Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo:
L’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica.
Nella militanza degli anni Settanta, il collettivo marxista di cui Altaf faceva parte (PROYOM) vedeva l’arte solo come un mezzo di propaganda, rifiutando di riconoscere gli artisti come artisti-attivisti e impedendogli di partecipare al processo decisionale. “C’era una profonda diffidenza nei confronti della dimensione non-illustrativa dell’arte. Noi (artisti) volevamo essere politicamente efficaci, ma non a costo di diluire la complessità della nostra sensibilità estetica.” Questo avrebbe contribuito a farle prendere progressivamente le distanze da qualsiasi criterio gerarchico.
Lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati.
Ancora a proposito degli anni Settanta e dell’attività del PROYOM, Altaf racconta: “Realizzavamo manifesti da affiggere sui muri della città […]. Partecipavamo a manifestazioni politiche, ad esempio, per esprimere solidarietà ai lavoratori dei Textile Mills e al personale dei treni delle ferrovie di Mumbai nella protesta per migliorare salari e condizioni di lavoro. Tutto ciò non è stato considerato una forma d’arte dalla comunità degli artisti, e dai critici.” La stessa accusa di miopia si trova in un commento al più recente progetto site-specific intitolato Barakhamba e realizzato a Nuova Delhi nel 2008. Attraverso la relazione e il dialogo con gli abitanti di Barakhamba Road, l’artista riflette sulle criticità dello sviluppo urbano in atto e le sue inevitabili ripercussioni sulla salute delle persone e sull’ambiente. Anche in questo caso, osserva che “In India solo una piccola percentuale di critici contemporanei si era interessata alla storia e alla critica di una tale pratica, così come pochissimi artisti.”
La necessità di rifiutare le posizioni identitarie; di affrancarsi dai purismi che impediscono la contaminazione; di sfidare le strategie perverse della “cattura” capitalista.
Nel corso degli ultimi due decenni, Altaf ha sperimentato metodi di confronto, co-ricerca, co-creazione sempre diversi a seconda delle istanze e criticità dei contesti in cui ha agito. Allo stesso tempo, avendo compreso che nessuna forma di comunicazione o di discorso è del tutto priva di pregiudizi o di asimmetrie di potere, nel suo lavoro ha abilmente utilizzato dispositivi astrattisti per esprimere i limiti e le insidie della comunicazione. La domanda comune, in ogni caso, è stata: “possono gli individui appartenenti a classi ed etnie diverse comunicare, lavorare insieme, creare una solidarietà politica e produrre significati culturali condivisi?” . La risposta la troviamo nella sua pratica, che ha prediletto le formule inclusive fondate sul dialogo tra tutte le soggettività coinvolte, comprese le autorità. L’artista crede infatti che le istituzioni vadano sensibilizzate affinché la loro percezione di certe pratiche culturali possa cambiare. Nel corso dell’ultimo decennio, la sua presenza all’interno delle istituzioni dell’arte (dai musei alle biennali) non è rara e crea, tutte le volte, una “interruzione” delle rappresentazioni egemoniche.
[1] Le citazioni provengono da: Dipti Nagpaul D’souza, “Remains of the Day”, in The Indian Express, 20.03.2016; Prajna Desai, “Speaking Out”, in Frieze, 17.11.2016; Nancy Adajania, “Dreaming of the Revolution: How politics shaped the art of Navjot Altaf”, in TheThirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf, Bombay: The Guild Art Gallery, 2016. Le traduzioni dall’inglese sono mie.
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