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Making planetary s-kin. Pensare con l’astrobiologia (ecologie planetarie e oltre)

 Nel contesto della crisi climatica e dell’Antropocene, la questione della ‘planetarietà’’ e’ riemersa impetuosamente. Originariamente utilizzata dalla teorica postcoloniale bengalese Gayatri Spivak nei primi anni 2000 come figurazione defamiliarizzata della Terra in contrapposizione allo spazio liscio della globalizzazione, la planetarietà’ e’ ritornata recentamente come parte dell’esplorazione di nuovi immaginari per vivere su ‘un pianeta infetto’ (prendo in prestito qui la traduzione del titolo di Donna Haraway).

E’ innegabile che la crisi ambientale sia una condizione planetaria, con effetti che tuttavia appaiono irregolari e differenziati e particolarmente visibili nel sud globale. Ma nel ripensare il legame umano con la Terra, quale concezione del pianeta stiamo mobilitando? E come incide la tecnologia su questo esercizio di costruzione di un futuro incerto? Tra le/gli studiose/i che hanno contribuito a ripensare il pianeta, troviamo il filosofo americano William Connolly, il quale ci ha proposto un nuovo umanesimo aggrovigliato (entangled) nel suo libro del 2017 (dal titolo inglese Facing the Planetary); il sociologo francese Bruno Latour, il quale in una recente mostra allo ZKM (visibile qui), ci ha invitato a impegnarci ad ‘atterrare sulla terra’ (landing on earth); e il teorico del design Benjamin Bratton, il quale in un recente manifesto (Terraforming, 2019) che sostiene l’importanza della tecnologia, dell’astrazione e dell’artificialita’, ha postulato la Terraformazione, una tecnica pensata originariamente per pianeti come Marte, come qualcosa che potrebbe essere applicata alla Terra.

In questi titoli e lavori, la questione della distribuzione ineguale delle conseguenze delle attività antropoceniche emerge sporadicamente, ma non e’ al centro del discorso. Se Spivak aveva usato planetarietà come alternativa alla pulsione omogeneizzante della globalizzazione, che leviga le differenze rendendole impercettibili, in questo post suggerisco che questo modo di intendere il ‘globale’ rischia di essere re-icritto nelle narrazioni della planetarità riemerse in relazione alla questione climatica. Il motivo di questa irruzione del ‘globo’ nel ‘pianeta’ ha a che fare con il fatto che la questione ambientale ha portato alla luce la relazione implicita della planetarietà con le scienze naturali, e anche con quelle spaziali.

L’aggettivo ‘planetario’ e’ uno degli elementi fondamentali delle scienze spaziali – quali per esempio l’astronomia, ma anche l’astrobiologia. In astrobiologia, per esempio, che poi è il campo interdisciplinare in cui mi trovo a fare ricerca, da studiosa umanista all’interno del gruppo interdisciplinare AstrobiologyOU, la questione etica e scientifica della protezione planetaria, ma anche quella legale e politica della governance degli spazi oltre i limiti del nostro pianeta, sono dominanti. L’astrobiologia, che si occupa di comprendere l’origine della vita nell’universo, e per estensione di come vivere con forme di vita altre, e’ uno dei punti del triangolo che disegno in questa conversazione che coinvolge gli studi sociali (come gli studi postcoloniali e i Science and Technology Studies) e filosofici sull’ecologia nella costruzione del pianeta.

Questa conversazione vuole mettere in luce le problematiche che si annidano nell’immaginare il pianeta come una sfera delimitata e coesa – un’immagine che richiama alla mente l’astronave terra (o ‘spaceship earth’). Se consideriamo che la teoria di Gaia di Lynn Margulis e James Lovelock deve alla NASA gran parte del suo supporto nei primi e tribolati anni della sua ideazione, appare chiaro che l’immagine della Terra come astronave e il pensiero ecologico della Scienza del Sistema Terra (Earth System Science o EES) sono legate a doppio filo.

In un’essenziale rilettura di Spivak nel contesto dell’utilizzo della teconologia per creare una mappatura del pianeta attraverso l’uso di sensori e della scienza amatoriale, Jennifer Gabrys dimostra che, attraverso il concetto di planetarietà, Spivak aveva operato un’apertura verso un tipo di ambientalismo capace di decentrare il soggetto umano.1 Gabrys mette in primo piano la dimensione locale ed effimera delle ecologie delle relazioni e performa una ‘critica del tipo di ambientalismo veicolato dalla scienza dei sistemi della Terra, colpevole di promuovere una prospettiva sul pianeta fittizia e totalitaria’, legata ad un universalismo di stampo coloniale.2 Questa critica investe l’idea di Gaia come singolo organismo, al contempo promossa da Lovelock e opposta da Margulis, e i discorsi ambientalisti che si fondano su una concezione della Terra come spazio unico e coeso.

Il lavoro di Gabrys interroga Concezioni della planetarità basate su punti di vista totalizzanti, poiché non rispondono alla critica di Spivak di quei punti di vista che astraggono gli/le agenti dalla materialità – e quindi dall’asimmetria – delle relazioni. Questi problemi sono comuni alle scienze spaziali, all’Earth System Science e al tecno-ottimismo applicato alla geo-ingegneria.3

Making Skin

Nel libro-manifesto Terraforming, Bratton rivendica apertamente l’astrazione del globale come parte integrante di un pensiero planetario. Bratton sostiene che è solo grazie alle tecnologie attive su scala globale, quali la computazione necessaria alla costruzione dei modelli climatici o la rilevazione di dati attraverso i satelliti, possiamo comprendere lo stato di ‘salute’ del pianeta. La tecnologia globale e’ necessaria non solo alla comprensione, ma anche alla sopravvivenza del pianeta. Questa tecnologia e’ astratta ma non non immateriale; e’ un’ecologia in se’: l’ecologia dell’automazione. Il problema che emerge pero’ e’ che in questo punto di vista decentrato, le asimmetrie dei rapporti di potere che influiscono sulla creazione di un sapere planetario, rischiano di restare celate.

Dato che la ricerca sullo spazio e l’astrobiologia sono fondamentalmente mediate dalle tecnologie e rese visibili attraverso un accumulo di dati, cosi’ come Lisa Messeri ha ben dimostrato in relazione alla visualizzazione degli esopianeti (in Placing Outer Space, 2016), suggerisco che i discorsi (astro)ambientalisti contemporanei non decostruiscono abbastanza l’astrazione della finitezza dei pianeti per permettere l’emergenza di altri modi di vivere con ecologie molteplici sulla terra, nella sua orbita e oltre.

Un esempio di questa macro-prospettiva e immaginazione sferica al lavoro e’ fornita dal progetto Planetary Skin (pelle del pianeta): una partnership tra NASA e CISCO lanciata nel 2009 e finalizzata alla creazione della più grande rete di sensori al mondo. L’immagine della pelle del pianeta suggerisce che la Terra viene continuamente ridefinita mentre viene accerchiata da dati trasmessi da una miriade di punti dati e sensori, mentre si rafforza l’idea che i dati contribuiscano alla costruzione di uno strato materiale esterno allo spazio che chiamiamo Terra.

Questa visione, se da una parte mette in evidenza che i confini esterni della Terra non vanno dati per scontati, continua a fare affidamento su un modello sferico che sottende alla conoscenza Europea, coloniale e rinascimentale dell’astronomia. L’astrobiologia però può mobilitare l’immagine della pelle-skin attraverso il lavoro di Lynn Margulis sulle micro-ecologie planetarie, che ci permettono di vedere il pianeta come un sistema aperto fatto di relazioni complesse. Un po’ come la pelle animale, popolata da diverse comunità batteriche che ne fanno un’ecologia in se’, la pelle del pianeta non va vista come protezione dell’individualità del pianeta Terra. E’ invece una figura della differenza che rappresenta la pluralità e l’interconnessione propria della biosfera, laddove la biosfera si estende oltre l’orbita terrestre.

Making Kin

In questa prospettiva, l’ecologia che emerge rimanda alla molteplicità postulata dalla filosofa Isabelle Stengers (in Cosmopolitics I, p.32), e mette in evidenza la necessita’ di insistere su modi di coabitare e relazionarsi con la differenza. Per Stengers, un meccanismo fondamentale di costruzione dell’ecologia e’ la simbiosi. Se per Margulis la simbiosi e’ la chiave per comprendere l’evoluzione terrestre, in astrobiologia e’ spesso considerata come un modo di migliorare le possibilità di sopravvivenza in ambienti estremi.

Localizzare la simbiosi sulla pelle del pianeta, in particolare nel contesto della catastrofe climatica, e’ un modo di spiazzare le visioni totalizzanti della computazione globale e della geo-ingegneria. Il suggerimento e’ un cambiamento di prospettiva: via dalle macro-tecno-ecologie, o dal pianeta come singolo organismo, per avvicinarsi alle micro-ecologie di batteri, funghi etc che occorrono all’interno e oltre lo spazio che chiamiamo biosfera. Questa visione estende la relazionalità intrinseca in quello che Gabrys chiama ‘diventare planetari’. Utilizzando la celebre frase di Donna Haraway, Making kin (fare parentele) e’ un contrappunto necessario, non una sostituzione, all’immagine della pelle, a making skin (fare pelle), del pianeta.

Diventare planetari’ in un modo diverso rispetto alle logiche estrattive del capitalismo significa riconoscere l’agency distribuita di agenti umani, non umani e tecnologici che costituiscono il pianeta oltre il globo, e rigettare visioni totalizzanti e coloniali. Questa lezione che viene dagli studi postcoloniali e il pensiero ecologista femminista e’ fondamentale per ripensare la relazione tra il nostro pianeta e il cosmo. Nel 2018, l’astrobiologa Lucianne Walkowicz ha organizzato un evento intitolato ‘diventare interplanetari’ alla Library of Congress. L’evento e’ stato fondamentale per aver re-iscritto la storia del colonialismo all’interno dei dibattiti sull’estendersi delle attività umane oltre la terra e sull’astro-ambientalismo. A partire da questi lavori, e’ necessario ripensare l’ecologia politica interplanetaria in modi che spiazzano il binarismo tra Terra e altrove che e’ alla base di fantasie antropocentriche di colonizzazione.

Bio:

Alessandra Marino ha conseguito il suo dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono presso l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, ed è al momento ricercatrice all’interno del gruppo AstrobiologyOU all’Open University (Regno Unito). Si interessa dell’etica dell’esplorazione dello spazio e delle pratiche della ricerca scientifica che sottendono alla disciplina dell’astrobiologia. E’ co-investigator del progetto DETECT (fondi dell’Agenzia Spaziale inglese), che utilizza tecnologie che derivano dalla ricerca spaziale per il monitoraggio ambientale.

 

 (immagine in evidenza: Lena Vargas, Astral Ring (2020)

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 La citazione e’ tradotta e tratta da Introduzione alla Planetologia Comparata di Lukas Likavcan (vedi: https://strelkamag.com/en/article/introduction-to-comparative-planetology )

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 L’astrobiologia stessa non ha ancora sfruttato al massimo il suo potenziale nel fornire alternative a geografie imperanti che si basano sull’idea che i pianeti siano sfere chiuse e gli unici spazi che contengono vita. Sono diverse le teorie che legano la vita terrestre a un’origine cosmica, per esempio a causa dell’impatto di meteoriti provenienti da altri corpi celesti. Tuttavia molti dei discorsi ambientalisti nella disciplina(come l’idea di Charles Cockell dei ‘parchii planetari’) non guardano alle interrelazioni cosmiche ma restano focalizzati su pianeti o frazioni di pianeti, riproducendo l’idea che i pianeti siano delimitati oggetti Galileiani (una critica di questi modelli sferici e’ presente nelle Lezioni su Gaia di Latour, ma non ho tempo qui di riprodurla).

Su Navjot Altaf – o su quello che una mostra (da sola) non può fare

“Lost Text” (2018); stampe fotografiche su carta fissate su dibond; 63.5×50.8; particolare dell’installazione. Foto: PAV.

di Alessandra Ferlito

 

“Diversi frammenti dei diari che ho scritto nel corso degli anni, durante i periodi trascorsi nel Bastar, sono stati trascritti digitalmente. Poi sono stati corrotti, convertendo il testo in un mix arbitrario di numeri, alfabeti, simboli, segni di interpunzione e segni diacritici (accenti acuti), insieme ad alfabeti di molte lingue moderne – dall’alfabeto latino, al cirillico a quello greco. Il risultato è profondamente criptico. […] Ancora abbastanza interessanti, i disorganizzati frammenti di trame verbali – ulteriormente spezzettati dalla memoria selettiva del computer, […] conducono narrazioni o spingono a scavare i significati nascosti e crearne di nuovi, in prima istanza imprevisti.”
(Navjot Altaf 2019)

 

 

 

Nel testo che segue troverete delle pagine di approfondimento che potrete aprire cliccandoci sopra;
sono indicate in rosso e grassetto:
vicenda biografica e artistica di Navjot Altaf;
alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo;
il cortocircuito che mi ha provocato la visione della mostra
.


Il Parco Arte Vivente di Torino presenta una mostra intitolata Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation – la prima personale in Italia dell’artista e attivista indiana Navjot Altaf. Vado a vederla convinta che mi darà da pensare. Conclusa la visita comincio a prendere qualche nota. Nel frattempo mi trattengo a Torino; le rivolgo occhi e orecchie, la respiro, la tasto timidamente.

La mostra fa parte di un ciclo dedicato ai paesi asiatici, ideato da Marco Scotini – curatore di fama internazionale, teorico e docente che da anni presta attenzione alle molteplici prospettive che, a livello planetario, mettono in discussione l’ordine coloniale e il pensiero egemonico di stampo patriarcale, bianco e occidentale. Dopo avere presentato mostre per me decisamente interessanti, come The White Hunter/Il cacciatore bianco e Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, qui Scotini offre spazio all’intersezionalità. Nel percorso di Altaf, infatti, postcoloniale e femminismo procedono simultaneamente alla lotta di classe e a quella ecologista. Proprio a questa simultaneità di intenti si riferisce il termine hindi Samakaalik. Il resto del titolo parla forte e chiaro: abbiamo a che fare con l’incontro tra questione ecologica/ambientale e femminismo, cioè con l’ecofemminismo. Andando oltre la sintesi estrema di questa etichetta, la mostra mi parla delle possibilità concrete di un cambiamento. Mi fa vedere che delle alternative alle logiche dello sviluppo capitalista possono esistere: in più parti del mondo ci sono “comunità resistenti” che le praticano. Allo stesso tempo, essa dimostra che in questi processi di mutamento, la tecnica e la tecnologia possono avere un ruolo creativo e non-distruttivo, e che l’atto creativo/artistico può avere un ruolo fondamentale e diventare un atto (deleuziano) di resistenza alla morte.

Nel corso di un’intervista rilasciata in occasione dell’evento torinese, Altaf racconta le ragioni del suo impegno politico e sociale attraverso l’arte, affermando, da una parte, che quest’ultima può essere strumentalizzata dalla politica e, dall’altra, che essa è sempre politica. Inoltre, secondo lei, più le attività artistiche risultano inclusive e più le persone possono iniziare a porsi domande e a partecipare attivamente. Partendo da questi assunti, osserverò i metodi della ricerca-attivista che Altaf ha sperimentato negli anni, per interrogare, in seconda battuta, il potenziale discorsivo delle mostre ‘politiche’ nell’attuale contesto culturale-sociale-politico italiano. Se mi dedico a questo esercizio è perché credo che il lavoro di Altaf riesca – simultaneamente – a documentare (voci di minoranze altrimenti silenziate; contraddizioni altrimenti sotterrate), svelare (le menzogne dei discorsi patriarcali dominanti e la violenza del progresso tecnico e tecnologico proposto dal capitalismo) e suggerire (nuove domande, forme di resistenza e auto-determinazione che non escludono il ricorso all’estetica, alla tecnica e tecnologia). In altre parole, perché penso che dalla sua esperienza si possano trarre alcuni spunti preziosi per qualsiasi pratica di lotta che voglia agire in termini anche estetici, per qualsiasi processo creativo che voglia porsi come gesto politico.

In alto: “Lost Text” (2018), stampe fotografiche su carta fissate su dibond; installazione che riproduce il lavoro nella sua forma originale. In basso: “Insect Logos” (1972); 26 stampe su carta, riproduzioni dei disegni originali.

Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo: l’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica; lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati; la necessità di rifiutare le posizioni identitarie affrancandosi dai purismi che impediscono la contaminazione; la spinta a sfidare le strategie perverse della cattura capitalista.

La pratica artistica e di attivismo di Altaf ha sempre stimolato una ri-negoziazione costante e costantemente condivisa. Per lei è indispensabile smarcarsi dal ruolo identitario delle etichette, sconfinare tra ambiti e discipline, disfare i linguaggi e le gerarchie. Le questioni appena accennate mi tornano, invece, familiari se penso al contesto italiano, dove il dibattito sulla “politicizzazione dell’estetico” e la “estetizzazione del politico”, da Benjamin in poi, non ha mai smesso di affannare teorici, artisti, storici, critici, curatori. Pure in Italia, la tendenza a non riconoscere il valore estetico-discorsivo di alcune pratiche di attivismo esiste e resiste tra gli ambienti dell’arte ufficiale, dove esse vengono lette per lo più come forme di assistenzialismo sociale o umanitario, o di mediattivismo. In ogni caso, nulla che abbia a che vedere con il fare arte. Allo stesso modo, spesso i movimenti hanno difficoltà a riconoscere la politicità intrinseca di alcune pratiche e ricerche artistiche, che finiscono per essere considerate, nel migliore dei casi, come forme di estetizzazione del politico, oppure peggio, di complicità al regime di rappresentazione; di certo, non come forme di resistenza. Questa fedeltà alle etichette e ai ruoli prescritti, la reciproca miopia e antipatia che essa quasi automaticamente produce, fanno sì che l’incontro tra arte e attivismo non sia poi così frequente; eppure, quando è esistito e quando ancora avviene, esso riesce a produrre esiti imprevisti e non-appropriabili.

Concordo nel pensare che non si tratta di chiedersi “in che modo gli artisti ci possono aiutare a costruire movimento o indicarci nuove strade per fare politica, mettendo a disposizione dei nostri occhi banali e spenti, di cittadini comuni, la loro lungimiranza eccezionale, la loro potenza visionaria, il loro intuito avanguardista” (Revel 2009, p. 56). Credo che dovremmo continuare a guardare l’arte contemporanea come a un’istituzione in cui emergono gli elementi di un governo biopolitico (Baravalle 2009, pp. 12-13). E condivido l’urgenza di mettere in crisi gli spazi e i meccanismi istituzionali della sussunzione, di ri-modularsi collettivamente e costantemente per eludere la cattura di senso e valore, la normalizzazine dei discorsi e delle forme. Per ricordarlo con le parole di Piero Gilardi, artista, attivista e fondatore del PAV, “una narrazione di senso politico è accettata sul mercato. Tuttavia, quando un messaggio politico viene accettato dal mercato significa che è stato neutralizzato attraverso il suo inquadramento nell’estetica. […] ed è proprio questa sovrastruttura estetica ciò che permette a dei messaggi politici di essere commercializzati.”
Proprio le vite artistiche e politiche di Altaf e Gilardi, però, mi suggeriscono più di ogni altra cosa che dovremmo problematizzare l’aut-aut come metodo e interrogarci sulle possibilità che l’incontro tra arte e attivismo ancora oggi potrebbe offrire.

Navjot Altaf, “Body City Flows” (2015), video realizzato per Geographies of Consumption / The City as Consumption Site: Bombay / Mumbai, progetto d’arte pubblica curato dal Mohile Parekh Center; 15′.

Gli argomenti che propongo risalgono in buona parte a quelli della critica alle istituzioni che dagli anni Sessanta in poi ha riempito, a livello globale, molte pagine, eventi, manifesti politici e culturali. Da quel momento il rapporto tra rappresentanza e rappresentazione è profondamente mutato e “non c’è più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il Museo, il Partito, il luogo del Lavoro, etc.), piuttosto […] un’attitudine a difendersi e a uscire da esso […]. “Exit” […] non “Voice”: abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d’intervento, di immagini costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di autoorganizzazione, di empowerment.” (Scotini 2009, p. 101). Oggi le condizioni generali sono ulteriormente cambiate e ancor più complicate; il coloniale non è mai morto e ciò di cui abbiamo bisogno sono visioni e pratiche che ci aiutino a resistere alla tossicità dell’antropocene e del capitalocene. Perciò, a maggior ragione, credo che una relazione costante – non-formale e non-gerarchica – tra arte e attivismo, oggi più che mai, vada auspicata e incoraggiata. Lo penso tutte le volte che visito una mostra che si fa vanto dei suoi contenuti sociali o politici ma che allo stesso tempo, per elaborarli, non ha fatto altro che espropriare e inquadrare le soggettività che di quei contenuti diventano forzatamente dei meri oggetti-contenitori (vedi le numerose ‘vittime’ prodotte da certe pratiche “artiviste” o dalle mostre pseudo-antirazziste della sinistra multiculturalista, ancora alla ricerca della “autenticità africana”, o sulla migrazione o sui soggetti socialmente “deboli”). Lo penso quando alcuni spazi dell’attivismo sembrano soffrire di scarsa visionarietà, quella per cui non si riescono a sperimentare forme, modi e linguaggi insoliti, non-previsti, non-catturabili (le esperienze transfemministe e queer fanno quasi sempre eccezione). Soprattutto, lo penso quando mi muovo in contesti più contaminati, dove l’artista e l’attivista non sono più figure sacre o etichette da sfoggiare, ma pratiche e modi indipendenti da ogni vincolo e orpello, che non si definiscono, non si identificano, si mettono in gioco e si lasciano spiazzare dall’imprevedibilità di ogni incontro. Per tornare al dunque, lo penso quando visito mostre come quella di Altaf – anche se fatta per lo più di riproduzioni al posto di opere originali: l’aura dell’unicità è evaporata e si è portata via il pregiudizio dei puri. Le tecnologie digitali e le tecniche hanno dato il loro contributo disintossicante. L’artista ha abbandonato il piedistallo. La dissacrazione è compiuta.


Quale potenziale discorsivo potrebbe, allora, avere una messa in scena della defezione, della disobbedienza, della protesta? (Marco Scotini)

In un saggio del 2009 in cui parla del suo progetto Disobediencean ongoing videoarchive, Scotini si interroga sul significato della disobbedienza (sociale) e sul senso del mettere in mostra il dissenso. Allo stesso tempo, l’autore individua alcune pratiche e immagini “costituenti”: quelle che rifiutano la rappresentazione verticale del potere in senso classico, a favore di concatenamenti trasversali, multipli, eterogenei, in grado di produrre immagini alternative alle produzioni semiotiche ufficiali e costitutive di una realtà sociale differente. Dalla scrittura di quel saggio sono trascorsi più di dieci anni, durante i quali il curatore ha continuato a disseminare il suo contributo critico prestando attenzione alle esperienze politicamente e socialmente costituenti presenti in Italia (incredibilmente attiva dagli anni Settanta in poi) e nel resto del mondo. Mentre oggi è del tutto irrilevante stabilire se la pratica di Altaf possa definirsi o meno “costituente” o se essa abbia il diritto di entrare nell’archivio delle pratiche disobbedienti, a partire dai contenuti della sua mostra, mi sembra più interessante tornare a chiedersi “se le forme di presentazione di una mostra politica possano sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica, azione comunicativa”. È importante capire – continua Scotini – fino a che punto possano forzare i limiti del sapere disciplinato; fino a che punto trasformarlo in un campo di scontro simbolico.

“How Perfect Perfection Can Be” (2015); stampe fotografiche su carta, dibond, documentazione delle mappe originali, disegni ad acquerello concepiti per essere esposti insieme ai video (riproduzioni degli originali).

Che significato può assumere e quale potenziale discorsivo può esprimenre il soggetto “resistente” di Altaf, tutt’altro che subalterno, in un paese in cui si fa ancora fatica a riconoscere il proprio passato coloniale; in cui un vero processo di defascistizzazione non si è mai compiuto e l’impronta economica, sociale e culturale è quella capitalista, classista, sessista, razzista, specista? Oppure non è solo una questione di forma, e dovremmo invece interpellare anche la capacità di ascolto, ricezione e analisi da parte del pubblico?
Ad argomentare delle risposte mi aiuta in parte Judith Butler, quando riprende Susan Sontag per parlare di “obbligazione etica”, ovvero della nostra capacità di rispondere a distanza in maniera etica alla sofferenza, e di cosa rende possibile questo incontro etico, quando esso ha luogo:

“[…] ciò che sta accadendo è così lontano da non investirmi di nessuna responsabilità? Oppure, al contrario, ciò che sta accedendo mi è tanto vicino da costringermi a occuparmene? Se non ho causato io, in prima persona, questa sofferenza, vuol dire che non ne sono in alcun modo responsabile? […]”
(Butler, L’alleanza dei corpi, p. 162).

Che tipo di risposta etica può provocare la mostra di Altaf nel suo pubblico? La sua forma di presentazione non è rivoluzionaria, anzi, riprende un modello globalmente consolidato e riconosciuto. Eppure, personalmente, la sua visione mi ha provocato un cortocircuito lento e progressivo, scattato nel momento in cui i suoi contenuti si sono sovrapposti all’attuale situazione politica italiana – quella di governo, da una parte, e quella dei movimenti, dall’altra.

Tornando a Butler: certamente “oggi sappiamo cosa significa sentirsi invasi e sopraffatti da immagini che fanno appello ai nostri sensi; ma lo siamo anche da un punto di vista etico?”. E poiché sappiamo che le immagini sono in grado di sopraffarci e paralizzarci, è possibile, invece, “sentirsi sopraffatti, ma non paralizzati? […] la sopraffazione che subiamo può, in qualche modo, disporci all’azione?” (Idem, pp. 161-64).
La risposta può essere si. A patto, però, che si comprenda che “ciò che accade lì accade anche qui” (Idem, p. 193). Pertanto, anche la domanda di Scotini può avere un esito positivo, ma solo stando alla stessa condizione. Ovvero, una mostra politica come quella di Altaf può sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica – può disporci all’azione – indipendentemente dalla sua forma di presentazione, a patto che chi la osserva, completandone il significato, sia capace di stare in ascolto, mettere in dubbio la cultura a cui sente di appartenere, i limiti e i condizionamenti ai quali è soggetta. Solo se chi la riceve è in grado di rallentare, concedersi del tempo, fare 2+2, comprendere che e qui non sono poi così distanti; che tra quello che sta succedendo e quello che sta succedendo qui ci sono dei nessi profondi – che, a saperli cogliere e analizzare, potrebbero rivelarsi sconcertanti. L’arte, la curatela, l’attivismo, fanno la loro parte. Una mostra – come qualunque essere vivente animato o inanimato, come qualsiasi movimento sociale o politico – ha ragione di esistere solo nella relazione col suo ambiente circostante – animato o inanimato. Ma da sola, cosa può fare?


Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.

Postcoloniale, Queer e Femminista: traduzione della prefazione di Denise Ferreira Da Silva ‘Toward a Global Idea of Race’ 1 Marzo 2018, ore 16.30

Dopo il seminario dell’8 febbraio dedicato a Critique de la raison negre di Achille Mbembe, il 1 marzo 2018 alle ore 16.30 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si terrà il secondo appuntamento del ciclo di seminari ‘Postcoloniale, Queer e Femminista: Percorsi di lettura per una vita nonfascista‘ organizzato dalla Technoculture Research Unit (Centro di Studi Postcoloniali e di Genere, Università L’Orientale). Insieme a Silvana Carotenuto e Claudia Bernardi, parleremo di un altro saggio di filosofia nera, cioè il volume della filosofa e teorica afrobrasiliana Denise Ferreira da Silva Toward a Global Idea of Race (Minnesota University Press, 2007)

Toward a Global Idea of Race è un’archeologia del sapere che colma in maniera necessaria e acuta quell’enorme vuoto nella critica foucauldiana che riguardava il rapporto tra l’emergere dell’Uomo come figura del soggetto e l’individuazione dei suoi Altri sulla base di quello che Da Silva chiama ‘l’arsenale simbolico del razziale’. Da Silva parte dunque dal problema costituito dal fatto che la ‘morte del soggetto’ o dell’uomo, annunciata dal pensiero postmoderno e proseguita nella teorizzazione del postumano, non ne ha provocato la scomparsa. Per Da Silva, il ‘fantasma’ del soggetto, cioè di quella costruzione del soggetto postilluminista che incarnava i principi di universalità e auto-determinazione, continua a infestare il presente con i suoi strumenti e con il materiale usato originariamente nel suo assemblaggio. Lungi dal costituire un elemento che arriva dopo la costituzione del soggetto post-illuminista e degli strumenti della ragione universale, e che sarebbe definito esclusivamente dalla sua ‘esclusione’, il razziale definisce dall’interno la differenza tra il soggetto libero e auto-determinato (che lei chiama ‘trasparente’) e quello che invece è in qualche modo sempre oggetto del sapere e soggetto alle leggi della (sua) natura.

In un serrato confronto con la filosofia moderna, le scienze umane e sociali, gli studi postcoloniali e le teorie critiche sulla razza, Ferreira insiste che il razziale costituisce il dispositivo discorsivo e scientifico principale attraverso cui il soggetto europeo postilluminista si è costituito la sua libertà (auto-determinazione e trasparenza o invisibilità) e che per smontare quello che lei definisce l’arsenale della razza bisogna confrontarsi con il sapere scientifico e non solo con il discorso storico. Se oggi appunto il sapere scientifico (pensiamo all’uso dei Big Data per produrre nuove mappe del sociale e trovare nuovi ‘leggi’ che lo determinano) è egemone rispetto a quello storico (associato con le inutili scienze umane), e se inoltre le nuove macchine computazionali che producono l’infrastruttura tecnosociale contemporanea incarnano il diventare processuale della ragione (come software e computazione), allora il focus di Da Silva sulla scienza e sulla ragione ci sembra fondamentale.

Per Da Silva,  il nomos produttivo (cioè la ragione in quanto principio regolatore del mondo che ho sostituito il volere divino e la magia) ha risposto al problema di come difendere il soggetto umano dalla minaccia di essere determinato dall’esterno da leggi scientifiche rendendo questo soggetto da un lato trasparente (non problematizzato, invisibile) e dall’altro costituendo uno spazio globale in cui distribuire i popoli che invece sono soggetti alla determinazione delle leggi della ragione universale. I discorsi razziali che circolano sulla rete testimoniano il modo in cui ancora il globale rimane lo spazio della differenza razziale (sotto il nome di differenza culturale) diviso tra soggetti auto-determinati e moralmente superiori (europei e bianchi) e soggetti razzializzati. I soggetti razzializzati sono sempre moralmente e socialmente (culturalmente) sospetti nella misura in cui a loro si offre l’opzione odi diventare completamente come ‘noi’ (assimilarsi oppure ‘essere obliterati’ secondo Da Silva) o rimanere segregati nelle ‘loro’ regioni del mondo o quartieri (ghetti e banlieu) secondo quella che Da Silva, nella sua analisi della sociologia delle relazioni razziali della scuola di Chicago, chiama la ‘sociologica dell’esclusione”. E allora è un caso che al primo Global Community Summit di Facebook dedicato ai gruppi e ai loro amministratori non ci siano le iniziatrici del movimento Black Lives Matter (Patrisse Cullors, Opal Tometi, e Alicia Garza)?

E’ questa socio-logica inoltre che spiega per Da Silva la sistematicità dello sterminio dei neri e degli scuri di pelle (quelli che in inglese si chiamano i black and brown people) come un effetto della differenza culturale e razziale, e che catalizza lo shock al pensiero prodotto dall’immagine seriale e ripetuta del corpo nero (maschio e giovane) che cade sotto i colpi da sparo della polizia.. Quest’immagine che nella sua ripetitività ha scatenato negli Stati Uniti il movimento #blacklivesmatter si trova non a caso anche in un altro importante saggio della critica nera e femminista contemporanea, In the Wake: On Blackness and Being di Christina Sharpe, in cui la questione del trauma originario del middle passage ma anche di tutti i successivi lutti e morti diventa centrale. All’inizio dell’archeologia del razziale assemblata da Da Silva, non troviamo più la rappresentazione pittorica dell’emergere del soggetto moderno, come ne Las Meninas di Diego Velasquez nelle prima pagine d Le Parole e le cose di Foucault, ma la serialità di un corpo nero o scuro che cade sotto i colpi di pistola e del suo dialogo (immaginario) con i poliziotti che lo uccidono. Da Silva ci chiede di soffermarci su queste domande: cosa significa pensare la nascita della modernità e la morte del soggetto a partire dal razziale come significante della differenza umana e costitutivo dello spazio globale? Perché la nozione di ‘differenza culturale’ come sostiene Da Silva, non ha fatto che replicare gli effetti del razziale (la trasparenza dell’occidente e l’affettabilità dei suoi altri?) Perchè i soggetti non-trasparenti (cioè soggetti a una determinazione esterna) sono sistematicamenti preclusi dalla presunta universalità del diritto? E inoltre, nelle parole di Da Silva, come razionalizza e spiega il sapere sociale scientifico l’omicidio continuo della gente di colore?

A seguire proponiamo dunque una breve traduzione (a cura dell’autrice di questo post) delle prime pagine di Toward a Global Idea of Race invitando chi ci legge e chi può a raggiungerci all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli l’1 Marzo alle ore 16.30. Vi invitiamo anche a rileggere la traduzione di Beatrice Ferrara di ‘Differenza senza Separazione’ di Da Silva sempre su questo blog, dove la ‘differenza culturale’ (per Da Silva il nome contemporaneo per la differenza razziale) viene affrontata dal punto di vista delle concezioni del tempo e dello spazio della fisica newtoniana, della teoria della relatività e della fisica quantistica – proponendo che concetti come ‘nonlocalità’, ‘incertezza’ e ‘entanglement’ possono rappresentare nuovi indicatori poetici per ripensare la differenza oltre la separabilità.

Prefazione: Prima dell’evento

La nostra generazione è morta quando i nostri genitori sono nati

BRUNO, MASCHIO NERO, ETA’ 18 (META’ ANNI 90)

Quel momento che cade tra il rilascio del grilletto e la caduta di un altro corpo nero, di un altro corpo scuro, e di un altro ancora… infesta questo libro. Che si può fare? Catturare questo momento e mentre si ricorda, ri-significare e ri-configurare quello che si trova a monte di questi momenti elusivi. Forse, se si formulano delle domande o nomina un problema? Che tipo di spiegazioni sono state messe insieme? Quando è diventato scontato, cioè una verità scientifica, un fatto di esistenza globale, che le generazioni sono morte a un certo punto nei primi anni 60? Come mai così tante generazioni sono morte mentre io nascevo? Chi è morto? Perché? Ci sono troppe risposte a queste domande… Ascoltami… leggimi…

Sono morto.

Sei giovane e nero. Vivi in un quartiere dove il crimine prospera. Togliamo le armi dalle strade, arrestiamo pericolosi criminali. Succede che vivi in un posto che ha il tasso più alto di omicidi e stupri. Noi abbiamo lavorato bene. Ci siamo avvicinati al tuo palazzo, ci sei sembrato sospetto; ci siamo fermati, siamo usciti dalle nostre macchine con le nostre pistole, e ti abbiamo detto di alzare le mani. Abbiamo sparato. Siamo la polizia. Siamo stati addestrati molto bene a fare il nostro lavoro.

Sono un immigrato. Lavoro. Ho i miei documenti. Vivo qui perché costa poco. Appartengo a un’ importante famiglia africana. Perché mi avete ucciso?

Sei nero, sei maschio e sei giovane. Non ne sappiamo niente di importanti famiglie africane. In Africa i neri vivono nelle capanne, cacciano e raccolgono durante il giorno, mangiano e cantano la notte, e si ammazzano tutto il tempo. Lì non c’è domani. Stai meglio qui. Perché stai morendo? Tu sei nero e giovane. Sei in carcere o in libertà condizionata. I liberali dicono che l’America è una società razzista. Dicono che i neri e gli scuri di pelle sono o totalmente senza lavoro o concentrati nei lavori peggio pagati; dicono che i datori di lavoro non assumono i giovani maschi neri. Voi siete il sottoproletariato: gente senza futuro, gente che non si sa comportare perché le istituzioni – famiglie, imprese, chiese e così via – hanno lasciato i ghetti insieme alla classe media che ha approfittato delle discriminazioni positive per trovare lavori migliori e posti migliori in cui vivere. Tu spacci. Tu sei uno stupratore. Tu sei un criminale. Tu potresti persino essere un terrorista. Noi ti cacciamo dalle strade. Se non ti arrestiamo, ti spareremo, con tutti i proiettili necessari.

Io sono un Fulani.

Sei in America adesso. Questa non è l’Asia o l’Africa. Qui è diverso. Alcuni radicali dicono che la gente come te non ha possibilità. Tu sei nero. Non ci piacciono i neri. Dicono che l’America è la terra della supremazia bianca. Non è solo che non ti assumiamo, ma anche che tu ci aiuti a creare un legame tra gli Americani bianchi. Tu fai funzionare il sistema.

Ma se io faccio tutto ciò… perché mi uccidete? Se mi tenete semplicemente nel ghetto, se non ho una scuola decente, un lavoro decente, diritti sociali… Voi avete tutte le risposte. Voi mi conoscete. Perché avete bisogno di uccidermi? Non vi basta essere bianchi?

In questo libro mi confronto con l’apparato di sapere – gli strumenti scientifici del sapere razziale – che produce questa domanda… Contro l’assunto che l’elemento storico costituisce il solo contesto ontologico, esamino il modo in cui gli strumenti dei progetti scientifici ottocenteschi hanno prodotto la nozione del razziale che istituisce il globale in quanto contesto ontoepistemologico – un gesto violento e produttivo necessario a sostenere la versione post-illuminista del Soggetto come la sola cosa esistente che si auto-determina. L’arsenale dei saperi che in questo momento governa la la configurazione globale (giuridica, economica, e morale) istituisce l’assoggettamento razziale mentre presuppone e postula che l’eliminazione dei suoi ‘altri’ è necessaria per la realizzazione dell’esclusivo attributo etico del soggetto, cioè l’auto-determinazione.

Nel corso di questo libro produco uno scavo della rappresentazione moderna mentre cerco di afferrare il ruolo produttivo che il razziale gioca nelle condizioni post-illuministe. Ogni parte del libro descrive un momento particolare di questa impresa. In primo luogo, considero il contesto di emergenza, e l’irrisolto problema ontologico che infesta la filosofia moderna dal primo diciassettesimo fino al primo diciannovesimo secolo, cioè proteggere l’uomo, l’essere razionale, dai poteri vincolanti della ragione universale. Questa lettura rivela che tutto ciò è stato fatto scrivendo il soggetto come una cosa storica e auto-determinata – una soluzione temporanea consolidata solo alla metà dell’Ottocento, quando l’uomo è diventato un oggetto del sapere scientifico. Secondo, la mia analisi del regime di produzione del razziale mostra come le scienze umane e sociali hanno affrontato questo problema ontologico fondamentale usando la differenza razziale come un attributo costitutivo dell’umano. Questa soluzione istituisce l’enunciato più basilare dell’assoggettamento razziale: mentre gli strumenti della ragione universale (le “leggi della natura”) producono e regolano le condizioni umane, in ogni regione globale, essa stabilisce (moralmente e intellettualmente) diversi tipi di essere umani, nominalmente, il soggetto auto-determinato e i suoi altri determinati da forze esterne, coloro le cui menti sono soggette alle loro condizioni naturali (nel senso scientifico). Precisamente questo enunciato, sostengo, sottende l’argomento basilare della sociologia delle relazioni razziali, cioè, che le cause della subordinazione degli altri d’Europa risiede nelle loro caratteristiche fisiche e mentali (morali e intellettuali) e il postulato che la soluzione al problema dell’assoggettamento razziale richiede l’eliminazione della differenza razziale. Infine, la mia analisi dei suoi effetti di significazione mostra come questo enunciato e gli strumenti scientifici che lo sostengono informano la costruzione prevalente dei soggetti statunitensi e brasiliani. In questi scritti, gli strumenti storici e scientifici producono contemporaneamente il soggetto nazione come un essere auto-determinato mentre circoscrivono la regione morale subalterna (altro-determinata) abitata dai membri non-Europei della comunità nazionale.

Dietro questo libro c’è il desiderio di comprendere perché e come dopo un secolo di confutazioni, il razziale sembra governare incontrastato la configurazione globale contemporanea. Spero che la mia critica della rappresentazione moderna dimostri che la forza politica del razziale risiede nel fatto che costantemente (ri)produce l’enunciato fondativo ontologico moderno. Ogni uso del razziale consistentemente articola l’attributo speciale dell’uomo, l’auto-determinazione, mentre fa esistere e contemporaneamente disconosce quello che significa altri-menti, annunciando la sua necessaria eliminazione. Poiché la spiegazione prevalente dell’assoggettamento razziale segue anch’essa questo mandato ontologico, non ci sorprende che oggi è usata in spiegazioni che sminuiscono le morti violenti della gente di colore, mentre un’infinita evidenza scientifica sociale le rende non solo scontate (in quanto risultato dell’esclusione giuridica e economica) ma anche giustificate (in quanto l’esito previsto della traiettoria della coscienza altro-determinata). Sento la domanda: come giustifica il sapere sociale scientifico l’omicidio della gente di colore? La mia risposta è: come spiega questo omicidio l’arsenale delle scienze sociali? Nelle prossime pagine offro una risposta temporanea a tutto ciò.