“Quando mi guardo indietro sento che le mie scelte hanno definito la mia estetica e la mia politica.”
(Altaf 2019)
Navjot Altaf è nata nel 1949 a Meerut; oggi vive e lavora a Mumbai e Bastar. Parlare della sua pratica senza richiamare la sua biografia renderebbe il racconto monco, perché quello che fa come artista è, da sempre, inscindibilmente legato alla sua quotidianità di attivista. In quasi tutte le opere esposte al PAV questo legame emerge in modo molto esplicito. Mi soffermerò principalmente su queste.
La prima sala oltre l’ingresso ci porta negli anni Settanta, con un’installazione del 2018: “Wheelers Book Stall Re-visited“, una struttura di pannelli in cui sono esposti 63 manifesti fronte/retro, prodotti a partire da testi rielaborati insieme ad altri due membri del PROYOM (Progressive Youth Movement) – il collettivo politico universitario di Bombay al quale Altaf, “per la mancanza di giustizia sociale” che osserva tutti i giorni, si iscrive nel 1972.[1]
La pratica dell’attacchinaggio di manifesti politici sui muri della città era molto frequente in quegli anni, ed era un modo per comunicare con gli abitanti in modo immediato. Mentre oggi a Mumbai questa pratica è proibita e “la cultura del fare domande”, in India, è minacciata dai partiti di estrema destra dominanti, Altaf torna a riflettere sulle tipologie dei testi utilizzati per affrontare questioni come l’autoritarismo, il fascismo, la resistenza civile, i diritti, le questioni di genere, la violenza sessuale, la libertà di parola, la giustizia.[2] Sensibile alle politiche di sfruttamento della terra, la sua riflessione iniziale si concretizza dunque nella militanza politica a supporto delle minoranze e delle specie oppresse. Nel corso del tempo, poi, la posizione marxista viene declinata nelle istanze del femminismo, in chiave soprattutto ecologista.
A una lettura analitica dell’attività di Altaf ci pensa Nancy Adajania, teorica culturale che individua tre fasi principali tra gli anni Settanta e Novanta. La prima è connotata dalla realizzazione di dipinti a olio (1972-74); la seconda si distingue per la predominanza di disegni a penna e a inchiostro (fino al 1983); la terza per l’esplorazione di acquerelli e acrilici, fino alla metà degli anni Novanta.[3] Concluso questo decennio, poi, l’artista si rivolge anche ai mezzi offerti dalle tecnologie audio-visive, che le permettono di documentare i processi ai quali prende parte (dunque di diffondere queste storie altrimenti ignorate), ma anche di sperimentare un linguaggio visivo – poetico e simbolico – che può essere condiviso e compreso. Soprattutto, dagli anni 2000, Altaf cambia approccio. Quello che era iniziato come un gesto nominalista per rappresentare l’altro, diventa adesso una ricerca di comunicazione equa. Il suo interesse spazia tra contesti urbani e rurali e la sua pratica si sperimenta in progettualità sempre più ampie, complesse e a lungo termine.
Determinante in questo senso la scelta di trasferirsi, dopo il ’98, da Mumbai a Kondagaon, nella regione di Bastar (Chhattisgarh – India centrale). Qui, dopo il 2000, insieme a Rajkumar Korram, Shantibai e Gessuram Mandavi, tre artisti Ādivāsī (“abitanti originari” di Bastar), Altaf è co-fondatrice di un artist-run centre, DIAA – Dialogue Interactive Artists Association, un progetto di pratica sociale che permette di analizzare il sistema attraverso interventi artistici da realizzare insieme alle comunità locali. Parte dell’attività si realizza con il Dialogue Centre, che propone laboratori con i giovani delle scuole locali e l’organizzazione di seminari chiamati Samvad, in cui la popolazione locale come agricoltori, avvocati, attivisti è invitata a lottare assieme ad artisti, attivisti culturali e teorici, storici dell’arte, scrittori, giornalisti, funzionari pubblici, insegnanti. Le formule partecipative, collaborative e orizzontali, fondate sulla possibilità di creare relazioni democratiche e sostenibili tra gli esseri umani e con il resto del pianeta diventano così una sorta di proposta metodologica. Un metodo ‘rivoluzionario’ nella sua capacità di generare vere e proprie “comunità resistenti”, animate da “coloro che sono svegli, che comprendono i sistemi di dominazione, colonizzazione, espropriazione capitalista, idea di sviluppo e di interesse per profitti a breve termine per pochi e ad ogni costo.”[5] Come nella visione ecofemminista, a fare parte di queste comunità sono gli umani e i non-umani.
Il video “Soul Breath Wind” (2014-18) rende questa concezione molto esplicita. Al centro dell’attenzione sono le condizioni di vita nelle aree minerarie del sud del Bastar, dove l’artista ha lavorato per anni insieme alle comunità locali. Nell’arco di un’ora, Altaf ci fa assaporare la complessità delle vicende (umane, sociali, politiche) che stanno attraversando queste terre; ci informa sulle ricadute materiali delle scelte politiche sulle vite delle persone; ritrae i mutamenti; riporta i conflitti interni, passati e presenti, le resistenze attuali e le prospettive per il futuro. La proiezione è su doppio canale; da una parte scorre la visione dell’artista, resa attraverso riflessioni personali e citazioni.[6] Dall’altra, le voci delle persone intervistate. Tra queste incontriamo contadini, artigiani, funzionari pubblici. Ciascuno riporta il proprio punto di vista, le proprie ragioni, i propri timori e desideri (qui la trascrizione di alcuni frammenti di discorsi).
Quando non ritraggono i volti intervistati, le immagini ci fanno viaggiare tra panorami semideserti, terre pronte a essere sventrate, in corso di trasformazione o già trasformate; oppure ci offre il suo rapporto ravvicinato ed empatico con vegetali e animali, luci, suoni. Nel testo che descrive il lavoro, Altaf chiarisce anche la sua posizione estetica. Riprendendo il pensiero di Bateson (1978), l’autrice risponde alla cultura della non-sostenibilità, sempre crescente, con una “estetica della sostenibilità”, che indaga i significati e le implicazioni delle ingiustizie, in modo pluralistico, e promuove un approccio umile nei confronti dell’ambiente non-umano.”[7]
I suoni dei paesaggi attraversati in questi anni di ricerca in Bastar sono diventati, in occasione dell’allestimento al PAV, anche un’installazione sonora che si può ascoltare all’aria aperta: “Reminescent“ (2019) è un montaggio di brani provenienti dall’archivio dei viaggi dell’artista, con conversazioni, suoni ambientali, urbani e non; ciascuna voce rimanda a un’altra e un’altra ancora, e tutte insieme alimentano il senso della simultaneità evocata nel titolo della mostra.
Nello stesso cortile dedicato all’ascolto c’è un’altra installazione, stavolta scultorea. Si tratta della riproduzione di un canale di scarico costruito nel distretto di Bastar da una comunità resistente di indigeni, colpita dallo sfruttamento governativo. Un processo a cui Altaf ha partecipato sin dal 2000 e che l’ha portata a contatto sempre più stretto con la tecnica: tecniche dell’artigianato, dell’edilizia, della tessitura, di coltivazione,ecc. Il processo è ancora in corso ed è documentato anche nel ciclo fotografico intitolato “Nalpar“. Oltre che nella partecipazione attiva alla trasformazione di pompe manuali per l’approvvigionamento dell’acqua, il gruppo di lavoro formato da Altaf e gli artisti indigeni Rajkumar Korram, Shantibai, Gessuram e Gangadevi, si è impegnato a “elaborare esteticamente questi spazi pubblici frequentati da donne, bambini e uomini di tutte le età.” Per il gruppo, ci spiega l’artista, è stato importante formalizzare l’estetica di questi luoghi collettivamente, sulla base dell’interpretazione del significato dei segni, dei simboli e degli oggetti utilizzati dalle comunità.
Parte di questo percorso lungo, tortuoso, faticoso e senza garanzie è sempre stata la presenza femminista, anche laddove essa non è enunciata. Altaf racconta che la sua comprensione del femminismo non è partita da letture teoriche, ma attraverso l’osservazione e le discussioni tra le donne partecipanti agli incontri politici. Più tardi arriva anche la teoria, con l’analisi delle femministe occidentali: Griselda Pollock, Rozsika Parker, Linda Nochlin, Lucy R. Lippard, Hélène Cixous, Luce Irigaray; ma poi anche Vandana Shiva e soprattutto gli studi femministi di Susie Tharu e K. Lalita, dedicati alle scrittrici indiane.
Nel video “Trail of Impunity” (2014) la questione femminista è particolarmente evidente – nella scelta delle persone a cui è affidata la narrazione (altre due donne si confrontano insieme all’autrice), ma anche nei sintomi patriarcali che emergono dalla discussione. L’oggetto del confronto è il massacro del Gujarat (India centrale). Qui, nel febbraio 2002 un quartiere musulmano venne invaso dalla comunità induista a seguito di un incidente attorno a cui il governo di Hindu Narendra Modi, oggi primo ministro dell’India, costruì il suo casus belli. Nel video, a parlare di questa trappola è Teesta Setalvad (giornalista e attivista dei diritti civili), la quale chiarisce che dietro all’azione molto bene organizzata ed equipaggiata della comunità induista si nascosero le intenzioni e gli interessi di soggetti molto più potenti. Ovvero, si trattò di una cospirazione architettata dai funzionari del governo, dalla politica e dalle forze di polizia, intenzionati a eliminare le minoranze. La testimonianza di Rupa Mody, l’altra interlocutrice, sopravvissuta al massacro, conferma questa tesi ricordando la totale mancanza di reazione da parte delle forze dell’ordine, nel momento in cui vennero chiamate a intervenire in soccorso dei musulmani. La sera del massacro, Mody si trovava infatti in casa di Eshan Jafri, membro del Congresso e mediatore tra comunità islamica e induista, oggi ricordato insieme alle altre 68 vittime.
Per Altaf, questo lavoro è una critica alla violenza, una riflessione sulle “forme di vita” e sulla “presenza di umanità nell’essere umano.” Il tema della ghettizzazione e oppressione delle minoranze offre lo spunto per introdurre nella conversazione una prospettiva di genere; la questione dell’impunità della politica è centrale e si intreccia a quello della complicità che i poteri dominanti riescono a estorcere per soddisfare i propri interessi. La discussione diventa, così, un momento per ribadire la necessità di costruire forme di coinvolgimento in grado di generare una lotta unitaria, in cui artisti, operatori del sociale e membri delle diverse comunità siedono allo stesso tavolo e hanno lo stesso peso. La loro proposta femminista insiste sull’importanza di stimolare processi di collaborazione non finalizzati alla vendetta ma a un cambiamento radicale di prospettiva; fondati sul senso di empatia anziché su logiche identitarie e divisive.
[1] Gruppo affiliato al CPI (ML), il Partito comunista indiano, di orientamento marxista-leninista. Comprendeva studenti di vari college e università di Bombay, docenti e accademici, economisti, giornalisti, cineasti e alcuni artisti visivi. La genesi di PROYOM si fa risalire a una serie di eventi successivi alla rivolta di Naxalbari del 1967, una “rivolta contadina militante” organizzata nel nord del Bengala Occidentale.
[2] Navjot Altaf, Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation, libretto della mostra – PAV Torino, 2019, p. 7.
[3] Nancy Adajania, “Dreaming of the Revolution: How politics shaped the art of Navjot Altaf”, in The Thirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf, Bombay: The Guild Art Gallery, 2016.
[5] Chiara Lupi e Elvira Vannini, “Why do Indian feminists unlike the western feminists not voice the same anger? Intervista a Navjot Altaf”, in Hot Potates, 30.10.2019.
[6] “(…) il conflitto causato dalle potenti forze corporative e politiche, dalla polizia e dai Naxaliti (ribelli maoisti) è visibile (…)”; “(…) la terra si attorciglia dalla paura”; “Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo. (Gandhi)”.
[7] Navjot Altaf, Samakaalik, cit., p. 27.
Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.
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