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“Io sono le altre”: note (trans)femministe su Il racconto dell’ancella e I Love Dick (parte II)

(Segue dalla prima parte disponibile a questo link)

[*spoiler warning*: descrizioni di snodi narrativi delle serie e analisi del finale di I Love Dick]

Quanto più resta ai margini dell’azione, tanto più la capacità di vedere e raccontare di Difred prende forza. Già travolta dagli eventi dopo le prime restrizioni imposte alle donne a seguito del colpo di stato, cui reagisce chiudendosi in casa a pulire e cucinare invece che manifestando in piazza, nel suo ruolo di ancella Difred continuerà a restare debole e passiva, e non prenderà mai parte alla resistenza contro il regime. Per questo, una parte fondamentale del libro, che è stata invece espunta dalla serie, è la differenza che Atwood marca tra lei e la madre ormai relegata nelle colonie, single per scelta e attivista femminista radicale, il cui ricordo resta per Difred ingombrante, la figura recuperata su un piano solo affettivo piuttosto che anche politico.

Tutto questo nella serie, purtroppo, scompare: da una parte, Difred è progressivamente trasformata in un’eroina dall’ego forte in un crescendo di azioni che ne risaltano la volontà di ribellione, come già era accaduto nel film. Sullo schermo, cosa per nulla secondaria, Difred si chiama June[1]; June sputa di nascosto un biscotto che desidera ma che le ha offerto Serena Joy; June è torturata perché non tradisce Diglen, e poi omaggiata come “martire” dalle compagne del Centro che condividono con lei il loro cibo; June aiuta l’amica Moira a scappare facendosi prendere al suo posto; June aggancia l’ambasciatrice messicana in visita alla casa del Comandante; June riesce a portare in salvo un pacco di lettere e testimonianze di ancelle che chiedono aiuto; June, infine, riesce a scappare dalla casa del Comandante. Dall’altra tutto questo, anziché rafforzare l’assunto politico del testo, lo indebolisce e lo sconfessa, se consideriamo anche le dichiarazioni con cui la produzione e il cast[2]Elisabeth Moss (che interpreta Difred) in testa – hanno voluto prendere le distanze dal femminismo del libro, appoggiandosi in parte ad affermazioni (a mio avviso travisate) di Atwood stessa per appellarsi a un generico umanesimo: in base al quale parlare di femminismo sarebbe limitante, perché quella esercitata a Galaad non andrebbe considerata come violenza di genere, o tutt’al più anche razziale, ma come una violazione dei diritti umani in senso lato, che priva ogni essere umano delle sue libertà fondamentali.

Fig. 6 Un cartellone alla marcia di Washington, foto di Sarah Pinsker

Un simile presupposto, svuotando completamente di senso l’esperienza di genere, e proprio per questo né individuale né tantomeno universale, di Difred, mal si concilia con l’approccio “intersezionale” che vorrebbero indicare alcune scelte della serie, come dare sviluppo alla vicenda di Diglen in chiave queer, far interpretare Luke e Moira da attori afro-americani, o subordinare la discriminazione razziale ad altre priorità; e invece, stando anche alla policy di Hulu, sa piuttosto di tokenism – meglio non leggere le squallide dichiarazioni di Miller in proposito. La valenza politica della testimonianza di Difred è stata meglio agganciata sui social media, se guardiamo, per esempio, ai numerosi meme di protesta circolati su Twitter, o ai sit in di donne travestite da ancelle, organizzati online, che hanno avuto luogo in vari stati americani contro le proposte di legge per limitare il diritto all’aborto.

Fig. 7 La protesta delle “ancelle”davanti al Senato in Texas

All’opposto, le sceneggiatrici di I Love Dick hanno perfettamente chiaro, come e forse anche meglio di Kraus, che non è necessario occupare l’io monolitico della tradizione eteropatriarcale per poter parlare, ma che un io frammentato è altrettanto potente, e non costruiscono quindi nessuna corazza che tenga insieme i pezzi della protagonista e ne avvalori il racconto, ma anzi affondano nelle sue debolezze lasciando che si degradi e cada a pezzi (perfetta la recitazione di Kathryn Hahn nel ruolo di Chris). Da questo processo di abbassamento e frantumazione vengono fuori i personaggi – inesistenti nel libro – di un nuovo soggetto femminista plurale e, stavolta sì, intersezionale e potentemente contraddittorio: caucasico, nero, ispanico, hipster[3] o proletario, cisgender o genderqueer.

Per quanto il personaggio di Chris s’inserisca in una una tradizione televisiva consolidata che sceglie come protagoniste donne “liberate”, autoironiche e un po’ goffe ma anche sessualmente disinibite e capaci di trarre vantaggio dalla manifestazione della propria debolezza (vedi per esempio Fleabag o lo stesso Transparent), è anche vero che il punto di forza di I Love Dick è proprio l’aver moltiplicato il personaggio della protagonista in un ventaglio di altri caratteri che, pur nella loro autonomia narrativa, funzionano come tanti possibili sviluppi della Chris scritta. Una “composizione” che sul piano formale è rafforzata dal montaggio di inserti, disseminati in tutta la serie, tratti da lavori di cineaste femministe come Chantal Akerman, Carolee Schneemann, Maya Deren o Annie Sprinkle, per citarne solo alcune.

 

We are not far from your doorstep…

Se nella versione televisiva de Il racconto dell’ancella Difred diventa June, in quella di I Love Dick Chris diventa non solo Dick (e Sylvère attraverso Dick), ma anche Toby, Devon, Paula, Natalie, Geoff, Suki… Tanto che nel quinto episodio, A Short History of Weird Girls, diretto da Soloway e liberamente ispirato al capitolo Monsters, anche le altre donne protagoniste scrivono la loro lettera a Dick, idea peraltro molto apprezzata da Kraus (sul sito ufficiale wewillnotbemuzzled.com chiunque può scrivere e postare la sua lettera a Dick, ed esiste anche un tumblr di selfie col libro).
Le parole di Chris, Devon, Paula e Toby funzionano come tanti piccoli saggi di “filosofia performativa”, per citare la Kraus del libro, che allestiscono una macchina mostruosa dove Dick finisce con le spalle al muro, incalzato delle voci e degli sguardi di tutte le Chris che lo desiderano, incontrano, adulano e infine perdono tra le parole che, dicendosi fra loro, ci dicono molto più di loro che di lui. Chris cerca in Dick anche un modo per rimettere insieme la “cesura cyborg” che si porta addosso fra mente (lei per Sylvère) e corpo (lei per Dick); Devon (l’eccelsa Roberta Colindrez) fin da piccola desiderava avere gli stivali e il cappello da cowboy di Dick per impersonare la sua identità di genere; la gallerista Paula, femminista radicale come la madre, vede in Dick l’opposto che l’attrae ma al contempo la spaventa; per Toby, che studia storia dell’arte applicata ai porn studies, che flirta con Sylvère e ha un’infatuazione per Devon, Dick è il maschio dominante col cazzo duro come le sue opere di acciaio e cemento, l’artista di successo da raggiungere e superare.

Quello che Toby scrive a Dick nel finale della sua lettera, quando lo avvisa di stare attento che “siamo arrivate a un passo dalla sua porta”, Chris lo mette letteralmente in scena nel finale, quando dopo il primo fallimentare incontro in albergo con Dick (in realtà istigato da Sylvère), si rifugia a casa sua dopo essere sprofondata dentro la sua piscina insieme alle proprie allucinazioni. Con addosso una camicia a scacchi e un paio di jeans asciutti di Dick che, nota Chris, le calzano alla perfezione, durante la cena che Dick le prepara e che in un certo senso inverte i presupposti di quella iniziale, Chris gli chiede di parlarle del suo ultimo lavoro di Land Art, che ha visto arrivando, domandandogli se abbia personalmente spostato i massi che lo compongono. Dick, nel ruolo del genio che concepisce le opere ma non si sporca le mani a farle, risponde che no, non riuscirebbe a muovere i massi da solo, lui ha fatto solo i bozzetti, di spostare i massi si occupano i ragazzi con le loro macchine montacarico. È a questo punto che Dick chiede a una Chris spontaneamente dubbiosa e critica cosa ne pensi dell’opera, rivelandole anche il fallimento del proprio progetto di fuga dalla vita newyorchese per il deserto di Marfa.

Chris è chiaramente infastidita da Dick “messo a nudo”, dalla canzone che lui sceglie per lei, dal piatto di pasta che le cucina, perché è qui che si accorge dell’inesistenza del suo mito. Anche quando la sera chiacchierano davanti al fuoco, e Dick la bacia per primo e poi la trascina in camera da letto, Chris si sente strana, è quasi spaventata, non sta affatto bene. Ma è quando Chris si toglie di dosso i vestiti di Dick e resta (ma quanto diversamente!) nuda di fronte a lui, quando ci si aspetterebbe che stiano finalmente per scopare, è a questo punto che Soloway & C. escogitano un finale magistrale e inaspettato, che restituendo tutto il suo senso al libro lo amplifica, persino, superandolo. Dick sta accarezzando il sesso di Chris, la sente bagnatissima, ed è convinto di essere lui a eccitarla così tanto, ma quando si guarda la mano e la vede piena di sangue prima rimane interdetto, e poi corre in bagno, schifato, a lavarsi.

A Chris sono venute le mestruazioni: ed è col sangue che le cola fra le gambe, e il cappello di Dick in testa, che Chris prende la porta di casa e se ne va, mentre lui ancora in bagno cerca di togliersela di dosso, senza capire che, invece, è lei ad averlo fatto, e a potere, adesso sì finalmente, scrivergli la sua ultima lettera, mentre col corpo di tutte le donne che sono lei traccia la sua strada nel cuore del deserto che c’è ancora tutt’intorno.

 

 

 

 


[1] June è l’unico nome pronunciato all’inizio del libro tra le ragazze nel dormitorio del Centro Rosso che poi non riappare fra i personaggi, e i lettori hanno quindi supposto che fosse il nome della protagonista, supposizione mai rifiutata da Atwood, ma neppure esplicitamente condivisa. Nel film del 1990, invece, il nome di Difred è Kathe.

[2] Esclusa forse Samira Wiley, già attrice di Orange is the New Black e qui nei panni di Moira, l’amica del cuore di Difred.

[3] Fondamentale la scena in cui Toby, che con Chris condivide l’appartenenza di classe, allestisce una performance all’aperto in cui rimane completamente nuda davanti allo sguardo rapito ma anche inconsapevole di un gruppo di operai del luogo, performance in cui l’affermazione dell’identità di genere della protagonista resta in secondo piano rispetto all’ostentazione della sua libertà di azione legata al suo sprezzante privilegio di classe. È con il Prof. Silvère, tra l’altro, che Toby gioca a flirtare, quasi che l’infatuazione per l’ispanica Devon, la cui famiglia vive a Marfa da generazioni lavorando anche nelle terre di Dick, fosse per lei solo una parentesi “esotica” della sua residenza-studio.

“Io sono le altre”: note (trans)femministe su Il Racconto dell’Ancella e I Love Dick (parte I)

Sotto i loro occhi

Quando nel 1871, l’anno della Comune di Parigi, Arthur Rimbaud scriveva la Lettera del Veggente e si allontanava dall’Io come fondamento del linguaggio poetico affermando “Je est un autre”, si diceva convinto che anche la donna, una volta affrancata dal dominio maschile di quest’io “abominevole” avrebbe saputo attingere a un mondo fatto di “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”, finalmente viva “per sé e grazie a sé”. Può sembrare improprio scrivere di uscita dall’io a proposito di due libri che, come Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale) di Margaret Atwood e I Love Dick di Chris Kraus, sono incentrati su una narrazione quasi claustrofobica in prima persona, eppure le cose strane, ripugnanti e deliziose che tutt’e due in modi diversissimi raccontano, e l’energia “mostruosa” che li pervade, si portano dietro tirandolo fuori da sé anche l’io narrante, femminile e singolare, delle protagoniste. Un aspetto brillantemente reso, quando non addirittura potenziato, dal recente adattamento televisivo di I Love Dick nella serie ideata, co-sceneggiata e co-diretta per Amazon da Jill Soloway (già nota al pubblico per il successo di Transparent, il suo personale I Love Dick), e invece non solo trascurato, ma a tratti anche capovolto di segno, nella serie tratta da Il racconto dell’ancella, prodotta da Bruce Miller per Hulu.

Atwood inizia a scrivere Il racconto dell’ancella nel 1984 (il libro esce in Canada l’anno dopo); Reagan è stato eletto al secondo mandato, e i pesanti tagli alla spesa sociale, la massiccia campagna anti-droghe, la stigmatizzazione dell’omosessualità e dell’AIDS, l’aumento esponenziale del terrorismo pro-life, trovano eco nella distopia del libro, insieme a molteplici riferimenti storici, dal puritanesimo all’apartheid, dal progetto nazista Lebensborn alle politiche sulla maternità forzata di Ceausescu. Non è difficile comprendere, dunque, la popolarità di cui ha goduto la prima stagione della serie, oggi che l’inasprirsi dei conflitti razziali e delle politiche anti-immigrazione, la retorica della maternità da un lato e le controversie intorno alla maternità surrogata dall’altro, e una crescente limitazione del diritto all’aborto, sembrano riportarci indietro di decenni.

Il racconto dell’ancella è una testimonianza che racconta “dall’interno” ciò che accade quando la Repubblica di Galaad instaura nel New England una teocrazia militare ispirata all’Antico Testamento, che assegna alle donne precise mansioni rigidamente regolate. Ci sono le mogli, le econo-mogli, le figlie, le “zie”, le escluse confinate nelle Colonie (donne che hanno fallito nel compito di ancelle, che si sono ribellate alle regole di Galaad o hanno contravvenuto alla norma eterosessuale), ma soprattutto le ancelle: a questo ruolo sono “educate” le poche donne fertili ormai rimaste, che private di tutti i loro legami e averi, nonché del nome – ogni ancella diventa del suo Comandante, come la protagonista Di-Fred [Offred], che è anche “colei che si offre [offered]” ogni mese nel rito della Cerimonia –, dopo il tirocinio nel Centro Rosso sono affidate per due anni, o almeno finché riescono a concepire un figlio, alle famiglie sterili dei Comandanti.

Le vesti colorate dei personaggi – rosse per le ancelle, blu per le mogli, marroni per le zie e così via – definiscono la gerarchia dei ruoli sociali, ma servono ad Atwood anche per costruire una sequenza di scene in cui tutto appare saturo e bidimensionale (alquanto dubbia, infatti, la scelta del color grading della serie, che vira tutto verso toni verdognoli e aranciati). Difred vede tutti quelli intorno a sé come sagome: Serena Joy, la moglie del Comandante, le sembra un’etichetta di prodotti per capelli, il Comandante un’acquaforte di propaganda, Luke, il marito da cui con la figlia è stata forzatamente separata tentando la fuga da Galaad, una litografia pubblicitaria, le altre ancelle una fantasia di pastorelle olandesi su una tappezzeria; persino Nick, la Guardia personale del Comandante con cui Difred ha una relazione, è descritto come un idolo di cartone. In questo susseguirsi di quadri sempre uguali si staglia anche la silhouette rossa di Difred, che di sé ci fornisce pochissimi tratti, e che – ma solo nel libro – non ci rivela mai il suo nome: chiusa dentro una stanza-cella dove assiste alla vita da una finestra, Difred non riesce a ricordare com’è lei vista da fuori, ormai spossessata della propria identità dallo sguardo costante degli Occhi – le spie di regime disseminate dappertutto.

Scriversi

Quanto “essere viste ci impedisce di essere”, si domanda Soloway a proposito del personaggio di Chris Kraus in I Love Dick? Se Difred si sente come una cavia in trappola, Kraus fa di sé sia la cavia sia l’osservatore del proprio stesso esperimento. Decisamente meno popolare del libro di Atwood, I Love Dick, che esce nel 1997[1] e si svolge tra il 1994 e il 1995 (al presente sullo schermo, come Il racconto dell’ancella), è un miscuglio di romanzo epistolare, memoir, critica d’arte, pamphlet politico, scritto quasi interamente in prima persona, che prende avvio da una cena di lavoro in cui Chris-personaggio, come nella vita al fianco del marito accademico Sylvère in qualità di “moglie di” (nonostante abbia già scritto diversi testi e combatta per il suo riconoscimento come cineasta sperimentale), conosce Dick e se ne infatua all’istante. Nel libro, Dick è un professore universitario in cui si è riconosciuto, prendendone subito le distanze, il sociologo e mediologo Dick Hebdige, che sullo schermo diventa invece un artista minimalista (interpretato da Kevin Bacon) ispirato a Donald Judd[2] – anche per questo la serie è ambientata a Marfa, Texas, invece che in California.

Kathryn Hahn nel ruolo di Chris sullo schermo.

Nonostante ogni parola di Chris sia rivolta o ruoti attorno a lui, nel libro Dick è praticamente un non-personaggio, un destinatario muto delle lettere che i due coniugi gli scrivono – risponderà solo alla fine e con un’unica lettera indirizzata a Sylvère (ennesimo tentativo di tagliar fuori Chris dal discorso). Se la serie ha bisogno di costruire stereotipicamente Dick fin da subito per decostruire al contrario Chris, a partire dalla cena iniziale che nel libro poco più di un pre-testo e sullo schermo è dilatata fino alla parodia, il vuoto “narrativo” che Dick lascia nel testo serve invece a fare spazio alle parole di Chris. Infatti, “se nessuno s’interessa a quello che hai da dire”, scrive Kraus, “allora puoi dire qualsiasi cosa”: Chris è letteralmente ossessionata da Dick, ma perché Dick diventa la possibilità stessa della sua scrittura straripante, che parte da lui per occuparne gli spazi di parola alla radice, stravolgerne e penetrarne la semantica, e invertire i presupposti della storia.

Chris si sottrae in questo modo al processo di spossessamento e cancellazione del soggetto femminile: memorabili le sue note su Louise Colet, la poetessa con cui Flaubert ebbe per anni una relazione e che “usò” per la figura di Emma Bovary; e le pagine su Hannah Wilke, fra le più belle del libro e fra le più belle mai dedicate all’artista, in cui Kraus racconta anche i tentativi di “cancellarla” del compagno, l’artista pop Claes Oldenburg.

Needed Erase-Her è il titolo di un ciclo di lavori della metà degli anni ’70 in cui Hannah Wilke impiega gomma da cancellare per modellare sculture vaginali, come in precedenza ha già fatto con le chewing-gum masticate.

Tuttavia, non temendo di mostrarsi incoerente ed emozionale, verbalizzando quello che prova con precisione analitica e trasportandolo violentemente fuori dal chiuso della sfera personale (nella serie appende le lettere come fossero volantini per le strade di Marfa), Chris occupa il luogo dell’Io per uscirne subito dopo, a partire dal rifiuto di una sua condizione fondamentale, ovvero la credibilità della prima persona.

Sia per Chris che per Difred, che pur per ragioni diverse si ritrovano nell’impossibilità di agire, raccontare assume infatti una funzione soprattutto performativa, piuttosto che soltanto espressiva. “Attendo. Mi compongo. Io adesso sono una cosa che devo comporre, così come si compone un discorso”, scrive Difred. Quanto di quello che leggiamo è una rievocazione, quanto invece una ricostruzione? Chi ha registrato i nastri che ci restituiscono la sua storia e di cui apprendiamo nell’epilogo, poi trascritti ed editati? E che fine ha fatto Difred, in che direzione è andata, è stata inghiottita dal buio dentro di lei, o è svanita nella luce fuori di lei?

(continua a questo link)


[1] Il racconto dell’ancella è diventato un bestseller già prima del suo nuovo rilancio grazie alla serie, ha ricevuto numerosi premi e venduto milioni di copie in tutto il mondo, nel 1990 ne è stato tratto un film diretto da Volker Schlöndorff e sceneggiato da Harold Pinter, poi un’opera (2000) e diversi spettacoli radiofonici e teatrali; l Love Dick è stato pubblicato dalla casa editrice indipendente Semiotext(e) fondata dal marito di Kraus, Sylvère Lotringer, e nota soprattutto per il suo lavoro di divulgazione della French Theory negli USA, e riedito da MIT Press nel 2006 con la prefazione di Eileen Myles, ma per esempio nel Regno Unito è uscito soltanto due anni fa.

[2] Anche se, forse per quello che Kraus scrive sulle donne-compagne-di, inclusa se stessa, e soprattutto su Wilke e Oldenburg, mi viene da pensare piuttosto a Carl Andre e alla sua relazione con Ana Mendieta.