove. Uno degli elementi che spiegano l’inaspettata popolarità delle piattaforme digitali per i partiti di estrema destra è la loro dinamica di partecipazione, che secondo Gregory Asmolov (2019) crea condizioni ideali per una “propaganda partecipativa”. Il concetto stesso di propaganda, per quanto digitalizzato, rimane certamente problematico nel suo rimandare a dibattiti vecchi e fortunatamente superati sugli “effetti” dei media sulla mobilitazione. Allo stesso tempo, Asmolov e LeJeune sostengono che il risultato di una manipolazione informativa che coinvolge gli utenti non è necessariamente la mobilitazione: in diversi casi – basti pensare a Cambridge Analytica o Breitbart – l’obiettivo è piuttosto il disorientamento politico e la frammentazione sociale.

Non siamo che bersagli di bots e trolls? A partire dal 2015 il progetto Computational Propaganda (basato all’Oxford Internet Institute) ha investigato l’assemblaggio di algoritmi di social media, agenti autonomi e big data coinvolti nella manipolazione dell’informazione. Il loro ultimo report su “Global disinformation order” (2019) sostiene che negli ultimi due l’investimento in questo campo ha visto una crescita del 150% anni in tutto il mondo – paesi liberali e autoritari, occidentali e non-occidentali. Le nuove “cyber troops” operano attraverso bots, accounts umani, automatizzati o rubati; lavorano per screditare l’opposizione politica e isolare il dissenso. Nonostante l’abbondanza di alternative, Facebook sembra rimanere la piattaforma prescelta non solo per la scala globale della sua copertura, ma anche per le sue componenti: le strette connessioni personali che la compongono, l’incorporazione di notizie politiche, la capacità di ospitare gruppi e pagine.

A rimanere chiaramente fuori da questa cornice è il significato che le persone danno alle informazioni trovate sulle piattaforme. E se da una parte ci si aspetta che studi di comunicazione politica e sociologia politica siano improntati sull’idea dell’utente-bersaglio, anche tra i teorici dei nuovi media sembrano guadagnare popolarità le visioni apocalittiche di sistemi invisibili, oppressivi e ingannevoli, dove i trolls hanno la capacità di stravolgere i nostri pensieri e i nostri comportamenti (Lovink 2020).

 

(Photo: Ashkan Forouzani)

5. Conclusioni – Stuart Hall e la piattaforma-pensiero

Piattaforme come punto di incontro. Cosa ci rimane quindi? Come Emiliana De Blasio e Michele Sorice sostengono in un altro articolo contenuto nello speciale, uno dei pochi punti non controversi è che l’idea di “piattaforma” si è ormai affermata come punto di incontro tra prospettive molto diverse. Inaspettatamente, alla fine del loro tour de force enciclopedico su tutta la possibile letteratura scientifica prodotta finora sulla partecipazione, De Blasio e Sorice invocano Stuart Hall e la sua ineguagliata capacità di combinare metodi e strumenti della sociologia politica con media studies e analisi di culture alternative. Questa prospettiva multimodale, criticamente solida, è precisamente quello che sembra mancare a molta teoria contemporanea sui media, che può essere al meglio affascinante ma spesso risulta inaccessibile e/o politicamente sterile.

Piattaforme in tempi di crisi. Fin dalle prime misure di emergenza per il Covid-19 in Asia e Europa, le piattaforme commerciali hanno mostrato il meglio e il peggio della condivisione e costruzione di connessioni. I social network sono portatori di disinformazione, notizie false e palcoscenico per le esibizioni di improbabili esperti o narcisisti professionisti. Allo stesso tempo una crisi di questa portata apre a un possibile reset sociale e tecnologico, al quale le piattaforme digitali potrebbero contribuire con informazioni utili al supporto delle comunita’, per trovare soluzioni a problemi condivisi e per redistribuire risorse. Se e’ ancora presto per vedere uno sviluppo di piattaforme non commerciali e ad-hoc, una direzione possibile e’ indicata iniziative immediate/precoci come gruppi, pagine o wikis costruite per mettere insieme e coordinare sforzi di solidarieta’ locali e globali.

Utenti prescritti e utenti mancanti. Il suggerimento più utile di tutto lo speciale viene probabilmente ancora una volta da Bakardjieva, che prende da de Certeau (1984) la visione delle piattaforme come “insiemi di possibilità e interdizioni”, caratterizzate tra le altre cose dai loro utenti “prescritti” (Latour, 1992) e dagli usi anticipati e manifesti che questi ne possono fare. Mettere a confronto diversi tipi di piattaforme, come fa Bakardjieva nel suo studio, è anche un approccio fondamentale per capire meglio la varietà di posizioni che le piattaforme creano per i loro utenti. L’unico pezzo mancante dal quadro è ancora una volta quello degli utenti: c’è bisogno di includere di più e meglio le loro voci per capire cosa fanno di queste piattaforme costruite per (e contro di) loro, in tempi ordinari e straordinari.

Un populismo di piattaforma? Sul Facebook Community Summit di Chicago

Il 22 e il 23 giugno di quest’anno, cioè qualche giorno fa, si è tenuto a Chicago il primo Facebook Community Summit – un evento che segue e sviluppa il documento ‘Building Global Community’ pubblicato sulla timeline di Mark Zuckerberg a febbraio di quest’anno e commentato in questo blog. Continuo a seguire le evoluzioni di Facebook mentre lotto con la scrittura del mio nuovo libro, Hypersocial, specialmente la parte dedicata a una genealogia dei modelli del sociale incorporati nella piattaforma – e il loro rapporto con il modo di produzione organizzato dal mercato e quello concepibile a partire dai principi del comune e della cooperazione sociale. La questione del capitalismo di piattaforma (a cui sono dedicati due bei volumi in italiano appena usciti, uno di Benedetto Vecchi e uno collettivo sul Platform capitalism e i confini del lavoro a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, e Maurizio Teli) implica la sperimentazione di un nuovo modello di convergenza di governamentalità e valorizzazione economica (la messa a profitto). La mia ricerca, cioè, mi sta portando a considerare il problema dei modelli e delle tecnologie del sociale mobilitati dal capitalismo di piattaforma sia in termini di cattura del valore e della ricchezza prodotti in comune sia come modelli di governo tecnosociale che aspirano secondo me a generalizzarsi. Mi interessa come la spazializzazione del sociale che lo strutturalismo dinamico di una branca delle scienze sociali, la social network analysis, incorpora nel capitale fisso mobilizzato da una piattaforma come Facebook, ma forse da tutti i social media, costituisce il terreno su cui pensare le risposte politiche e organizzative a questa nuova situazione.

Dopo aver annunciato nella lettera ‘Building Global Community’ che Facebook avrebbe posto al centro della sua strategia di product development le comunità, cioè i gruppi, l’azienda americana convoca dunque un ‘summit’ a Chicago, invitando una selezione di quella che definisce i ‘top group admins’ per annunciare nientedimeno che il cambiamento della sua mission: la sua missione non sarà più semplicemente di rendere il mondo più aperto e connesso, ma di renderlo più ‘vicino’ attraverso gli strumenti che permettono a gruppi di formarsi ed espandersi sulla sua piattaforma. Si tratta di una mutazione interessante rispetto al modello di ‘reti personali amicali’ (amici, parenti, colleghi e conoscenze) che è stato fino ad adesso il focus del popolare sito di social networking.

A differenza delle prime conventions organizzate da Facebook (denominate F8), è interessante notare innanzitutto come la comunicazione di FB si sia spostata direttamente sul terreno della piattaforma: una lettera pubblicata sul profilo di Zuckerberg a febbraio e adesso una trasmissione live trasmessa sulla piattaforma stessa (e ripresa immediatamente da molti canali youtube). Sintetizzando il contenuto del video pubblicato sul Summit, Facebook sostiene che i gruppi costituiscono l’area della piattaforma dove si sta verificando una crescita che va al di là delle (necessariamente e tecnicamente limitate) reti di contatti personali; annuncia che ci sono 100 milioni di utenti attivi sui gruppi e che intende operare per dare ai gruppi migliori strumenti e quindi espanderli; infine sostiene che il declino dell’appartenenza a comunità tradizionali può essere bilanciato dalla creazione di comunità digitali, che divide tra ‘comunità casuali’ (non particolarmente importanti, come il gruppo dedicato da Zuckerberg al suo cane) e ‘comunità significative’, cioè gruppi che funzionano come infrastruttura sociale fondamentale, fonte di identità e riconoscimento, per chi li frequenta (per esempio quelle per giovani genitori o genitory gay).

Guardando il video, mi sembra che Facebook confermi la sua tendenza a costituirsi come uno spazio digitale che funziona in qualche modo come un nomos, cioè uno spazio su cui esercita un qualche tipo di sovranità. Il modello di sovranità che Facebook si trova ad incarnare si presenta come una sovrapposizione di modalità precedenti, ma in un una nuova configurazione. Riprendendo la classica distinzione introdotta da Michel Foucault tra sovranità, disciplina e biopolitica ci troviamo davanti a un modello di sovranità basato sulla proprietà privata (nella misura in cui servers e software sono proprietà  di Facebook, che può espellere chi vuole o modificarla a suo piacimento), su cui è basato un ordine disciplinare (il libro delle ‘facce’ si basa sull’identificazione o il nome personale, perché come ebbe a dire Zuckerberg in passato quando si è identificabili, ci si comporta meglio), ma anche e in maniera interessante il governo di una popolazione (i due miliardi di profili attivi) che genera una enorme quantità di traffico, contenuti e dati per la piattaforma, ma che è costituzionalmente sempre sul punto di ‘s/fuggire’ . Come sostiene Wendy Chun, i media digitali sono ‘media abituali’, costruiti sull’abitudine non solo come ripetizione, ma come continua crisi o shock: i social sono una abitudine che però ha bisogno di essere continuamente rotta e variata (ci dev’essere sempre qualcosa di nuovo). E’ questa combinazione di abitudine e rottura continua dell’abitudine che apre la possibilità dell’intrinseco nomadismo degli utenti – sempre sul punto potenzialmente di sfuggire alla piattaforma (per esempio nel modo in cui gli under-25 sono fuggiti da Facebook verso Whatsapp o  Instagram costringendo Facebook a riacchiapparli comprando anche queste piattaforme). Questa popolazione è sì inevitabilmente radicata nella materialità biologica dei processi della specie (si riproduce, vive, muore), ma si presenta al sovrano dei social soprattutto come insieme di identità algoritmiche, struttura dinamica di relazioni (inter-relazionalità) e flussi di condivisioni soggetti alla temporalità dell’evento (il feed). Questa struttura dinamica è il tessuto o medium o ambiente che sostiene la circolazione di quella che non possiamo più genericamente chiamare informazione. Cosa viene condiviso nei social si presenta da un lato come elementi definiti (nel senso che è possibile identificarli attraverso un numero), ma anche forze fluide e differenziate. Da un lato foto, articoli, pagine, grafici, citazioni, commenti, post, mi piace, condivisioni, luoghi, aziende, somme di denaro etc, dall’altro e contemporaneamente flussi di opinioni, idee, credenze, desideri, avversioni, affetti, attitudini, preferenze emozioni e azioni espressi con forza variabile (in modo più o meno intenso). Questa enorme circolazione di flussi di soggettivazione a cui corrispondono delle quantità sociali che chiamiamo ‘dati’ ha ormai spiazzato completamente il vecchio modello basato sul broadcasting.

Conta dunque che Facebook, che a molti è sembrato la realizzazione del vecchio motto thatcheriano ‘non esiste la società ma solo gli individui e le loro famiglie’ (a cui aggiungere adesso i loro amici), dica di volersi concentrare sulla costruzione di una ‘comunità globale’ e che i gruppi sono lo strumento più adatto allo scopo. Voglio tenere questo blog post breve, e quindi mi limito a elencare qui alcune considerazioni su questa nuova tendenza di Facebook. Devo dire che ascoltando Zuckerberg e anche dopo la lettura della lettera, ho sentito come una svolta ‘populista’ – anche se cosa significhi questo controverso termine è tutto da definire. Non ho approfondito questa intuizione ma mi ha colpito come nell’analisi del populismo delineata da Toni Negri nel suo recente intervento  al seminario sui populismi di Euronomade, Negri sostenga che il populismo implica sia l’omogeneità del ‘popolo’ che la figura di un leader – e il summit è organizzato come incontro e presa di parola dei vari leaders selezionati da Facebook che parlano a nome dei più o meno piccoli ‘popoli’ iscritti ai gruppi. Qui però è anche dove il populismo di piattaforma differisce dal populismo novecentesco identificato da Negri e si avvicina a quello più recente (pensiamo alla centralità del blog di Grillo nel movimento 5 stelle). Il leader infatti è definito secondo il modello dell’amministratore della pagina (che a sua volta deve molto a forme precedenti di virtual communities e in particolare al lavoro volontario degli amministratori delle piattaforme di giochi online). Per Zuckerberg, i gruppi vivono perché ci sono dei leaders/amministratori, il cui lavoro affettivo, relazionale, ma anche tecnico nella gestione di gruppi che possono anche sfiorare il milione di iscritti, è ritenuto responsabile della esistenza e persistenza e vitalità del gruppo. Il grande popolo globale di Facebook che si presenta nella forma di reti personali non è sufficiente di per se per costituire quella nuova grande global community, che è il sogno di ricostituire la società (post)civile all’interno del governo della piattaforma.

I nuovi poteri accordati ai leaders pure mi sembrano significativi: il potere dell’insight (una forma di intuizione) letteralmente assicurato dall’accesso a dati statistici sul gruppo (genere, età, etc, cioè le varie forme di identità algoritmica ben descritte da John Cheney-Lippold nel suo recente We Are Data) che permette di selezionare i membri da accettare; dati sulle abitudini dei membri del gruppo (a che ora postano o commentano di più); la capacità di filtrare le richieste di iscrizione, oltre che espellere e cancellare le tracce della presenza nel gruppo di soggetti molesti o non voluti; infine la promessa di permettere ai gruppi di connettersi gli uni agli altri. Mi sembra, almeno per quello che vedo, che si tratti qui di un iperpopulismo di piattaforma, che non potendosi più appoggiare alla patria o nazione, si costituisce quasi esclusivamente su due cardini: il situarsi in uno spazio ‘globale’ (quello della piattaforma che si presenta come post-nazionale) e il suo invocare l’amministratore o leader come figura pastorale in grado di tecno-governare il gruppo. Non si parla della possibilità di una condivisione della posizione di amministratore e in generale si va nella direzione opposta di quello dei grandi movimenti di piazza dei primi anni 2010, come Tahrir o Gezi e Occupy, che invece come descrive bene Zeynep Tufekci nel suo Twitter and Teargas, insistevano molto sulla mancanza di leader (anche se in maniera problematica). Tuttavia la questione del ‘leader’ nella rete e nei movimenti di reti è davvero complessa e non può essere liquidata velocemente.

Il secondo elemento che mi ha colpito è stata la selezione dei leaders e dei modelli di gruppo presenti al summit, almeno nel live feed. Quello che colpisce è che nonostante il richiamo al globale, gruppi e leader siano tutti americani, ma selezionati in qualche modo per rappresentare quello che una volta si sarebbe chiamato il ‘sociale’: c’è l’amministratore di un gruppo che ricorda la morte di una donna in un incidente causato da un guidatore ubriaco che riunisce membri che si sentono colpiti (affettati) da questo evento; l’amministratore afroamericano di un gruppo per padri neri che è anche un insegnante di scuola materna; la donna nigeriana che ha aperto e gestisce un enorme gruppo segreto di donne per parlare di temi che le riguardano; ma anche il birdwatcher e il fabbro che si rivolgono a comunità di individui con lavori o hobbies simili.. E’ interessante anche se scontato che non sia stato invitato (o forse sì ma non sono andati che sarebbe anche comprensibile) nessun leader di Black Lives Matter o del movimento Occupy o di gruppi di protesta, ma che la razza sia rappresentata dalla community leader nigeriana che abita a Chicago che ha fondato un gruppo di donne contro la violenza di genere, ma una violenza che è presentata come tra donne non bianche (le madri nigeriane che danno i pizzicotti alle figlie quando parlano troppo). Mi sembra come se questo passo di Facebook sia volto ad una ennesima traduzione tecnica (o transcodifica) del sociale volta ad accrescere la circolazione, ma anche a moltiplicare le possibilità di appartenenza in modi che tengono insieme valorizzazione economica e governo dei flussi generati da una popolazione socialmente interconnessa.

Per una di quelle coincidenze che alla fine segnano i processi di scrittura, mi ritrovo contemporeamente a leggere per la prima volta un testo del 2007 della teorica brasiliana Denise Ferreira de Silva , che si intitola Toward a Global Idea of Race. Mi attrae il testo di Da Silva per la sua insistenza sulla critica della ragione (e la sua costituzione di un soggetto trasparente, cioè che si auto-determina e si auto-regola) e per il suo uso del termine analitica della razza. Da Silva, per quello che riesco a capire, propone un concetto di globale come spazio formato dall’analitica della razza e dal soggetto trasparente, in modi che davvero risuonano per me anche con i modelli della social network analysis. La sua idea che la logica delle race relations è una logica di obliterazione del razziale, ma in senso assimilazionista, mi sembra molto rilevante al modo in cui Facebook invoca la razza solo a patto di dissolverla nell’universale. Sostituendo ai grafi dei social networks, che erano al centro delle prime presentazioni della piattaforma,  una classica mappa bidimensionale del pianeta connesso, Facebook propone una propria versione di governamentalità globale che quindi riattualizza anche l’analitica della razza.

È molto facile seguendo questo ragionamento concludere che si tratta semplicemente di abbandonare Facebook, per impedire a questa sua nuova forma di sovranità tecnologica iper-populista di produrre una nuova pacificazione e obliterazione del conflitto e delle differenze. E pur tuttavia, questa non mi sembra una soluzione. Mi sembra che il fenomeno di una piattaforma tecnosociale usata da due miliardi di abitanti ponga il problema della proprietà (del capitale fisso) e del governo (della relazione tra governanti e governati) anche dal punto di vista di un modo di produzione basato nel comune (concepito come insieme di singolarità inter-relazionali e inter-sezionali) e quindi dal punto di vista del conflitto con le sue forme di appropriazione. Il nomadismo degli utenti è catturato, anche se in modo non definitivo, dagli effetti di rete (più persone usano una piattaforma, più utile diventa), che tipicamente almeno per un medio periodo di tempo producono un lock in (siamo legati a queste reti e servizi).

Il blog su cui scrivo, dopo aver cercato di organizzarsi attraverso mailing list e piattaforme come Slack, si è spostato come gruppo segreto su Facebook – innervandosi in questo modo nella comunicazione sociale quotidiana, e escludendo chi non si trova sulla piattaforma. Il gruppo ‘funziona’ meglio delle mailing list e altri formati, ma il gruppo esclude chi ha scelto di non stare su Facebook, e soprattutto il gruppo della TRU non è ‘nostro’, nella misura in cui tutto quello che scriviamo appartiene a FB e FB governa questo spazio con le sue regole e le sue politiche. Eppure non possiamo farne a meno. Se i social media sono diventate delle utilities, cioè infrastrutture della vita sociale di miliardi, è possibile postulare che sia posto non solo il problema dell’alternative, ma anche quello dell’appropriazione, dell’espropriazione e di nuove forme di proprietà?

 

 

 

Capitalismo delle piattaforme e governo della società. La ‘global community’ di Facebook

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Qualche giorno fa, il presidente e fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una lettera  che contiene alcune affermazioni programmatiche molto interessanti sul futuro della piattaforma, quali le priorità e la visione di insieme che sottenderà i prossimi sviluppi della programmazione. Si tratta di un documento molto rilevante, nella misura in cui si inserisce nel dibattito più generale sulle grandi aziende statunitensi che gestiscono i più grandi servizi online e i processi politici che li vedono coinvolti. Pensiamo per esempio ad alcune delle accuse più ricorrenti rivolte al gigantesco social network dai politologi americani e non solo, cioè che il medium crea delle ‘filter bubbles’ esponendoci solo a opinioni simili alle nostre (quella che Zuckerberg definisce ‘riduzione della diversità informativa’ e quindi il rischio della polarizzazione) e che non permette di distinguere le notizie vere dalle false (le famose bufale), definite dal miliardario americano come il rischio del ‘sensazionalismo’. Di fronte a questi rischi ed ‘errori’, come vengono definite, Facebook promette maggiori investimenti nelle sue tecnologie di intelligenza artificiale (A.I.), prefigurando algoritmi in grado non solo di distinguere il vero dal falso, ma di gestire il feed degli utenti in modo tale da evitare sia la ‘bolla del filtro’ che la polarizzazione delle opinioni, selezionando una varietà di punti di vista da cui costruire una opinione più equilibrata. Facebook si pone dunque esplicitamente nella inedita posizione di governatore dell’informazione sociale, e quindi come nuova infrastruttura della società (post)civile globale.

Rispetto ai giorni in cui l’azienda rifiutava fermamente, seguendo l’esempio di Google, l’idea di essere una media company, definendosi in primo luogo come una azienda a vocazione tecnologica, si tratta di un importante mutamento già annunciato qualche mese fa. In questo modo, la piattaforma comincia a collocarsi esplicitamente nel dominio dei media, quindi paragonandosi a media come la televisione e la stampa, e come conseguenza accollandosi anche le responsabilità politiche della governance. Se, da un altro punto di vista, grandi aziende della Silicon Valley hanno stabilito la governance attraverso piattaforme informatiche (Internet delle cose, smart city and smart government, sharing economy, gig economy etc) come loro campo di azione, Facebook è l’unica che sposta l’asticella di questo intervento dalla regolazione algoritmica dei flussi logistici, alla regolazione diretta di quello che il documento definisce il ‘tessuto sociale’, cioè alla modulazione dei processi associativi e e dei ‘valori collettivi’ che da essi emergono.

Abbiamo visto nei giorni della vittoria di Trump, una presa di posizione politica  da parte dei giganti della Silicon Valley, che, con l’eccezione di Uber  (che infatti ha subito un boicottaggio con l’hashtag #DeleteUber), si sono schierate generalmente con l’opposizione, diventando i portabandiera della tradizione liberale americana e dei suoi valori (esemplificati dalla citazione di Lincoln con cui la lunga lettera di Zuckergberg non a caso si chiude), ma anche della globalizzazione contro la minaccia ultranazionalista del populismo di Trump. Se il motto che sintetizza la missione di Facebook, è “rendere il mondo più aperto e connesso”, questo si sposa male con la chiusura nazionalista di eventi come la Brexit e l’elezione dell’imprenditore americano. La lettera presenta Facebook come il governatore di un tessuto sociale globale connesso che si individualizza in ambienti e regioni specifiche (dalla Germania all’India, dall’Egitto al Nepal) che producono ‘norme culturali’ eterogenee, non governabili a partire da una unica norma. La curva della normazione , che Foucault  descriveva relativamente ai meccanismi di sicurezza, variabile e differenziata, sostituisce la ‘normalità’, mentre l’apertura e la connessione realizzano la continuità del processo di valorizzazione.larger

Se come notavano autori diversi quali Celia Lury e Maurizio Lazzarato   qualche anno fa, l’azienda postfordista non produce in primo luogo merci, ma mondi in cui vivere, ecco che Zuckerberg presenta la missione della sua azienda, il suo ‘viaggio’ come ‘creazione di un mondo’ naturalmente ‘aperto e connesso’ che porti avanti ol processo espansivo di socializzazione che porta l’umanità, nelle parole della lettera, ‘dalle tribù, alle città, alla nazione’, verso una dimensione inevitabilmente globale. E’ una nuova immagine del vecchio eurocentrico concetto di progresso, che nella visione di Zuckerberg conduce verso un sempre maggiore processo di socializzazione planetaria. Facebook si presenta dunque, come tutta la Silicon Valley, come rappresentante di una forza di globalizzazione che implicitamente oppone la chiusura nazionalista della Brexit e di Trump. La missione di Facebook diventa quindi quella di facilitare ed espandere il processo di globalizzazione nella misura in cui quest’ultimo presenta delle ‘sfide’, dei ‘rischi’ e delle ‘opportunità’ che possono essere colte soltanto da quella che la lettera descrive come una ‘comunità globale’.

La lettera dunque rende esplicite quelle che sono le sfide della costruzione di nuove ‘infrastrutture sociali’ che permettano alla comunità globale di organizzarsi e rafforzare quel ‘tessuto sociale’ compromesso dalla globalizzazione stessa. E’ interessante notare come questa spinta a costruire una comunità globale si dia nel contesto dei problemi di governance incontrati dai gestori della piattaforma e che questa nuova visione sia centrata attorno ai ‘gruppi’. Zuckerberg dunque sposta il focus dalle reti sociali interpersonali (quali quelle accumulate da un profilo personale) alle ‘pagine’ (che costituiscono il motore dello sfruttamento economico della piattaforma con i loro ‘mi piace’) ai ‘gruppi’ come focus degli investimenti futuri, ponendosi paradossalmente come l’inventore della sociometria, lo psichiatra Jacob Moreno , il problema della regolazione psicosociale della vita delle popolazioni.

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E’ sulla questione dei gruppi che emerge la visione e il modello di società che Facebook propone come soluzione alla crisi di governance globale (ma significativamente non alla crisi economica).

Sono convinta che non è un caso che la questione dell’infrastruttura sociale, come la chiama Zuckerberg, sia emersa attorno alla popolarità dei ‘gruppi’ sulla piattaforma, identificati come area per cui costruire nuovi servizi. In particolare Zuckerbeg si riferisce a quelli che vengono definiti ‘gruppi molto significativi’, cioè gruppi che diventano velocemente luoghi di sostegno e di cura per individui isolati da una condizione specifica (una rara malattia, per esempio, o anche gli sposi e le spose dei militari costrette a spostarsi di città in città senza poter costruire una vera rete sociale). A differenza delle reti interpersonali (amici, famiglia e conoscenti), i gruppi non solo resuscitano la vecchia immagine della ‘virtual community’ centrata sulla cura di cui parlava Howard Rheingold nei primi anni novanta, ma la integrano in un ‘tessuto sociale globale’, che è identificato con la piattaforma nel suo insieme. Le comunità di Facebook o gruppi performano tutte le funzioni che ancora oggi altri servizi online permettono (pensiamo alla piattaforma Slack o ai forum anonimi per vittime di violenze), ma le performano all’interno di un unico network privato con una architettura centralizzata server/client (o cloud) che ospita una popolazione di miliardi di utenti modellata attraverso il diagramma del grafo sociale e i metodi della social network analysis. Il sociale per Zuckerberg non è, come sostengono molti critici dei social, un sociale fatto di individui isolati e connessi (insieme ma soli come diceva Sherry Turkle), ma un social composto da gruppi e sotto-gruppi. nella misura in cui è il gruppo, non la comunità il referente tecnosociale che sottende la piattaforma e nella misura in cui lo’individuo non esiste se non come membro di un gruppo, per quanto piccolo esso sia. La società evocata da Zuckerberg con il nome di comunità e un insieme di sotto-insiemi connessi, cioè insieme topologicamente discontinui e continui che restituisce l’immagine di un globo eterogeneo ma connesso. Evocando implicitamente i primi studi della social network analysis, Zuckerberg descrive la società come un granuloso tessuto di piccole reti, che uniscono e differenziano, ma che compongono anche dopotutto un singolo plateau. E’ questa specifica composizione che permette, per Zuckerberg, alla rete sociale di diventare l’infrastruttura attraverso cui rispondere alle crisi globali, identificate significativamente e principalmente con il terrorismo e il cambiamento climatico.

SAN FRANCISCO, CA - SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)
SAN FRANCISCO, CA – SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Qualche anno fa, l’antropologa e attivista americana del movimento Occupy, Joan Donovan mi ha raccontato come è stato il movimento Occupy ad avere utilizzato per primo in maniera significativa e orientata politicamente la capacità logistica delle reti sociali, cioè la loro capacità di trasformarsi da reti di opinione a reti capaci di coordinare azioni su larga scala. Quando l’uragano Sandy si abbattè su New York, il movimento Occupy si dimostrò capace di mobilitare un processo di raccolta e movimento di risorse che dimostrò una capacità di ‘autogoverno dell’emergenza’ che i governi locali e nazionali stremati dai tagli non riescono quasi più a dare. La maggior parte degli usi innovativi della piattaforma raccontati dalla lettera vengono dagli utenti, dall’intelligenza di quella general sociality catturata da questi nuovi media. Nel suo lavoro più recente, Donovan ha iniziato a definire ‘ipercomune’ (o hypercommon) la capacità di cooperazione sociale resa possibile dalle reti, che rendere possibile nuove forme di autogoverno e modelli di produzione, che si differenziano sia dal modello statale che da quello aziendale.

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Significativamente, Zuckerberg non inserisce tra le priorità politiche per la nuova comunità globale, la crisi del debito, la precarietà, lo sfruttamento o la tragedia delle migrazioni, ma si ferma alle pandemie, al terrorismo, e al cambiamento climatico. La piattaforma diventa il modo attraverso cui la società si difende dai danni e li previene. Il cambiamento sociale sta tutto nella capacità di individui (la ‘nonna’ che avrebbe iniziato il movimento della marcia delle donne contro Trump è l’esempio più significativo) di viralizzare la rete sociale come infrastruttura della mobilitazione. Se la piattaforma sta proponendo una alternativa al protezionismo ipernazionalista di May o Trump o delle nuove destre, lo fa rimanendo comunque fermamente all’interno di quello che Nick Srnicek ha definito il ‘capitalismo delle piattaforme’  – oggetto dell’importante incontro organizzato da Euronomade e Macao a Milano degli inizi di marzo.

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In sintesi, il documento di Zuckerberg rende ancora più chiaro come Silicon Valley stia formulando quella che Foucault descriverebbe come una nuova ‘razionalità politica’, che assume l’eredità del liberalismo e nel neoliberalismo nell’identificare il problema principale il governo delle ‘popolazioni’ (i milardi di utenti), la massimizzazione della loro vita sociale, politica e culturale, e la protezione dai ‘rischi’ e ‘errori’ della circolazione dell’informazione (dalle notizie false, sensazionalismo, polarizzazione, divisioni al terrorismo, il cambiamento climatico e le pandemie) all’interno di una economia di mercato globale che non mette però mai in discussione i rapporti di proprietà o l’accumulazione di valore economico. Insieme al movimento della Silicon Valley per la smart city (aspramente criticato tra gli altri per esempio da Evgeny Morozov ), il capitalismo delle piattaforme intensifica la sua vocazione a farsi governo della società. Quali forme di tecnopolitica e non solo possono rispondere a questa nuova configurazione?