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Su Navjot Altaf – o su quello che una mostra (da sola) non può fare

“Lost Text” (2018); stampe fotografiche su carta fissate su dibond; 63.5×50.8; particolare dell’installazione. Foto: PAV.

di Alessandra Ferlito

 

“Diversi frammenti dei diari che ho scritto nel corso degli anni, durante i periodi trascorsi nel Bastar, sono stati trascritti digitalmente. Poi sono stati corrotti, convertendo il testo in un mix arbitrario di numeri, alfabeti, simboli, segni di interpunzione e segni diacritici (accenti acuti), insieme ad alfabeti di molte lingue moderne – dall’alfabeto latino, al cirillico a quello greco. Il risultato è profondamente criptico. […] Ancora abbastanza interessanti, i disorganizzati frammenti di trame verbali – ulteriormente spezzettati dalla memoria selettiva del computer, […] conducono narrazioni o spingono a scavare i significati nascosti e crearne di nuovi, in prima istanza imprevisti.”
(Navjot Altaf 2019)

 

 

 

Nel testo che segue troverete delle pagine di approfondimento che potrete aprire cliccandoci sopra;
sono indicate in rosso e grassetto:
vicenda biografica e artistica di Navjot Altaf;
alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo;
il cortocircuito che mi ha provocato la visione della mostra
.


Il Parco Arte Vivente di Torino presenta una mostra intitolata Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation – la prima personale in Italia dell’artista e attivista indiana Navjot Altaf. Vado a vederla convinta che mi darà da pensare. Conclusa la visita comincio a prendere qualche nota. Nel frattempo mi trattengo a Torino; le rivolgo occhi e orecchie, la respiro, la tasto timidamente.

La mostra fa parte di un ciclo dedicato ai paesi asiatici, ideato da Marco Scotini – curatore di fama internazionale, teorico e docente che da anni presta attenzione alle molteplici prospettive che, a livello planetario, mettono in discussione l’ordine coloniale e il pensiero egemonico di stampo patriarcale, bianco e occidentale. Dopo avere presentato mostre per me decisamente interessanti, come The White Hunter/Il cacciatore bianco e Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, qui Scotini offre spazio all’intersezionalità. Nel percorso di Altaf, infatti, postcoloniale e femminismo procedono simultaneamente alla lotta di classe e a quella ecologista. Proprio a questa simultaneità di intenti si riferisce il termine hindi Samakaalik. Il resto del titolo parla forte e chiaro: abbiamo a che fare con l’incontro tra questione ecologica/ambientale e femminismo, cioè con l’ecofemminismo. Andando oltre la sintesi estrema di questa etichetta, la mostra mi parla delle possibilità concrete di un cambiamento. Mi fa vedere che delle alternative alle logiche dello sviluppo capitalista possono esistere: in più parti del mondo ci sono “comunità resistenti” che le praticano. Allo stesso tempo, essa dimostra che in questi processi di mutamento, la tecnica e la tecnologia possono avere un ruolo creativo e non-distruttivo, e che l’atto creativo/artistico può avere un ruolo fondamentale e diventare un atto (deleuziano) di resistenza alla morte.

Nel corso di un’intervista rilasciata in occasione dell’evento torinese, Altaf racconta le ragioni del suo impegno politico e sociale attraverso l’arte, affermando, da una parte, che quest’ultima può essere strumentalizzata dalla politica e, dall’altra, che essa è sempre politica. Inoltre, secondo lei, più le attività artistiche risultano inclusive e più le persone possono iniziare a porsi domande e a partecipare attivamente. Partendo da questi assunti, osserverò i metodi della ricerca-attivista che Altaf ha sperimentato negli anni, per interrogare, in seconda battuta, il potenziale discorsivo delle mostre ‘politiche’ nell’attuale contesto culturale-sociale-politico italiano. Se mi dedico a questo esercizio è perché credo che il lavoro di Altaf riesca – simultaneamente – a documentare (voci di minoranze altrimenti silenziate; contraddizioni altrimenti sotterrate), svelare (le menzogne dei discorsi patriarcali dominanti e la violenza del progresso tecnico e tecnologico proposto dal capitalismo) e suggerire (nuove domande, forme di resistenza e auto-determinazione che non escludono il ricorso all’estetica, alla tecnica e tecnologia). In altre parole, perché penso che dalla sua esperienza si possano trarre alcuni spunti preziosi per qualsiasi pratica di lotta che voglia agire in termini anche estetici, per qualsiasi processo creativo che voglia porsi come gesto politico.

In alto: “Lost Text” (2018), stampe fotografiche su carta fissate su dibond; installazione che riproduce il lavoro nella sua forma originale. In basso: “Insect Logos” (1972); 26 stampe su carta, riproduzioni dei disegni originali.

Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo: l’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica; lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati; la necessità di rifiutare le posizioni identitarie affrancandosi dai purismi che impediscono la contaminazione; la spinta a sfidare le strategie perverse della cattura capitalista.

La pratica artistica e di attivismo di Altaf ha sempre stimolato una ri-negoziazione costante e costantemente condivisa. Per lei è indispensabile smarcarsi dal ruolo identitario delle etichette, sconfinare tra ambiti e discipline, disfare i linguaggi e le gerarchie. Le questioni appena accennate mi tornano, invece, familiari se penso al contesto italiano, dove il dibattito sulla “politicizzazione dell’estetico” e la “estetizzazione del politico”, da Benjamin in poi, non ha mai smesso di affannare teorici, artisti, storici, critici, curatori. Pure in Italia, la tendenza a non riconoscere il valore estetico-discorsivo di alcune pratiche di attivismo esiste e resiste tra gli ambienti dell’arte ufficiale, dove esse vengono lette per lo più come forme di assistenzialismo sociale o umanitario, o di mediattivismo. In ogni caso, nulla che abbia a che vedere con il fare arte. Allo stesso modo, spesso i movimenti hanno difficoltà a riconoscere la politicità intrinseca di alcune pratiche e ricerche artistiche, che finiscono per essere considerate, nel migliore dei casi, come forme di estetizzazione del politico, oppure peggio, di complicità al regime di rappresentazione; di certo, non come forme di resistenza. Questa fedeltà alle etichette e ai ruoli prescritti, la reciproca miopia e antipatia che essa quasi automaticamente produce, fanno sì che l’incontro tra arte e attivismo non sia poi così frequente; eppure, quando è esistito e quando ancora avviene, esso riesce a produrre esiti imprevisti e non-appropriabili.

Concordo nel pensare che non si tratta di chiedersi “in che modo gli artisti ci possono aiutare a costruire movimento o indicarci nuove strade per fare politica, mettendo a disposizione dei nostri occhi banali e spenti, di cittadini comuni, la loro lungimiranza eccezionale, la loro potenza visionaria, il loro intuito avanguardista” (Revel 2009, p. 56). Credo che dovremmo continuare a guardare l’arte contemporanea come a un’istituzione in cui emergono gli elementi di un governo biopolitico (Baravalle 2009, pp. 12-13). E condivido l’urgenza di mettere in crisi gli spazi e i meccanismi istituzionali della sussunzione, di ri-modularsi collettivamente e costantemente per eludere la cattura di senso e valore, la normalizzazine dei discorsi e delle forme. Per ricordarlo con le parole di Piero Gilardi, artista, attivista e fondatore del PAV, “una narrazione di senso politico è accettata sul mercato. Tuttavia, quando un messaggio politico viene accettato dal mercato significa che è stato neutralizzato attraverso il suo inquadramento nell’estetica. […] ed è proprio questa sovrastruttura estetica ciò che permette a dei messaggi politici di essere commercializzati.”
Proprio le vite artistiche e politiche di Altaf e Gilardi, però, mi suggeriscono più di ogni altra cosa che dovremmo problematizzare l’aut-aut come metodo e interrogarci sulle possibilità che l’incontro tra arte e attivismo ancora oggi potrebbe offrire.

Navjot Altaf, “Body City Flows” (2015), video realizzato per Geographies of Consumption / The City as Consumption Site: Bombay / Mumbai, progetto d’arte pubblica curato dal Mohile Parekh Center; 15′.

Gli argomenti che propongo risalgono in buona parte a quelli della critica alle istituzioni che dagli anni Sessanta in poi ha riempito, a livello globale, molte pagine, eventi, manifesti politici e culturali. Da quel momento il rapporto tra rappresentanza e rappresentazione è profondamente mutato e “non c’è più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il Museo, il Partito, il luogo del Lavoro, etc.), piuttosto […] un’attitudine a difendersi e a uscire da esso […]. “Exit” […] non “Voice”: abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d’intervento, di immagini costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di autoorganizzazione, di empowerment.” (Scotini 2009, p. 101). Oggi le condizioni generali sono ulteriormente cambiate e ancor più complicate; il coloniale non è mai morto e ciò di cui abbiamo bisogno sono visioni e pratiche che ci aiutino a resistere alla tossicità dell’antropocene e del capitalocene. Perciò, a maggior ragione, credo che una relazione costante – non-formale e non-gerarchica – tra arte e attivismo, oggi più che mai, vada auspicata e incoraggiata. Lo penso tutte le volte che visito una mostra che si fa vanto dei suoi contenuti sociali o politici ma che allo stesso tempo, per elaborarli, non ha fatto altro che espropriare e inquadrare le soggettività che di quei contenuti diventano forzatamente dei meri oggetti-contenitori (vedi le numerose ‘vittime’ prodotte da certe pratiche “artiviste” o dalle mostre pseudo-antirazziste della sinistra multiculturalista, ancora alla ricerca della “autenticità africana”, o sulla migrazione o sui soggetti socialmente “deboli”). Lo penso quando alcuni spazi dell’attivismo sembrano soffrire di scarsa visionarietà, quella per cui non si riescono a sperimentare forme, modi e linguaggi insoliti, non-previsti, non-catturabili (le esperienze transfemministe e queer fanno quasi sempre eccezione). Soprattutto, lo penso quando mi muovo in contesti più contaminati, dove l’artista e l’attivista non sono più figure sacre o etichette da sfoggiare, ma pratiche e modi indipendenti da ogni vincolo e orpello, che non si definiscono, non si identificano, si mettono in gioco e si lasciano spiazzare dall’imprevedibilità di ogni incontro. Per tornare al dunque, lo penso quando visito mostre come quella di Altaf – anche se fatta per lo più di riproduzioni al posto di opere originali: l’aura dell’unicità è evaporata e si è portata via il pregiudizio dei puri. Le tecnologie digitali e le tecniche hanno dato il loro contributo disintossicante. L’artista ha abbandonato il piedistallo. La dissacrazione è compiuta.


Quale potenziale discorsivo potrebbe, allora, avere una messa in scena della defezione, della disobbedienza, della protesta? (Marco Scotini)

In un saggio del 2009 in cui parla del suo progetto Disobediencean ongoing videoarchive, Scotini si interroga sul significato della disobbedienza (sociale) e sul senso del mettere in mostra il dissenso. Allo stesso tempo, l’autore individua alcune pratiche e immagini “costituenti”: quelle che rifiutano la rappresentazione verticale del potere in senso classico, a favore di concatenamenti trasversali, multipli, eterogenei, in grado di produrre immagini alternative alle produzioni semiotiche ufficiali e costitutive di una realtà sociale differente. Dalla scrittura di quel saggio sono trascorsi più di dieci anni, durante i quali il curatore ha continuato a disseminare il suo contributo critico prestando attenzione alle esperienze politicamente e socialmente costituenti presenti in Italia (incredibilmente attiva dagli anni Settanta in poi) e nel resto del mondo. Mentre oggi è del tutto irrilevante stabilire se la pratica di Altaf possa definirsi o meno “costituente” o se essa abbia il diritto di entrare nell’archivio delle pratiche disobbedienti, a partire dai contenuti della sua mostra, mi sembra più interessante tornare a chiedersi “se le forme di presentazione di una mostra politica possano sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica, azione comunicativa”. È importante capire – continua Scotini – fino a che punto possano forzare i limiti del sapere disciplinato; fino a che punto trasformarlo in un campo di scontro simbolico.

“How Perfect Perfection Can Be” (2015); stampe fotografiche su carta, dibond, documentazione delle mappe originali, disegni ad acquerello concepiti per essere esposti insieme ai video (riproduzioni degli originali).

Che significato può assumere e quale potenziale discorsivo può esprimenre il soggetto “resistente” di Altaf, tutt’altro che subalterno, in un paese in cui si fa ancora fatica a riconoscere il proprio passato coloniale; in cui un vero processo di defascistizzazione non si è mai compiuto e l’impronta economica, sociale e culturale è quella capitalista, classista, sessista, razzista, specista? Oppure non è solo una questione di forma, e dovremmo invece interpellare anche la capacità di ascolto, ricezione e analisi da parte del pubblico?
Ad argomentare delle risposte mi aiuta in parte Judith Butler, quando riprende Susan Sontag per parlare di “obbligazione etica”, ovvero della nostra capacità di rispondere a distanza in maniera etica alla sofferenza, e di cosa rende possibile questo incontro etico, quando esso ha luogo:

“[…] ciò che sta accadendo è così lontano da non investirmi di nessuna responsabilità? Oppure, al contrario, ciò che sta accedendo mi è tanto vicino da costringermi a occuparmene? Se non ho causato io, in prima persona, questa sofferenza, vuol dire che non ne sono in alcun modo responsabile? […]”
(Butler, L’alleanza dei corpi, p. 162).

Che tipo di risposta etica può provocare la mostra di Altaf nel suo pubblico? La sua forma di presentazione non è rivoluzionaria, anzi, riprende un modello globalmente consolidato e riconosciuto. Eppure, personalmente, la sua visione mi ha provocato un cortocircuito lento e progressivo, scattato nel momento in cui i suoi contenuti si sono sovrapposti all’attuale situazione politica italiana – quella di governo, da una parte, e quella dei movimenti, dall’altra.

Tornando a Butler: certamente “oggi sappiamo cosa significa sentirsi invasi e sopraffatti da immagini che fanno appello ai nostri sensi; ma lo siamo anche da un punto di vista etico?”. E poiché sappiamo che le immagini sono in grado di sopraffarci e paralizzarci, è possibile, invece, “sentirsi sopraffatti, ma non paralizzati? […] la sopraffazione che subiamo può, in qualche modo, disporci all’azione?” (Idem, pp. 161-64).
La risposta può essere si. A patto, però, che si comprenda che “ciò che accade lì accade anche qui” (Idem, p. 193). Pertanto, anche la domanda di Scotini può avere un esito positivo, ma solo stando alla stessa condizione. Ovvero, una mostra politica come quella di Altaf può sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica – può disporci all’azione – indipendentemente dalla sua forma di presentazione, a patto che chi la osserva, completandone il significato, sia capace di stare in ascolto, mettere in dubbio la cultura a cui sente di appartenere, i limiti e i condizionamenti ai quali è soggetta. Solo se chi la riceve è in grado di rallentare, concedersi del tempo, fare 2+2, comprendere che e qui non sono poi così distanti; che tra quello che sta succedendo e quello che sta succedendo qui ci sono dei nessi profondi – che, a saperli cogliere e analizzare, potrebbero rivelarsi sconcertanti. L’arte, la curatela, l’attivismo, fanno la loro parte. Una mostra – come qualunque essere vivente animato o inanimato, come qualsiasi movimento sociale o politico – ha ragione di esistere solo nella relazione col suo ambiente circostante – animato o inanimato. Ma da sola, cosa può fare?


Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.

#iosonogiorgiachallenge: tutorial per una danza memetica di Ricercatore 1 e Ricercatore 2

di Nina Ferrante e Roberto Terracciano

Caro compagno che fai snapshot dai profili di Giorigia Meloni, pensi davvero che sia colpa delle ricchione se Fratelli d’Italia è al 10%? E visto che sai tutto e hai urgenza di spiegarci tutto, potresti anche dirci in che modo il pensiero che siamo una massa informe di capre che ballano al primo ritornello, manipolate dal pensiero dominante, non sia meno omofobo di chi ci accusa di voler corrompere i valori tradizionali del patriarcato e dell’occidente?

Visto che a noi piace ballare, prova a seguire i passi.

Un passo indietro.

La campagna di Pozzi e Pervertiti di Lesbians and Gays Supports the Miners per gli scioperi dei minatori gallesi del 1984 deve il suo nome alla prima pagina del Sun “I pervertiti supportano i pozzi”

Non so se te ne sei accorto, ci chiamiamo frocie, ricchioni, queer. Anche la parola gay nasce da un insulto. Storicamente prendiamo a piene mani dalla merda che provate a lanciarci contro, è la nostra maschera di bellezza. Quello che scagliate con forza, diviene la potenza di quello che vi lanciamo contro. Da sempre. Non era previsto che sopravvivessimo a nessuno di questi attacchi, ma è nella capacità di ribaltare l’insulto che abbiamo trovato gli strumenti per smontare la casa del patriarcato.

Pits and perverts titolò The Sun per ridicolizzare i minatori e banalizzare il loro sostegno da parte delle frocie pervertite. Quello diventò il titolo di un’intera campagna di sostegno ai minatori che ha segnato la storia del nostro movimento e della resistenza al tatcherismo.

Un passo avanti.

Rebus – Individuare le icone gay nel collage.

Cut’n’mix. Tagliare, dare ritmo, doppiare, copiare, incollare, sono operazioni di risignificazione. Funziona così, si prendono delle parole si ritagliano dal loro contesto, si portano altrove, dove non dovrebbero essere, si mettono su bocche che non dovrebbero pronunciarle, su corpi che non dovrebbero danzarle, su gambe che non dovrebbero muoverle. è così che un significante esplode e la deflagrazione cambia non solo il senso di quella parola, ma dell’universo che ha intorno. La parola madre viene pronunciata nelle ballroom su corpi imprevedibili e imprevisti, diventando una parola violenta  che attacca l’essenza del femminile e della famiglia patriarcale.

Un passo a sinistra. 

Il videomeme di Mem&J funziona proprio così, il significante diventa un template vuoto su cui si riscrive l’assurdità del significato. Questo era difficile, te lo facciamo rivedere più piano. Prendi il discorso di Giorgia, donna, madre, cristiana, taglia, aumenta il ritmo a 120 BPM e ripeti n volte. Prendi le parole chiave, carica l’insulto, dallo alla frocia, aumenta la potenza, perverti il significato, pompa nelle casse. Lascialo scorrere nella fibra e aspetta un attimo che lieviti. Il giorno dopo lo troverai rimontato con tutta la cultura popolare prodotta dagli anni ’90 ad oggi, rimpastato con tutti gli oggetti pop di cui non sapevi che fartene fino a quando non ce ne siamo riappropriate.

 

aaaaaaand POSE!

Qui ci spariamo la posa. Nel 1973 (millenovecentoSETTANTATRE) Stuart Hall studiava la cultura popolare identificandola come terreno di conflitto su cui si scontravano i nuovi discorsi egemonici e le corrispettive resistenze. Hall presentò il suo modello di comunicazione aggiungendoci il beat: il messaggio non è determinato da chi lo pronuncia; il basso: la ricezione è luogo di produzione di significato; lo scratch: il messaggio non è trasparente. Il modello encoding/decoding rompe il muro del suono egemonico, ne disvela le falle. La memetica è l’operazione critica del taglio, interrompe il placido fluire del discorso che è già egemonico nella nostra società e, se non ci sono controculture a porre un argine, non è di certo solo colpa delle frocie. Parlare di significati dominanti non significa parlare di processi unidirezionali, ma è un passo a due. Il significato cioè viene messo in ballo: la parte che detiene l’egemonia e, dall’altro lato, quella che resiste, costruiscono la cornice tecnoculturale e politica di interpretazione di quel messaggio stesso, offrendo nuovi strumenti di decodifica. Si spera che questi siano diversi. L’appiattimento avviene quando non ci sono strumenti diversi di decodifica per interpretarli.

…E cinq’, sei, sett’, ott’ Plié! 

Nel taglio e nella ripetizione questa Giorgia fornisce finalmente un’interruzione oltre che un beat a un discorso omofobo e razzista che è già martellante. Nella cultura popolare l’egemonia e la controcultura stanno in conflitto per significare il messaggio e accaparrarselo, in questo senso l’operazione memetica dà opacità all’abiezione di quel discorso non permettendo che s’infili neutralmente nel tessuto della nostra cultura popolare diventando senso comune. Forse ci ha fatto anche bene sentire per la prima volta #donna#madre#italiana#cristiana ripetuti in un unico loop, perché mentre Giorgia rafforza il suo discorso nell’unicità di tutti questi attributi, noi siamo state troppo lente a comprendere come la contestazione debba essere fatta a tutto il pacchetto e non solo ai termini slegati in lotte in lotti.

Saltello (doin’ it for the ‘gram).

I Jackals come Genitori ingenui. Il meme lascia leftbook e diventa un filtro per Instagram.

Non siamo convinte che quello che valeva per la televisione possa accordarsi a ciò che accade nei social media. Però sappiamo dalla teoria della viralità, che nel mare della comunicazione le onde prodotte da #giorgia non procedono indisturbate verso la riva ma incontrano ostacoli che producono increspature in modo non-dialettico e non-deterministico, interferenze di affect che procedono per “invenzione e imitazione, imitazione dell’invenzione e imitazione dell’imitazione”. Allo stesso modo, sul floor politico della cultura pop le sfidanti imitano gli stili e i ritornelli del discorso egemonico e, interferendo l’una con l’altra, lo portano altrove, in un luogo conflittuale. Attraverso la decodifica oppositiva il discorso, quel discorso egemonico, viene finalmente de-naturalizzato e reso visibile, guadagnando così opacità piuttosto che popolarità.

Questo medium fluido e veloce che sta nel palmo della mano e ci vede sempre esposti e immersi in una collettività ci interpella in modo diverso, ma ci interessa recuperare il ritmo di Hall per una critica a un “comportamentalismo spicciolo” che guarda al flusso del messaggio come ininterrotto e al fruitore come ad una scatola vuota. Insomma, ve lo vogliamo dire, la critica a questa collettività danzante ridotta a branco di pecore manipolabili non solo ci sembra una riduzione semplicistica di come funzioni la comunicazione, ma anche vagamente omofoba.

Deathdrop.

Sono anni che contestiamo come nella cultura popolare si sia prodotta un’estetica depoliticizzata dei nostri stili, ma oggi che una nuova estetica queer indirizza al nemico una critica politica, ci viene contestato che rinforziamo la popolarità del nemico in modo acritico, ritenendo che lo strumento o che la contestazione non siano abbastanza affilati? I nostri volti insanguinati, i segni delle botte sui volti delle donne, la diffusione delle immagini di minori salvati con le copertine dorate sono strumenti più acuminati? Cosa è più disturbante? Per chi? Quali sono le emozioni che producono queste immagini? Forse, se avessimo contestato con la stessa ruvidezza chi diceva Io sono Charlie o Io sono Orlando, mentre si producevano discorsi sull’occidente e la nazione oggi non staremmo qui a chiederci se siamo giorgie. Comunque è nella marea transfemminista in cui costruiamo percorsi intersezionali, nelle scuole dove resistiamo ai genitori no gender, contro i summit dei movimenti per la famiglia come Verona, contro i pro-life, dentro e contro i pride che abbiamo i nostri corpi contro il fascismo, il razzismo, il sessismo e l’omofobia, non abbiamo paura di ciò che c’è fuori dalla bolla di Leftbook, perchè è lì che resistiamo tutti i giorni.

 

Hackerare il realismo capitalista: serendipità, innovazione sociale e politiche di emancipazione – Intervista a Sebastian Olma 

Il testo qui pubblicato è la traduzione in italiano dell’intervista di Luca Recano a Sebastian Olma, professore di “Autonomy in Art, Design and Tecnology” presso la “Avans” University of Applied Sciences di Breda e Den Bosch nei Paesi Bassi, pubblicata sul blog dell’Institute of Network Culture.  Alla fine dell’articolo, il titolo e il link dell’intervista originale. Immagine di copertina tratta da K-punk, il blog di Mark Fisher

14/05/2019 – Luca Recano e Sebastian Olma

 Luca Recano: “In Defense of Serendipity” si apre con una prefazione di Mark Fisher, una breve ma densa critica di quella che lui chiama “la grande truffa digitale” . In esso, Fisher afferma che “l’insicurezza generalizzata [precarietà] porta alla sterilità e alla ripetizione, non alla sorpresa o all’invenzione”. Fisher fu il protagonista di una profonda indagine sul malessere della nostra epoca. Cosa pensi quando rileggi le sue parole oggi; dopo che si è tolto la vita e i suoi scritti sono diventati un simbolo di disperazione per coloro che bramano il cambiamento ma si confrontano con l’assenza di alternative al presente?

 

Sebastian Olma: Penso che ciò che Mark Fisher ha detto nella prefazione di In Defense of Serendipity sia ancora valido. Forse ancora di più oggi rispetto a quando l’ha scritto. Intendo questo, nel senso che la sua critica dell’ideologia californiana sta diventando sempre più mainstream. C’è ancora molta propaganda là fuori che celebra le benedizioni delle “smart cities” e delle società digitali e così via, ma è diventato molto più difficile negare l’esistenza della brutale economia estrattiva che tale marketing aziendale vorrebbe mascherare. Quando persino qualcuno come la professoressa della Harvard Business School Shoshana Zuboff arriva a scrivere una critica accanita del “capitalismo di sorveglianza”e dello sfruttamento illecito del “surplus comportamentale” significa che la situazione sta cambiando. Mark ha attaccato incessantemente la propaganda digitale sin dall’inizio e lo ha fatto da una posizione di profondo fascino per la cibernetica e per la cultura (pop) che ha generato. Uno dei motivi per cui il suo libro sul realismo capitalista del 2009 ebbe una risonanza così enorme fu che rivelò che il pipedream digitale faceva parte di una strategia politica reazionaria. Questo era assolutamente cruciale per le persone come me in quel momento perché dimostrava che non tutti avevano perso la testa, non tutti stavano comprando la presa per i fondelli della cloud digitale che organizzazioni come TED e O’Reilly Media ci propinavano.

Se me lo chiedi, penso che sia così, che dovremmo considerare l’eredità intellettuale di Mark. Non c’è nulla nei suoi scritti che indichi sottomissione alla disperazione. Direi che è vero il contrario. C’è un’intensità radiosa nel suo lavoro che è estremamente affermativa nella vita, sempre alla ricerca di crepe in un presente soffocante; crepe che potrebbero condurre verso un possibile futuro. Questo si presenta con particolare vivacità nei suoi ultimi due libri, Ghosts of My Life e The Weird and the Eerie. Se si può parlare di oscurità lì, è sempre quella del presente che deve essere superata. Quindi no, non vedo Mark come un simbolo di disperazione; per me era e rimane un pensatore ferocemente ottimista che ha ispirato così tante persone nella loro convinzione e nella lotta per “un mondo che potrebbe essere libero” come scrive nel suo frammento sul comunismo acido .

 

 L.R Nel libro c’è molta enfasi sul ruolo dei movimenti sociali e della controcultura. Vivi ad Amsterdam, una città che un tempo era famosa per il suo movimento squatter piuttosto avanzato e, allo stesso tempo, per l’innovazione imprenditoriale. Nel libro, si discute della controcultura americana e del suo ruolo nella formazione della cosiddetta ideologia californiana. Cosa diresti sul  ruolo che l’arte, i movimenti sociali e le controculture di oggi svolgono in termini di sviluppo del capitalismo (innovazione, creatività ecc.). Pensi che siano stati completamente assorbiti dal paradigma neoliberale del lavoro creativo e digitale, come sembra sia stato sostenuto dai sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiappello? C’è ancora spazio per l’autonomia e la sperimentazione nei processi di innovazione e, in caso affermativo, a quali condizioni?

 

S.O. Hai ragione a indicare Amsterdam come una città con un certo retaggio storico di apertura culturale e progressismo politico che nella seconda metà del 20 ° secolo si è tradotto in una proliferazione di spazi per la sperimentazione subculturale. Questi spazi formano una rete che in effetti ha guidato l’innovazione culturale in tutta la città, trasformandola in un faro di creatività urbana alla fine del XX secolo. Alcuni sociologi hanno sostenuto che Amsterdam era la città europea che ha dato a Richard Florida una sorta di progetto per la sua idea di città creativa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il modello era San Francisco. Quindi sì, ci sono definitivamente una serie di somiglianze tra l’esperienza olandese e quella californiana per quanto riguarda il ruolo storico che le sottoculture hanno avuto nei processi di innovazione culturale, e in seguito a ciò, l’innovazione gestita a livello economico-finanziario. Hai anche ragione nel sottolineare la distruzione di questi “motori” dell’innovazione da parte delle politiche neoliberali. Il soffocamento dello spazio urbano da parte di massicce speculazioni finanziarie e investimenti eccessivi nel settore immobiliare sembra essere molto peggio a San Francisco, ma è anche dolorosamente sentito ad Amsterdam.

Questi sviluppi rappresentano un problema che va ben oltre la questione della sottocultura. In effetti, alcune forme di pratica artistica e subculturale sono spesso beneficiari perversi del rimodellamento neoliberale delle nostre città in quanto funzionalizzate come impiallacciature “creative” di un tessuto urbano altrimenti omogeneizzato. Coloro che soffrono sono famiglie a basso e medio reddito, ma sempre più anche giovani, piccoli imprenditori, insegnanti e persino medici che non possono più permettersi gli affitti in aumento. Quindi il problema non è tanto (o almeno non solo) la scomparsa degli spazi subculturali ma la de-diversificazione della vita urbana. Questo è ciò che distrugge la città come “macchina della serendipità” e la rende sempre più prevedibile e noiosa. Inoltre, distruggendo il potenziale fortuito della città, anche la capacità di una società di innovare diminuisce. Che nella situazione odierna significa la distruzione della possibilità di qualsiasi tipo di futuro. Non sono sicuro che i nostri urbanisti e strateghi politici abbiano colto la gravità della loro incapacità di sfidare l’attuale traiettoria. Chi fermerà l’economia estrattiva e neoliberale che sta causando la sesta estinzione di massa se non una politica veramente cosmopolita nata dalle potenze inventive della città?

 

L.R. La ricostruzione storica ed etimologica del concetto di serendipità (in breve: il processo di scoperta o di ricerca di qualcosa di utile, valido o buono, senza cercarlo specificamente) che si fa nelle prime pagine del libro, si riferisce direttamente a un problema epistemologico ontologico: come diviene il mondo, cosa lo muove, come vengono “prodotte” le nuove realtà? Più avanti nel libro, invochi la sociologia “dimenticata” di Gabriel Tarde e la sua utilità per una teoria sociale dell’innovazione. Perché pensi che oggi sia necessaria una teoria dell’innovazione sociale? Perché le “buone pratiche” non sono sufficienti?

 

S.O. Abbiamo un disperato bisogno di una discussione politica sull’innovazione sociale come modo per contrastare l’impatto distruttivo dell’economia estrattiva neoliberale sulle nostre città, società e, in definitiva, sul pianeta. Ciò che è attualmente messo in scena in nome dell’innovazione sociale è una farsa con l’obiettivo di non affrontare le grandi sfide del nostro tempo. In realtà è abbastanza ovvio, se si osservano le metodologie su cui operano organizzazioni come la Nesta britannica o le loro controparti olandesi più piccole: un problema “malvagio” come, diciamo, la fame nel mondo, lo sfruttamento economico o la distruzione ambientale viene suddiviso in una serie di step, riducendolo a qualcosa che può essere risolto da un’app, un modello aziendale o una combinazione di entrambi. Il design thinking ne è un chiaro esempio, la cosiddetta comunità dell’innovazione sociale ne ha sviluppato le proprie versioni. Nel mio libro, la chiamo “ginnastica del cambiamento immutabile” (changeless change). È un po ‘come il “soluzionismo” di Evgeny Morozov solo molto più cinico. Invece di affrontare i nostri problemi,  spesso complessi e di portata globale, in modo tale da lavorare verso una risposta appropriata, viene eseguito un atto simbolico che non cambia nulla ma che dà a coloro che “risolvono” la sensazione di “rendere il il mondo un posto migliore ”. La perfidia della varietà sempre mutevole di questo tipo di pratiche dell’innovazione sociale sta nel fatto che spreca l’energia di una giovane generazione che è seriamente intenzionata a voler cambiare il mondo in meglio; energia di cui abbiamo un disperato bisogno.

Abbiamo bisogno di una teoria dell’innovazione sociale per aiutarci a separare il changeless change dal cambiamento reale. Le generazioni più giovani devono essere in grado di decidere in cosa valga la pena investire le proprie energie e in cosa no. A volte esempi di “buone” o “migliori pratiche” possono essere d’ispirazione, ma se vuoi davvero salvare il mondo, devi capire come funzionano i nostri sistemi sociali complessi, come il cambiamento sociale e l’emancipazione sono stati ottenuti storicamente e quali sono i poteri che stiamo affrontando oggi. Supportare le nuove generazioni nel trovare la propria strada è una grande responsabilità. Il ruolo più deplorevole oggi è svolto da quei funzionari adulti che sanno esattamente cosa sta succedendo ma continuano a giocare il gioco del changeless change per difendere la loro posizione istituzionale acquisita.

Il lavoro di Gabriel Tarde è interessante sotto questo aspetto. Se anche un sociologo secolare può aiutarci a smascherare l’innovazione sociale come cambiamento immutabile, immagina che tipo di pensiero innovativo potremmo produrre se insegnassimo ancora una volta agli studenti a pensare in modo critico alla società. A titolo di considerazione, l’ipotesi dell’Antropocene ha bisogno di una mobilitazione intellettuale abbastanza potente da fermare la sesta estinzione di massa .

 

L.R. La teoria di  Tarde sembra molto utile nel descrivere un’ontologia sociale che funga da base per l’innovazione, specialmente quando si tratta della micro-dinamica dell’innovazione. Ma quando consideriamo  i processi di innovazione che coinvolgono la società in quanto tale nel suo complesso, le dinamiche dell’imitazione e dell’invenzione che Tarde postula per gli individui si spostano nell’ambito di comunità e sistemi complessi, coinvolgendo altri fattori, sia strutturali che contingenti. Qui le cose si complicano per la teoria.

Esistono teorie sociali, alcune in parte derivanti dalla sociologia di Tarde, che potrebbero affrontare il tema dell’innovazione sociale in tutta la sua complessità. Pensiamo alla Assemblage Theory di Manuel De Landa , Actor-Network Theory di Bruno Latour o le diverse declinazioni delle teorie della complessità, tra quelle che mi vengono in mente. Inoltre, la teoria critica, le teorie radicali marxiste e femministe e in particolare la teoria dell’ecologia politica e quella della riproduzione sociale potrebbero forse fornirci un quadro per comprendere il ruolo delle relazioni di potere e di dominio, e i rapporti sociali di produzione in cui sono inserite, in modi nuovi. Inoltre c’è la questione di aprire la visione problematicamente universalista basata sull’umanità per includere relazioni con entità non umane, naturali e tecniche. Pensatori come Bernard Stiegler e Yuk Hui stanno sviluppando nuovi strumenti teorici aprendo nuove strade del pensiero filosofico e ” cosmotecnico ” riguardo alle sfide della nostra epoca, al di là del paradigma dell’Antropocene.

Pensi che usare queste teorie per ricostruire un approccio critico all’innovazione sia utile, chiarendo le contraddizioni, i conflitti e le possibilità che ciò comporta e inquadrandolo alla luce delle sfide del cambiamento ecologico e sociale della contemporaneità?

 

S.O. Ti riferisci al tuo approccio qui? Non sono sicuro che importi così tanto quali sono le tue risorse teoriche o riferimenti purché non li usi per scopi di mistificazione accademica. Prendi qualcosa come la teoria actor-network. Gli accademici in carriera hanno una debole per essa perché fornisce loro un milione di modi complessi per dire “ci sono relazioni”. Questo funziona per ottenere con successo borse di ricerca perché consente di adattarsi alle ultime mode politiche e di scrivere dozzine di documenti vuoti. Sfortunatamente, è meno efficace affrontare le sfide che stiamo affrontando. Questo è esattamente il motivo per cui Bruno Latour, l’architetto intellettuale di questo approccio, ritorna ad un’analisi politica sorprendentemente radicale nella sua considerazione dell’Antropocene. Secondo lui, una potente élite comprende perfettamente che l’economia neoliberale dell’estrazione costerà per lo meno la vita di miliardi di persone. Tuttavia, essi hanno deciso che ne vale la pena. Queste non sono persone che puoi sfidare costruendo un’app o modificando un telefono cellulare in un prodotto più sostenibile. Richiederà uno sforzo politico gigantesco per privarli del loro potere. Se la tua teoria o analisi sarà utile per creare lo slancio che potrebbe portare a tale sforzo, allora sei sulla strada giusta. Tuttavia, per fare questo, devi dire molto di più di “ci sono relazioni”. Alcune relazioni sono più potenti di altre e abbiamo bisogno di una teoria sociale che ci aiuti a capire come affrontarle. 

Hai ragione a indicare Bernard Stiegler come uno dei grandi filosofi del nostro tempo. Sfortunatamente, non è molto letto, un fatto per il quale il suo stile di scrittura contorto comporta almeno una parte della responsabilità. Non fraintendermi, nessuno capisce la tecnologia e il suo ruolo nei processi di cambiamento sociale meglio di Stiegler. Sembra che il mondo non abbia imparato a impegnarsi con questo tipo di pensiero provocatorio complesso …

 

L.R. Nel corso del tuo libro, fai riferimento alla nozione di tecnologia di Bernard Stiegler come pharmakon , vale a dire, il suo potenziale ambivalente di essere veleno e / o curare. Il discorso pubblico sul rapporto tra tecnologia e cambiamento sociale riflette questa ambivalenza: ci sono entusiasti  tecno-utopisti e nefasti predicatori tecno-distopici; approcci tecno-deterministi o tecno-neutralisti e così via. È un’immagine piuttosto confusa. Qual è l’antidoto a questa confusione? È possibile, parafrasando Donna Haraway, “rimanere presso il problema” ed essere coinvolti nel mondo della tecnologia di oggi, mentre allo stesso tempo si è impegnati a progettare un diverso paradigma tecno-sociale, o almeno lavorare per esso?

 

S.O. Non vedo davvero alcun motivo di confusione. Prendi la filosofia di Bernard Stiegler a cui ti riferisci. La tecnologia ha sempre fatto parte dello sviluppo umano e, come sostiene Stiegler, può persino essere vista come quella che definisce la forma di vita umana. Quindi, ovviamente, può essere benigna o maligna. Questo è vero per un cuneo di pietra tanto quanto per un computer. In questo caso hai ragione, il tecno-determinismo è mentale. Tuttavia, vorrei contestare l’immagine che stai dipingendo qui. Non vi è alcun equilibrio tra tecno-euforia e le predicazioni nefaste e tecno-distopiche. Gli ultimi due decenni sono stati dominati dall’idea che la tecnologia digitale nel suo uso attuale sia necessariamente vantaggiosa per la società. Prendi i social media. Eravamo così euforici per i loro presunti effetti positivi che abbiamo più o meno imposto i social media sulla fragile psiche dei nostri giovani senza nemmeno il minimo avvertimento o preparazione cautelativa. Puoi paragonarlo a dei genitori che danno la cocaina ai loro figli sedicenni perché “li fa pensare più velocemente”. Non sto scherzando in questo caso. L’impatto avvincente e l’assuefazione dei social media sono stati programmati dall’industria fino a ogni impulso della micro-dopamina. Dieci anni dopo, i primi studi longitudinali stanno venendo fuori, documentando chiaramente il danno che è stato fatto. Ci stiamo strappando i capelli per la disperazione a causa della gravità di questa forma di dipendenza. 

Al contrario, non ho visto nessuno che ha sostenuto che l’invenzione del computer segna l’inevitabile fine del mondo. Potrebbero esserci dei pazzi là fuori, ma non hanno nulla di paragonabile alla visibilità che hanno gli “evangelisti digitali”. Se vuoi sapere perché questo è così, devi solo leggere la summenzionata studiosa della Harvard Business Shoshana Zuboff che documenta meticolosamente le enormi risorse e strategie utilizzate dall’industria IT al fine di influenzare il processo decisionale e l’opinione pubblica a loro favore.

Quindi, questo è l’antidoto alla situazione che stai descrivendo. Richiamare queste strategie e capire che non c’è nulla di naturale o neutrale nella traiettoria tecnologica ma che segue interessi politici ed economici. Se vogliamo una tecnologia che renda le nostre vite migliori e ci aiuti a salvare il pianeta, dobbiamo creare le condizioni politiche che la costringano a farlo. Questo non è un enigma, ma richiede ancora un enorme sforzo politico.

 

L.R. Nonostante l’egemonia neoliberale, esistono ancora spazi di resistenza e sperimentazione. Esistono comunità auto-organizzate legate alla cultura hacker e maker (kacher spaces, hack labs, critical makerspaces); iniziative strutturate intorno ai “commons” ( P2P , software libero, hardware libero, accesso aperto); reti e movimenti formati da cooperative di piattaforma; sindacati IT e nuove forme di lavoro organizzato; attivismo contro la guerra, lo sfruttamento e l’invasione della privacy; iniziative per politiche progressiste come il reddito di base (che coinvolgono attivisti, designer, imprenditori e politici). Cosa ne pensi di questi diversi movimenti? È possibile inquadrarli in termini di un “ecosistema di possibilità alternativ”e nel contesto della crisi ecologica e sociale globale? È possibile costruire un discorso comune e una pratica politica tra queste esperienze?

 

S.O. Non ne sono sicuro. Alcuni dei tuoi esempi qui sono piuttosto semplici. Forme di lavoro organizzato per i lavoratori precari? Ovviamente. Attivismo femminista, contro la guerra, a favore della privacy? Assolutamente. Per il resto, tutto dipende da cosa stanno cercando questi diversi movimenti e iniziative. Sono seriamente interessati a sviluppare pratiche che potrebbero aiutarci a costruire un futuro desiderabile? O stanno semplicemente cercando di ritagliarsi una comoda nicchia nel sistema esistente? Per coloro che vogliono costruire seriamente un futuro, si tratta di essere estremamente attenti e (auto)critici quando si tratta di decidere cosa funziona e cosa no. Ciò che vediamo al momento, in particolare nei Paesi Bassi e in Belgio, è uno sfortunato tentativo di rianimare l’idea degli zombie degli anni Novanta: “small is beautiful”. Nel nome dei “commons” o, peggio ancora, il “commonismo” [sic] buone iniziative (in linea con quelle che stai descrivendo) sono raggruppate insieme ai progetti neoliberali più rivoltanti al fine di generare una mappa che mostri che in realtà la nuova società (dei beni comuni) è già qui. Va tutto bene, siamo salvati, grazie mille! La logica qui è: “siccome queste non sono grandi organizzazioni, allora devono far parte dei beni comuni”. In una certa misura, la precarietà economica e la debolezza politica diventano i parametri aspirazionali del futuro. Esiste un modo più spaventoso di gettare la nuova generazione sotto l’autobus neoliberista? 

Non sono convinto dall’ipotesi dei beni comuni proprio perché il suo reale effetto politico è stato finora estremamente problematico. Celebrare un’infrastruttura potenzialmente emergente di un futuro Comune non ha fatto nulla per impedire la continua distruzione dell’infrastruttura effettivamente esistente del Pubblico. Mi riferisco alla spietata privatizzazione, esternalizzazione e commercializzazione dei nostri servizi pubblici, dall’assistenza sanitaria e delle politiche abitative, fino al governo stesso. Il brillante lavoro dell’economista Mariana Mazzucato ha fatto molto per scoprire la distruzione del valore pubblico che la credenza religiosa nella superiorità del mercato sta causando. Voglio dire, stiamo tutti sognando un futuro Comune, ma non è più urgente fermare prima la svendita del Pubblico? Finché i sostenitori dei beni comuni voltano le spalle a questo oltraggio, non meritano di essere presi sul serio. Se l’idea dei beni comuni viene impiegata in modo schiacciante per sostenere carriere, iniziative, ricerche e politiche che difendono lo status quo neoliberale, chiaramente non appartiene a quello che tu chiami “ecosistema di possibilità alternative”!

 

L.R. Nel tuo libro c’è una critica abbastanza esplicita di organizzazioni come Nesta e il suo direttore Geoff Mulgan, per il ruolo che svolgono nel campo dell’innovazione sociale digitale. Queste organizzazioni svolgono un ruolo centrale nella definizione delle politiche dell’UE per quanto riguarda l’uso delle tecnologie digitali nel settore industriale, logistico e dello sviluppo urbano (smart cities). Mi sembra che l’UE stia cercando di trovare una posizione diversa da quella del modello ultra-capitalista e neoliberale della Silicon Valley e del modello statalista e centralista rappresentato dalla Cina. Quale ruolo può svolgere l’innovazione sociale in questo contesto? È più che retorica e marketing? Pensi che l’UE abbia imparato la lezione dal modo in cui le sue industrie creative e i suoi programmi di economia digitale hanno aiutato la gentrificazione delle nostre città e la precarizzazione del lavoro?

 

S.O. è assolutamente affascinante vedere che le stesse persone responsabili del paradigma delle industrie creative sono ora alla guida dell’agenda dell’innovazione sociale digitale. Diamo una rapida occhiata al paradigma dell’industria creativa. L’idea di base era quella di creare una serie di politiche che intervenissero in modo proattivo nella trasformazione strutturale dell’economia (in senso lato: dall’industriale al post-industriale) infondendo in essa il potere della creatività (leggi: arte e design). I “pensatori leader” delle industrie creative come Geoff Mulgan e Charles Leadbeater erano molto vicini a Tony Blair la cui politica della Terza Via attuò il neoliberismo in Gran Bretagna, nel senso che il mercato stava diventando il principio centrale del governo. Come Blair, erano a favore dell’abbandono dell’approccio europeo delle politiche socialdemocratiche, tra cui forme più democratiche di governance economica. Invece, hanno guardato agli Stati Uniti alla ricerca di un nuovo modello industriale. Il percorso più efficace verso un’economia creativa che i nostri “pensatori leader” credevano di aver trovato consisteva nei modelli di business della Silicon Valley.

Tuttavia, il potere dell’industria americana delle ICT era cresciuto da specifiche condizioni storiche, era sostenuto da ingenti finanziamenti governativi e, sempre più, protetto da un potente apparato di leggi e regolamenti aziendali. Quindi, ciò che accadde fu che il discorso delle industrie creative europee divenne un guscio retorico che importò la cultura aziendale della Silicon Valley – la famosa ideologia californiana – in Europa senza avere un settore che potesse trarne profitto. Le industrie creative avrebbero dovuto crescere fondamentalmente costruendo cluster culturali e creativi nelle nostre città e infondendoli con il gusto imprenditoriale della west coast. Ovviamente, sto semplificando un po ‘. Tuttavia, invece di diventare i motori di una nuova economia creativa emergente, questi gruppi sono diventati i bulldozer creativi della macchina immobiliare che ora sta vandalizzando le nostre città. Chiaramente, la strategia industriale fallì. Nonostante questo fallimento, l’UE e i governi nazionali hanno continuato a spingere la dimensione ideologica dell’agenda delle industrie creative, attuando efficacemente un programma di rieducazione californiana per i settori culturali ed educativi dell’Europa: gli artisti (e i cittadini in generale) dovevano reinventarsi come imprenditori, la creatività collettiva ha lasciato il posto alla competizione individualistica, i valori sociali sono stati dichiarati nulli a meno che non generassero un prezzo sul mercato. Ovviamente, nulla di tutto ciò ha aiutato le economie europee a diventare più competitive. Anzi, ha devastato una sfera culturale che avrebbe potuto generare un’efficace difesa europea e una risposta all’economia estrattiva della Silicon Valley. Mentre sarebbe assurdo incolpare l’agenda delle industrie creative da sola per il soffocamento delle nostre città o la degenerazione della nostra cultura politica, bisogna dire che essa è stata sicuramente un fattore abilitante.

Dobbiamo davvero fidarci degli strateghi chairman, che sono responsabili di questo disastro assoluto perché hanno la faccia tosta di rimodellarsi ora come innovatori sociali digitali? Chi si accosta ad una politica di emancipazione come se si trattasse di avviare una serie di start-up digitali? Stai scherzando. Ci sono studiosi e attivisti seri che pensano alle forme emancipative dell’utilizzo della tecnologia digitale. Morozov ha appena pubblicato un luminoso intervento su quello che chiama “socialismo digitale” nella New Left Review. Prestiamo attenzione a loro, non ai tipi di consulenti irresponsabili che si aggrappano a un approccio fallito.

 

L.R. Sfidi e critichi regolarmente prestigiose istituzioni culturali nella tua città, Amsterdam, per la loro complicità nei processi di gentrificazione o per la promozione acritica di tropi ideologici come la smart city o la sharing economy. In quest’ottica molte di queste istituzioni sono abbastanza ambigue nella loro natura: il loro opportunismo si intreccia con un immaginario di trasformazione sociale radicale o progressiva: transizione ecologica, giustizia sociale, cittadinanza globale, beni comuni, diritti civili. Le istituzioni culturali di Amsterdam, ovviamente, non fanno eccezione. È possibile intervenire in queste contraddizioni, “hackerando” queste istituzioni in modo che diventino più autonome e possano guadagnare qualche utilità politica?

 

S.O. Penso che ciò dipenda dal livello individuale di corruzione di ciascuna istituzione. Molti di essi sono stati istituiti esplicitamente come supporto infrastrutturale del paradigma delle industrie creative. Puoi paragonarli ai “palazzi della cultura” stalinisti dell’ex blocco orientale. Esistono per un solo scopo; razionalizzare la società civile in base alle esigenze del neoliberismo. Il loro messaggio alla nuova generazione è che la politica è diventata obsoleta. Celebra la tua identità individuale, credi nella tecnologia, ottimizza te stesso per una vita di costante competizione, è tutto ciò che devi fare per rendere il mondo un posto migliore.

In altre parole, – e qui torniamo all’inizio della nostra conversazione – ci contaminano con la tossicità del realismo capitalista, cioè diffondendo la menzogna che non è né possibile né necessario cambiare le regole del gioco neoliberale. Il fatto è che possiamo e dobbiamo urgentemente cambiare queste regole se vogliamo che l’umanità sopravviva. Si chiama politica emancipativa. È ciò che i neoliberisti temono più di ogni altra cosa. Esistono molti modi in cui le istituzioni culturali possono contribuire alla costruzione di una tale politica, dalla sensibilizzazione sugli effetti psichici debilitanti della precarietà e dalla concorrenza permanente a livello individuale, alla costruzione di un’azione collettiva contro il continuo vandalismo della città da parte dei ricchi e potenti. Se è questo che intendi per hacking, allora sì, facciamolo!

Hacking Capitalist Realism: on serendipity, social innovation and emancipatory politics – Interview with Sebastian Olma 

Sebastian Olma è professore di “Autonomy in Art, Design and Tecnology” presso la “Avans” University of Applied Sciences di Breda e Den Bosch nei Paesi Bassi. Vive ad Amsterdam. Per anni si è occupato di critiche sociali e culturali, in particolare per quanto riguarda la politica delle industrie culturali. Nel suo libro, “In Defense of Serendipity. For a Radical Politics of Innovation “(2016) , Sebastian Olma avanza una potente critica culturale contro il paradigma neoliberale dell’innovazione, che schiaccia le possibilità e le differenze dell’innovazione sociale sulla scala incrementale dell’innovazione tecnologica ed economica, rendendo così sterile lo sviluppo di innovazione in generale.

Luca Recano è attivista e militante nei movimenti sociali napoletani, membro della TRU e e dottorando di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università degli Studi ‘L’Orientale’ di Napoli con un progetto di tesi sull’innovazione sociale, nel cui ambito ha condotto un periodo di ricerca ad Amsterdam.

Tumblr e il porno, due calde reazioni a caldo

Quelli che seguono sono due commenti di Roberto Terracciano e Nina Ferrante sul ban da parte di Tumblr del contenuto per adulti sulla piattaforma. Se hai cambiato idea sulla lettura di questo doppio post, puoi uscire: portami alla pagina dei gattini

Il Tumblr nel CorSera

di Roberto Terracciano

Ok, tutti ce lo siamo detti tra i denti ma non è mai uscito sulla pubblica piazza: chi guarda porno su Youporn ormai viene visto alla stregua di quelli che nemmeno cinque anni fa si nascondevano nella sezione hard di un videonoleggio o di chi come me scrivono su Facebook post lunghi come questo. I blog not-safe-for-work sono invece delle gallerie curate gratuitamente da amatori e amanti del genere che pubblicano in modo ragionato le proprie foto o quelle di altri. Mi sono inscritto a Tumblr in un’epoca in cui sembrava che bisognava essere attivi su tutti i social, anche quando non si capiva bene a cosa servissero ma mi sono avvicinato al suo lato speziato molto dopo per risvegliare quel piacere dei racconti erotici amatoriali che leggevo da adolescente fatti di luoghi oscuri e situazioni liminali in cui non mi sarei mai cacciato, per poi scoprire un mondo fatto di foto, di video e una fitta rete di blog che “parlavano” tra di loro.

Cose molto tumblr

Tumblr è stato a lungo percepito come il più spocchioso servizio di blogging, quello che non permette di commentare i post ma di rebloggare ovvero ricondividere il post ad libitum. Un blog a zero commenti, minimalista, nichilista, libero dall’ansia della conversazione, un’idea vista con sospetto all’epoca di Blogger, di Splinder e dei commenti di haters su YouTube. Come in un bicchiere per il sex on the beach, nel tumbler social si mischia tutto: sesso, gattini, triangoli hipster, paesaggi, meme e citazioni decontestualizzate. In questa community fatta di relazioni di condivisione però hanno trovato rifugio gli amanti del porno, di amatori, di foto erotiche grazie anche all’apertura della piattaforma rispetto a questo tipo di contenuti.

Cosa è successo?

Qualche giorno fa l’app store di Apple rimuove l’applicazione di Tumblr dal suo negozio per violazione dei regolamenti di Apple e su applicazione della legge SESTA/FOSTA a causa una segnalazione di un post pedopornografico. Nell’ecologia delle app, in ambienti chiusi quali Apple, il gestore del negozio governa il flusso di informazioni (finirà che come Facebook, lo store dovrà definirsi una media-company). Per evitare di essere cancellati dal PlayStore di Google e dall’appstore di Apple i gestori della piattaforma hanno deciso di limitare la libertà di espressione dei propri utenti, in modo tra l’altro legittimo essendo Tumblr una piattaforma proprietaria, adducendo una serie di motivazioni moraliste con toni paternalistici. Scrive Jeff d’Onofrio – ad della società – in un post-comunicato “dobbiamo decidere che community vogliamo essere?” “Daremo la possibilità ai blogger nsfw di pubblicare in futuro post adeguati” (grazie eh!). Ora pare un po’ ironico definirsi community se chi partecipa alla comunità non ha diritto di co-decisione delle pratiche della stessa.

Perché su Tumblr?

Oltre la libertà concessa dalla piattaforma era lo stesso suo funzionamento a garantire il riconoscimento, entro i dovuti limiti, dell’autorialità dei post, attraverso la funzionalità del trackback per risalire al blog originale del post condiviso. Questo meccanismo creava in un certo qual senso una rete di pari che si riconoscevano e che producevano in maniera autonoma il contenuto.

Porno 2.0

Ma nell’era dello user generated content in cui se non paghi un prodotto, il prodotto sei tu, molti dei porno amatori avevano scoperto le gioie di Onlyfans, piattaforma che permette ai produttori di contenuti di essere pagati per il loro lavoro e di lasciare su Tumblr solo dei teaser delle proprie gesta erotiche. L’onnipotenza di PornHub che ha in mano praticamente tutto il mercato di diffusione online di porno ha secondo molti lavoratori del settore rovinato il genere, le cui produzioni industriali hanno danneggiato sia l’arte ma anche l’immaginario legato al sesso e ai rapporti di genere nell’espressione della sessualità. Cosa confermata dall’introduzione del sistema dei token in Chaturbate e Cam4. Laddove la piattaforma incoraggiava una volontaria espressione del proprio desiderio online sono intervenuti i gettoni e i goal attraverso i quali si promette una determinata performance. In questa nuova veste i siti di “social-porn” si traducono visualmente nell’immagine di un condominio di finestre da cui si affaccia un esercito annoiato di camboy e camgirl che vendono le proprie prestazioni un tanto al chilo e in cui si promette si promette si promette e poi non si scopa mai. Ottima metafora del capitalismo di piattaforma: comodo ma come dire poca soddisfazione. Il risultato è che il sesso è diventata la cosa meno sexy del mondo.

Free culture

È qui che tutti i nudi vengono al pettine. Dopo anni di tecnoentusiasmo per tutto ciò che è gratuito online ci si è dovuti fare un esame di coscienza ed essere onesti: tutta la nostra attività online (come molta parte di quella offline) è lavoro gratuito, ed è una forma che quanto meno dev’essere riconosciuta. Il problema di Onlyfans e Cam4, al pari di mille altre piattaforme di microjob, però è che pongono l’utente in posizione di autosfruttamento. Insomma la free culture non doveva avere questo epilogo. Piuttosto piattaforme come Tumblr che hanno campato, diciamocelo, grazie alla circolazione di materiale hhhhhhooooottt decidono di chiudere ai suoi principali community builder lasciandoli senza casa né riconoscimento, probabilmente commettendo uno dei più spettacolari suicidi digitali di una compagnia online.

La chiusura di Tumblr sul contenuto per adulti è una scure che cade sì sul porno ma anche sulla sperimentazione, sull’arte e ci interroga sulla privatizzazione degli spazi pubblici on e offline e sull’opportunità o meno di fare ancora parte di questo tipo di economia/logia digitale, una forma autoritaria di governo dell’informazione su cui da utenti non abbiamo alcun diritto di negoziazione.


Effetti della censura del porno su Tumblr: tempo per scrivere della censura del porno su Tumblr

di Nina Ferrante

Lei entrò di soppiatto nella stanza, foriera della sciagurata notizia:

“Hanno tolto i porno da Tumblr. Come faremo?”

Cerchiamo immediatamente delle buone ragioni o delle ragioni qualsiasi per strapparci via le giffine porno, assaggi di fantasie, un colpo d’occhio su più lunghe trame di desiderio. A lungo vituperate come simbolo di una sessualità predatoria e compulsiva, Tumblr in realtà ha diffuso album con scatti animati di fantasie di ogni tipo, trascendendo dalla categorizzazione del labeling e del tagging, funzionando piuttosto per disseminazione e contagio di hashtag, o come la tecnica voluttuosa delle ciliegie: una tira l’altra.

Confesso di essere una signora d’altri tempi, ancora legata alla ricerca estetica e alle lunghe trame, eppure non disprezzo un contenuto intenso e breve che funzioni come un sorsetto dalla fiaschetta, che mi dia lo slancio e la leggerezza per affrontare un impegno stressante, la scrittura, un date… insomma non disdegno. Tumblr tuttavia è una scoperta recente anche per me, e comunque ci sono entrata dalla porta di retro, su suggerimento di gif di gattini che comparivano casualmente in porno amatoriali. Nulla di più postporno a pensarci, di più efficace nel decentrare il porno dall’atto penetrativo e risignificare l’erotismo da altre prospettive. E poi gattini e porno, un diabolico connubio, solo apparentemente impossibile, tra i contenuti più ricercati di sempre dell’internet.

Avevo già un account, me l’ero fatto quando mi avevano messo in stop su facebook per aver detto che un prof di Scienze Politiche della Federico II era un porco molestatore. A rota di social riattivai Twitter, Instagram e pure Tumblr; finsi di appassionarmi ai diari on line di disagiat* queer statunitensi e surfai tra illustrazioni, poesiole, quadernini e altri contenuti hipsters. Ho anche a lungo coltivato io stessa l’idea di condividere un diario, riprendere la scrittura, cercare contenuti che facessero di me una bella persona. Poi fortunatamente Mark mi ha perdonata e sono tornata su Tumblr solo successivamente per i pornetti. La scoperta è stata sorprendente, l’incrocio tra i diari queer e la ricerca del porno, con una zampata di gattino impertinente, ha istruito un algoritmo stranamente intelligente che mi ha aperto un mondo di esplorazioni, sperimentazioni e autorappresentazioni.

Il panico si diffonde nella mia bolla social con la velocità che solo la morte di un vip riesce a raggiungere; sarà stato il portato epico della tragedia. Una domanda rimbalza tra post e commenti, un unico quesito attanaglia la mia community: “A che serve Tumblr senza porno?”, o anche nella versione più distaccata, politica, produttivista, a tratti intellettuale: “Come sopravviverà Tumblr a questa censura?”.

Già vestendo il lutto per la prematura dipartita della nostra piattaforma porno preferita, principiamo la ricerca delle ragioni. In reatà è Jeff D’Onofrio stesso a scriverci per dirci che tutto è cambiato. Come accade per gli eventi epocali, che potenzialmente possono far risentire gli utenti dei social, è il CEO stesso ad assumersi la responsabilità di interloquire con ogni singola persona e lanciare un accorato appello al senso di comunità. Tuttavia qui non ci viene detta tutta la verità e la ragione data è invece la scusa più consunta, utilizzata ogni volta che si deve porre fine a un dibattito sulle libertà sessuali e l’autodeterminazione: la difesa del bambino.

Pubblicare qualcosa che è dannoso per i minori, compresa la pornografia infantile, è ripugnante e non ha posto nella nostra comunità. Abbiamo sempre adottato, e adotteremo sempre, una politica di tolleranza zero per questo tipo di contenuti.

Ma come ci ricorda Paul Preciado: “chi protegge il bambino queer?

La libertà di espressione delle giovanissime frocie e trans che hanno trovato proprio su questa piattaforma un luogo dove trovare, raccogliere e condividere i propri immaginari sessuali, come verrà tutelata? Il senso di empowerment che può dare il riconoscersi come corpo desiderante, ma soprattutto desiderabile, quali altri spazi troverà? Jeff liquida così queste domande:

Su Internet non mancano i siti con contenuti per adulti. Lasceremo a loro questi contenuti e concentreremo i nostri sforzi per creare l’ambiente più accogliente possibile per la nostra comunità.

È veramente interessante la costruzione di questa frontiera, dove all’interno si protegge un’intera comunità infantilizzata, dai pericoli di un mondo pieno di “contenuti per adulti”. Non arrovellatevi troppo il cervello per una definizione definitiva di ciò che è adulto e quindi da espellere dalla comunità:

Quali sono i contenuti considerati per adulti?

I contenuti per adulti includono principalmente foto, video o GIF che rappresentano organi genitali realistici o capezzoli femminili, nonché tutti i contenuti, tra cui foto, video, GIF e illustrazioni, che rappresentano atti sessuali.

Ovviamente mentre si esplicita la regola si produce la sua eccezione:

Cosa è ancora permesso?

Alcuni esempi comuni di eccezioni, ovvero contenuti ancora permessi, includono l’esposizione di capezzoli femminili per l’allattamento, momenti prima o dopo il parto e situazioni legate alla salute, come ad esempio immagini successive alla mastectomia o ad interventi chirurgici relativi al cambiamento di sesso. Contenuti scritti come erotismo, nudismo impiegato per temi politici o di attualità e immagini di nudi presenti in ambito artistico, come sculture e illustrazioni, possono essere liberamente postati su Tumblr.

L’eccezione è dunque la piattaforma stessa, che strizza l’occhio alle proteste che sono state mosse contro altre, colpevoli di aver indiscriminatamente operato una censura di queste immagini comunque considerate tollerabili perché desiderabili ma non con una connotazione sessuale.

La parte più interessante di queste comunicazioni resta il modo in cui alcuni concetti nati nelle comunità queer e sex positive vengano decontestualizzati, estetizzati e depoliticizzati, spiegandoci nella morbidezza della nostra lingua in che modo saremo espropriat*. Proprio a iniziare dal concetto di comunità, il modo in cui ci siamo trovat* e raccolt* intorno a questa piattaforma, l’abbiamo riempita rendendola produttiva e desiderabile, diviene invece il modo in cui viene costruita una frontiera, che produce dell’esclusione e un bisogno di protezione da parte di un’autorità. Così la stessa parola safe, una pratica orizzontale di negoziazione per l’accoglienza, slitta nel significato più proprio che assume nella traduzione italiana che conosce solo il concetto di sicurezza. E infine, ma sin dal principio del titolo Un Tumblr migliore e più positivo, si appropria del concetto di positività per svuotarlo di tutte le lotte di riappropriazione d’immaginari e pratiche sessuali, e renderlo un feticcio vuoto di ciò che ci può rendere felici e confortevoli in un mondo bonificato dal sesso.

La verità, infatti, che non ci viene raccontata da Jeff, è che questo provvedimento è stato preso a seguito delle leggi SESTA (Stop Enabling Sex Traffickers Act) e la legge FOSTA (lotta contro il traffico sessuale online), approvate quest’anno negli Stati Uniti; le due leggi hanno reso responsabili le piattaforme dei contenuti pubblicati dagli utenti, e sotto la spinta della retorica della lotta al traffico umano, è stata attuta una bonifica di molte piattaforme e la chiusura di alcuni portali utilizzati da sex worker e attivisti per promuovere prestazioni e pratiche. Lo stesso Grindr ha bloccato numerosi utenti sospettati di utilizzare la app per lavoro sessuale. Il lavoro per le piattaforme, quello informato dal desiderio, anche esplicitamente sessuale, è legittimo fin tanto che il consenso e i guadagni non siano nelle mani de* utenti stess*. Le leggi hanno immediatamente sollevato le proteste di sex workers e attivist* complici che hanno denunciato come questi provvedimenti – così come altri interventi abolizionisti – non colpiscano il traffico sessuale, ma rendano ancora più precarie e pericolose le condizioni di lavoro per chi sceglie di praticarlo in modo consensuale.

Infine giunge la domanda legittima:

Come vengono classificati i contenuti per adulti?

Questo lavoro richiede sia una classificazione con l’apprendimento automatico che una moderazione da parte del nostro team per la Sicurezza, le persone che aiutano a moderare Tumblr. (…)

I computer sono meglio degli umani quando si tratta di classificare, per questo ne abbiamo bisogno, ma non sono così bravi a rilevare sfumature e a prendere decisioni contestuali. Si tratta di un processo in evoluzione per tutti noi e ci stiamo impegnando al massimo per applicarlo al meglio.

La domanda legittima assume il carattere della necessità, per aprire una via di fuga da questa gabbia distopica fatta di controllo e censura delegata a delle fredde macchine sotto il controllo di umani più umani. L’orizzonte dell’utopia verso il quale muoversi sarebbe proprio un processo simpoietico d’ibridazione, piuttosto che un percorso evoluzionista. Invece di insegnare alla macchina un algoritmo – un linguaggio composto da un insieme di comandi – in grado di riconoscere i “contenuti per adulti”, senza per altro fidarci di quali decisioni verrebbero prese, potremmo immaginare l’algoritmo come una lingua condivisa, transfemminista, includente; che produca spazi in cui sentirsi abbastanza confortevoli e accolte da poter essere coraggiose nel condividere anche i nostri desideri, senza incorrere nelle molestie della censura o del patriarcato; un cyborg learning reciproco, non indirizzato a colpire dei target, parole scomode, soggetti sensibili; in cui una parte deve mantenere il controllo e l’altra solo apprendere, nel terrore costante della perdita di controllo su ciò che la macchina apprende da sola infinitamente. Un terrore che si nutre di ciò che alla macchina insegniamo: scovare, disciplinare, punire, censurare, la bianchezza, le frontiere, il terrore dei corpi, della libertà ,del desiderio. Non ci resta quindi che essere coraggios*, immaginare una nuova relazione con la macchina in cui apprendiamo reciprocamente quello che non è ancora qui, ora. Intanto non ci restano che i gattini.

Cruising alla Biennale Architettura: un’anti-guida nello spazio delle libertà

Lavorare per un evento come la Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale di Venezia offre un punto di vista privilegiato sui progetti esposti, sulla politica curatoriale, ma anche sull’interazione dei progetti con il pubblico di addetti ai lavori, giornalisti, habitué e quello occasionale. Quest’anno il tema della Biennale Architettura diretta dalle curatrici irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara è FREESPACE. È proprio sull’uso di “Spazio Libero” che si sono spesi i discorsi più o meno informati di architetti e partecipanti, della stampa di settore e di quella generalista. Discorsi che hanno reso il Freespace un concetto assai nebuloso. Ma le curatrici dello studio Grafton hanno elaborato un manifesto molto preciso che parla di architettura come gesto di generosità che offre in dono un eccesso di valore d’uso ed estetico che l’Architettura elargisce a tutti, anche quando l’iniziativa progettuale è meramente commerciale se non addirittura escludente. Freespace è un’agenda est-etica che l’architettura deve garantire alle generazioni future: spazio gratuito ma anche spazio libero, tuttavia mai spazio pubblico e nemmeno spazio comune. La Biennale Architettura di quest’anno non è dunque una Mostra sul ripensamento degli spazi pubblici. Al contrario, riflette sul soggetto privato considerato come il vero motore tecno-economico-culturale della contemporaneità.

Fortunatamente, la polisemia cui si prestano le parole libero e libertà offrono a chi ha risposto alla call delle curatrici della mostra principale e dei padiglioni nazionali la possibilità di fornire soluzioni non sempre aderenti al palinsesto Freespace.

Questo post è dunque un’anti-guida alla Biennale, una specie di cruising tra progetti e padiglioni, non necessariamente quelli più piacevoli dal punto di vista estetico. È una mappa che pero stringe l’occhio alle mostre capaci di fornire un’interpretazione di spazio libero come socialmente prodotto, seppur in modo problematico.

Cruising all’arsenale: eterotopie ed utopie urbane

Gli spazi filtro di Francesca Torzo: Z33 Gallery – Hasselt, Belgio

L’estetica dello spazio libero, ovvero vuoto, si riflette soprattutto negli ambienti dell’Arsenale – prima fabbrica di tipo industriale in Occidente – attraverso l’uso limitato del cartongesso che restituisce la dimensione delle corderie nella maestosità dei suoi 316 metri di lunghezza. Nelle navate laterali sono installati i progetti che riguardano varie tipologie di spazi: quelli domestici che si aprono verso l’esterno (Gli spazi dello studio finlandese Talli e quelli di MarieJosé VanHee), quelli provvisti di filtri piuttosto che di chiusure (l’elegante gioco di losanghe con aperture senza riflessi della galleria d’arte contemporanea Z33 a Hassel a cura di Francesca Torzo), quelli che utilizzano gli elementi naturali attorno ai quali viene ripensato il progetto (l’officina teatrale New Sala Beckett a Poblenou, Barcellona di Flores y Prats) e, in ultimo, quelli che mostrano la tensione tra l’autorità dell’architetto e l’utilizzo di chi abita questi spazi.

Elemental: The Value of what’s not built

Elemental di Alejandro Aravena presenta un’installazione concettuale in cui sperimenta, attraverso 7 dichiarazioni scritte a mano su carta, la pratica della libertà degli utenti negli spazi non programmati dall’architettura. Per Aravena “Free Space” è da intendersi come un’azione piuttosto che un aggettivo, rivendicando così un valore non quantificabile che si esprime nella tensione tra gesto architettonico e produzione della soggettività dei suoi utenti. Questa tensione incarna a pieno il paradosso dell’architettura contemporanea che, nel volersi disfare di quelle che Foucault chiamava eterotopie, governa il non-governato ovvero le relazioni prodotte dai suoi utenti.

Laura Perretti: Rigenerare Corviale_The Crossing

Tali tensioni sono riscontrabili in interventi rigenerativi che operano su sistemi portati a termine quando ormai la loro cifra sperimentale aveva esaurito già il suo potenziale: è il caso di Corviale nella periferia di Roma, edificio-città disegnato da Mario Fiorentino e pensato per essere un centro abitativo autonomo con lo scopo di costituire una barriera fisica contro lo sprawl urbano in estensione a discapito del paesaggio circostante. In questo sistema chiuso il tentativo di ricucitura del tessuto sociale è assai delicato poiché ha l’onere di intervenire non solo sul pensiero dell’architetto che ha progettato il primo nucleo abitativo ma anche sugli interventi operati attraverso le occupazioni di spazi non funzionali/non funzionanti da parte degli abitanti stessi. In questo dialogo turbolento, Laura Parretti opera su due scale: attraverso interventi minimali che puntano a trasformare la barriera del Serpentone in un filtro e, in scala maggiore, con nuovi spazi pubblici che fanno conversare la città-edificio con il paesaggio concepito come cliente.

Cruising nei Giardini

Granby Workshop – Assemble

I Giardini napoleonici si contrappongono all’Arsenale anche per il cruiser della Biennale: se le corderie con la loro estetica proto/post-industriale lo spingono a una visita compulsiva e completa, il padiglione centrale ai Giardini è un labirinto ma pieno di luce. Molti cruiser si affolleranno nel soppalco di Carlo Scarpa per ammirare i magnifici plastici dell’Atelier Peter Zumthor mentre altri si disperderanno nelle salette laterali per ammirare i nuovi spazi pubblici/corporate di Humanhattan (The Big U) o gli appartamenti prefabbricati per senza-tetto

Star Apartments di Michael Maltzan. L’unico punto protetto dalla luce diretta è la prima sala del Padiglione Centrale ripavimentata dal Granby Workshop con Assemble, piastrelle a encausto che ricordano l’azulejo portoghese ma che in realtà rivelano la natura casuale ed evenemenziale dell’architettura.

Amateur: How to legalize spontaneously built illegal structures in the city by means of design.

Nel solco tracciato da Aravena si inseriscono i cinesi Amateur, con delle strutture in legno che costituiscono un intervento di  che conferma relazioni sociali e microeconomiche già in atto. Lo studio di architetti ha convinto la municipalità di Hangzhou a resistere alla frenesia di rinnovamento tipica della Cina contemporanea e a preservare, legalizzandole con degli interventi architettonici minimali, le occupazioni delle intercapedini tra un edificio e l’altro, adibito talvolta a orto urbano, talaltra a mercatino o a riparo di fortuna.

Nell’anno in cui la legge Basaglia compie quarant’anni, non passano inosservati De Vylder Vinck Taillieu. I giovani vincitori del Leone d’Argento presentano invece su pannelli-filtri, in questo contesto espositivo, il loro progetto di ristrutturazione e recupero del padiglione del primo ospedale psichiatrico belga a Melle. Seppur immerso in un contesto naturale circondato dal verde, la struttura sottoposta a restauro porta con sé una storia turbolenta di isolamento e medicalizzazione che gli architetti hanno deciso di preservare pur aprendola verso l’esterno.

De Vylder, Vink, Taillieus: Unless Ever People. Caritas for Freespace

Cruising the Nations: ripensare i confini della nazione e del lavoro

Estudio Teddy Cruz + Fonna Forman: Mexus, A Geography of Interdependence

Biennale ha voluto conservare la struttura delle partecipazioni nazionali tipica delle Esposizioni Universali novecentesche. Molte partecipazioni presentano però delle agende che interrogano il senso stesso di Stato-Nazione. Capita così nel padiglione USA affidato all’Università di Chicago. Qui il team curatoriale si confronta con le dimensioni della cittadinanza che vengono esposte su diversi livelli: quello legale (civitas, cittadin*), quello territoriale (regione, nazione), eequello tecnologico ed economico (globo, network e cosmo). In questa intricata condizione, la cittadinanza viene continuamente messa in discussione e rinegoziata dai flussi di persone e di capitali. I curatori scandagliano nelle aree marginali dei territori teorici dell’architettura il senso della futura cittadinanza, andandola a cercare nei one-dollar-shops gestiti da lavoratoei cinesi su entrambi i lati della frontera statunitense-messicana, in immaginarie dichiarazioni di colonizzazione di nuovi mondi, nel rapporto tra umano e naturale attraverso la lente della migrazione, trasgressione, trasmissione, viaggio e mobilità.

La locker room del Padiglione Olandese

Partendo da una riflessione dell’artista e architetto neerlandese Constant Nieuwenhuys raccolta nella serie di dipinti New Bayblon, Marina Otero Verzier, curatrice del padiglione dei Paesi Bassi, si interroga sul ruolo dirompente della piena automazione in relazione alle condizioni di vita e alle configurazioni dello spazio in cui è immerso il corpo umano. Gli armadietti che nascondono teche, talvolta intere stanze sono

Anthropometric Data – Crane Cabin Operator vs Remote Control Operator. Disegno del Het Nieuwe Instituut 2017

allo stesso tempo elemento architettonico che lega in modo intimo il corpo al lavoro e al tempo libero e l’espediente narrativo del padiglione. Body Work and Leisure prende in considerazione quelle che Marcel Mauss chiamava le tecniche del corpo in relazione alle nuove e sempre più intime forme di lavoro e tempo libero che spesso si sovrappongono: dal letto come spazio di lavoro per millennials e sexworkers agli algoritmi per l’efficientamento del flusso di lavoro, la curatrice “nasconde” e invita a scoprire i luoghi del corpo contemporanei nello spazio neutro dello spogliatoio arancione-olanda.

Cruising the Cruising Pavilion: homotopie nella zona industriale

Cruising Freespace Manifesto

Tra le mostre che gravitano in modo non ufficiale in laguna, degno di nota è sicuramente il Cruising Pavilion che si nasconde lontano dalla mondanità sull’isola della Giudecca. Il giovanissimo team di curatori cancella la dicitura Freespace del manifesto di Farrell e McNamara e la sostituisce alla parola Cruising. Le intimità illimitate (Tim Dean) generate dal cruising diventano dunque occasione per riflettere su “uno spazio che invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo”, “uno spazio di opportunità, democratico, non programmato e libero per utilizzi non ancora definiti”.

Etienne Descloux: Panopticon (sex club)

La mostra si arrampica su due torri in legno e sono alternate da un’area vuota e scura che rappresenta (nel senso teatrale del termine) l’afterlife del cruising: preservativi srotolati, carta igienica accartocciata sono il palcoscenico utopico di questo spazio. Se da un lato è sempre un pericolo che pratiche così radicali dell’esperienza dello spazio più o meno urbano siano tradotte e addomesticate nei circuiti artistici e nell’accademia, è tuttavia interessante il discorso curatoriale che oscilla tra l’esteticizzazione di tali pratiche e l’analisi della loro potenzialità.

Progetto per il giardino delle Tuileries

Con in mente l’orizzonte utopico di J.E. Muñoz, il cruising diventa una pratica di ricerca architettonica che non può risolvere in modo pacifico il rapporto tra progettista e utente: spesso infatti si ritrovano a consumare un rapporto sadomaso dove però è a volte l’utente a interpretare il ruolo del dominatore. In questo senso i progetti sulle due torri possono solo assecondare la sessualizzazione dello spazio già praticata da chi pratica il cruising, ed è per questo che la maggior parte dei progetti esposti – come quello che riproduce un club-panopticon decisamente poco disciplinare, o il progetto per il giardino delle Tuileries apparentemente pensato per il cruising con il suo gioco di siepi – rimangono disegni su carta che sfidano il pensiero, mentre nella messa in scena della darkroom il sesso viene solo immaginato.

Trevor Yeung: The Locker Room (2016), ancora armadietti come metafora di intimità condivisa e lavoro.

Crusing Venice: il diritto all’estasi della città

Come suggeriscono Salvatore Iaconesi e Oriana Persico con Human Architecture Al Padiglione Venezia, durante la kermesse viene prodotta una complessa geografia delle interazioni umane sui siti di social media. Ma anche la geografia fisica dell’arcipelago lagunare è sottoposta a forte stress durante gli eventi messi in moto dall’istituzione Biennale. Eventi che conferiscono a una città materialmente liquida, un carattere fortemente governato e allo stesso tempo effimero.

Se lo storico cruising al Lido – scenario di Morte a Venezia – è meno frequentato, il turismo dei grandi volumi e dei negozi di cioccolato e caramelle sta trasformando Venezia nella sua messa in scena, svuotandola di abitanti.

Ritornando dunque nello schermo a 16:9 che è l’entrata della Stazione di Santa Lucia ripenso a Venezia e allo spazio libero. I tornelli voluti dal sindaco Brugnaro, con un intervento emergenziale inutile e dannoso nella città-a-tema, a una seconda lettura ossequiano anch’essi il manifesto Freespace, secondo il quale la città non è un diritto ma ha solo un valore estetico, gentilmente concesso a tutti.

Manovra Napoli: Per un’alleanza di Archivi

Qualcosa è successo, qualcosa sta succedendo e qualcosa succederà.

Quando parliamo di archivi parliamo di memorie.

Uno dei terrori più antichi dell’umanità, come individui e come gruppi, è perdere la memoria.

Perciò la tecnologia a supporto della Memoria, che nei tempi antichi erano la parola, il canto, la poesia, sostenute dalle regole del ritmo, dei toni, della giusta pronunzia e dalla forza della voce, era tenuta nel massimo conto, era arte sacra.

Mnemosine era una divinità, una delle sette Muse.

Senza memoria non si produce poesia non si produce visione, non si puo fare del momento presente il nodo tra passato e futuro.

Queste preziosissime memorie, semi di ogni storia si sono organizzate nel tempo in raccolte detti archivi.

Queste raccolte, prima orali, trasmesse a volte in forma di poemi visionari cantati, come l’Iliade, l’Odissea, il Mahabarata, poi in forma di scrittura sono il materiale che costituisce il Sapere, la Storia, il Mito in cui la comunità si riconosce come autore e fruitore. 

Qualcosa sta succedendo 

A Napoli da qualche mese, in un discreto, silenzioso crescendo di incontri, relazioni e azioni si sta costruendo la Manovra Napoli, come si è deciso di chiamarla per semplicità e verità effettiva.

Cubotto.org

Nata per nutrirsi di e nutrire eventualmente la memoria e l’archivio di memorie della città, ad opera del Genio Collettivo e dei movimenti che via via si stanno aggregando supportandola con mezzi materiali e immateriali ( spazi, persone,idee, denaro) è stata presentata in società a puntate, tra dicembre 2017 e gennaio 2018, nel corso di Assemblee per l’archivio Cubotto_Manovra Napoli.

La Manovra Napoli (e subito viene in mente quella creatura particolarmente cara all’ immaginario cittadino che è il purpo, in italiano piovra) quindi è un processo che partorirà a sua volta una creatura che per ora, giocando con “mamma” e “base” tra il l’italiano base, fondamento l’equivalente inglese, ha nome Mamabase.

per la costruzione di un archivio dei movimenti sociali, ma anche delle storie comuni, dei ricordi, delle lotte, della produzione culturale.Mettere insieme una storia collettiva. Raccoglierla per non disperderla, per condividerla e trasportarla nel tempo. Ma anche per farla rivivere, permetterle di raccontare ancora e ancora,attraverso un software open source (cubotto.org), in una rete confederata di archivi costruita dal basso, internazionale, su di una infrastruttura propria non affidata alle grandi compagnie dei big data.[…] Solo alcuni racconti tra tanti, selezionati scientemente, costruiscono la Storia. Solo alcuni racconti sono l’Archivio su cui si siede il Dominus, quello che muove i fili della sceneggiata spettacolare del presente continuo, investendosi dell’Autorità (ancora una A maiuscola) di decidere per gli altri.

Tutte le memorie che si sono prodotte collettivamente, mentre si costruivano e agivano i movimenti che hanno fatto pensiero, cultura, arte e politica negli ultimi anni, a Napoli, in forma di documenti fotografici, filmici, audio, sono potenzialmente parte di quest’archivio a venire.

Gli spazi fisici e immateriali del racconto di una città, Napoli in questo caso, sono da sempre lo spazio culturale da colonizzare.

Se è vero che la città possiede una indubbia capacità di raccontarsi facendosi mito e poesia condivisi (a volte in un eccesso di autoreferenzialità fine a se stesso), i processi di integrazione, assorbimento, inclusione, digestione di questi racconti e di queste autonarrazioni – messi in atto dal capitale neo liberista, dalla modernità, dal mercato globale dal pensiero eurocentrico, dallo sguardo neo coloniale orientalista, ecc. ecc. che dir si voglia, qual si voglia – attraverso la costruzione di favole egemoniche, capaci di annullarne  differenze, diversità e specificità, producono opportunamente appiattimento ed essenzializzazione.

Sembra che, mai come in questo momento, la città sia pericolosamente e non del tutto consapevolmente, al centro di un’attenzione morbosa in grado di disinnescare il valore positivo di di questa innata capacità mitopoietica.

Il brand “napoli-città diversa caotica e anarchica e vitale” è attualmente una delle leve più potenti per la commercializzazione a scopo turistico e per la riduzione di tutto quello che si sta producendo e pensando a uno sguardo che rassicura e chiude la questione nel recinto delle eventuali “manifestazioni di diversità esotica”. Il risultato è che gli spazi della città, intesi come spazi di pensiero e di azione culturale e politica, dopo questo processo di sterilizzazione e cambio di segno, rientrano via via – e da sempre – come icone di identità pre-moderne, indifferentemente accanto ai pastori di S. Gregorio Armeno, alle cape di morto delle Fontanelle, alle cene nei bassi con autentiche “vaiasse”, ad alimentare l’ambito sempre innocente dell’antico, autentico desiderio dell’altro, del differente, della possibilità alternativa.

È così che possibili vie rivoluzionarie, visioni altre, istanze radicali si riducono a beni-merci di consumo: itinerari trasgressivo-turistici acquistabili e consumabili nell’arco di un weekend, oggetti-opere, materiali o immateriali di artisti, talvolta furbi e ingenui, destinati al collezionismo e/o al consumo culturale-finanziario del sistema dell’arte.

È così che queste direzioni di fuga intese come possibilità di costruzione alternativa del mondo, prodotte da parole e immaginazioni diverse partorite dagli abitanti di questo piccolo spazio del pianeta, di nome Napoli, rientrano nell’Archivio della narrazione egemone, sterilizzate, bonificate e finalmente innocue.

Quante e quali sono le linee di altri futuri possibili, perdute nello svolgersi del tempo-spazio- racconto della città, anche solo guardando agli ultimi 30 anni?

Sepolte, nascoste o dimenticate ma comunque sopravvissute da qualche parte, grazie a collezionisti, flâneurs, addetti ai lavori curiosi e malati d’archivio, in forma di fotografie, filmini e quant’altro, queste memorie e documenti conservano intatto, come un seme non più o non ancora germogliato, una potenza sovversiva.

Perciò raccoglierle, guardarle insieme confrontarle, come si fa con i vecchi album di famiglia serve, mai come ora: per acquisire una coscienza individuale e collettiva di quello che si è stati già capaci di produrre, magari attraverso più di una generazione; per imparare ancora una volta che se si è già stati capaci di pensare diversamente, siamo e saremo ancora capaci di produrre differenza di pensiero e azioni; per confrontarsi e imparare dagli sbagli quello che non si deve fare e quello che è più opportuno fare; per riprendere il filo di discorsi e racconti interrotti che ancora dispiegano, vive, prospettive e visioni da percorrere.

L’essere umano è la sua capacità di ricordare e immaginare, adesso più di prima, nel tempo in cui, quasi insensibilmente, stiamo esternalizzando questa capacità, tagliando in maniera sempre più definitiva il rapporto tra memoria e voce, memoria e visione, memoria e relazione con l’altro. Affidando sempre più alla macchina, la capacità di conservare la memoria.

Spesso nell’illusione che la memoria fuori di noi sia molto più affidabile, vasta e precisa di quella di un singolo umano, stiamo mettendo l’enorme ricchezza-capacità-potere che è il tutt’uno del ricordare-essere-immaginare, fuori di noi, individui e collettività, in mani altrui.

Allo stesso tempo, paradossalmente, siamo tutti più o meno consapevoli o almeno a conoscenza del fatto che quello che produciamo, semplicemente duplicando in rete il nostro ricordare-essere-immaginare, ovvero vivere individuale e collettivo in termini di informazioni e dati, sono la vera ricchezza: sappiamo senza dubbio che siamo noi il capitale di questo tempo.

Mettere insieme queste ricchezze, sia materialmente in un archivio digitale ovvero il cubotto, sia del punto di vista dell’incontrarsi, dello stabilire una relazione consapevole con queste ricchezze, con questa capacità di produrre visioni, riappropriandosi prima di tutto dell’umano, affettivo, visionario e politico, che sottende queste ricchezze, è un’operazione autoriflessiva estremamente importante in questo momento. Significa riprendersi la propria voce, letteralmente, la propria capacità di ricordare-essere-immaginare.

Se l’equazione archivio-memoria-dati-capitale è vera, se è vero che mai come ora sottile e grossolano, materiale e immateriale coincidono, questa certamente non è un’operazione senza rischi.

La macchina come tecnologia non dà garanzie, non è Dio, come abbiamo, per fortuna da tempo scoperto. Il rischio che questa ricchezza enorme possa andare in mani e cuori sbagliati esiste, al di la delle buone intenzioni, come esiste il rischio del bug tecnologico.

Non c’è, come è ovvio che sia, nessun futuro garantito.

È il caso comunque di prendersi il rischio focalizzandosi, più che sull’interrogativo inesauribile “che garanzia e quale futuro per questi archivi/ricchezze?”, sul presente della performance dell’apertura e condivisione di questi archivi, che nel momento vero dell’incontro possono produrre e stanno già producendo autoriflessione, cioè domande essenziali.

Almeno una parte-piccola ma non trascurabile, della città, si sta chiedendo dove siamo? cosa siamo? da dove siamo venuti? dove eventualmente possiamo andare ed essere per il futuro? Cercando di immaginare un futuro. 

Qualcosa è (già da tempo) successo

C’è un filo del discorso che dura da anni tra diverse persone.

In un assolato pomeriggio-sera di luglio ai piedi del vulcano Etna, circa 7-8 anni fa, alcune persone, si incontrano al piano nobile di una antica casa di campagna in rovina, decorata da affreschi in rovina, nel mezzo della valle del Simeto.

In questa rovina di casa e paesaggio che sembra la scena costruita apposta per raccontare il paesaggio culturale in cui siamo immersi tutti da anni, si inizia a tessere la tela delicata sui cui ancora stiamo producendo pensieri visioni e affetti.

Si parla di Storia, di come la storia si fa mito, di storie rimaste fuori dalla storia, di archivi perduti, di memoria, visione e poesia.

Già da tempo il piccolo angolo di mondo, che ci siamo costruiti, noi abitanti dell’emisfero nord del pianeta, grosso modo da quando Colombo ha “scoperto” l’America, è stato dichiarato affetto da mal d’archivio e mania della rovina.

Ci sono stati i profeti e i veggenti del morbo, da Nietzche a Benjamin, i sapienti che per primi hanno annusato il morbo poi alcuni saggi hanno annunciato che la (nostra) Storia è finita e che abbiamo perso il futuro. In concomitanza il nostro presente è diventato (anche) digitale.

Oggi, che il morbo sembra aver assunto carattere endemico, persone comuni come noi e anche alcuni specialisti cominciano a pensare che il morbo non è veramente malattia, che piuttosto è una mania e una malia d’amore.

E’ una passione che ha sede nel cuore, che guarda con scioltezza avanti e indietro nel tempo e nello spazio, tornati ad essere la stessa cosa, come ai tempi di Omero e del Mahabaratha, in un sguardo che è sempre nel presente.

La Malinconia non è più quella di una volta, come dice il bel titolo di un articolo di Beatrice Ferrara.

Successivamente il filo mai interrotto di questa conversazione ha incrociato le sperimentazioni e le invenzioni di un manipolo di creature ipertecnologiche, tanto malate e ammaliate dall’algoritmo e dalla scrittura binaria, quanto noi eravamo malati di archivi materiali e immateriali.

Da questi incontri, passando per Milano, in residenza a Macao è nata la sperimentazione del Cubotto, ad opera del Genio collettivo

un software open source sviluppato con l’intento di facilitare la raccolta, la catalogazione, la valorizzazione, la fruizione, la distribuzione e l’uso di oggetti audiovisivi e non (suono, video, foto, testi) da parte di un numero illimitato di persone in un contesto di lavoro sia locale che remoto. La visione che ha guidato questo processo di sviluppo collettivo durato più di un decennio muove i suoi passi dalla necessità di fornire strumenti a basso costo per la costruzione di una federazione di archivi condivisi senza un centro, una costellazione di persone e macchine che a partire dal mediterraneo, dal sud, può dare luogo alla stratificazione di una storia non di dominio, non di potere, ma popolare,

dice il testo della call per Opere in lotta in occasione della prima uscita publica durante l’evento Sensibile comune: Le opere vive (a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino, Cesare Pietroiusti), tenutosi alla Gnam nel gennaio 2017.

e qualcosa succederà

Dopo questa prima uscita pubblica Cubotto e Genio Collettivo hanno sperimentato il contesto della 53a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro a giugno 2017, per tornare di nuovo a Sud a Napoli.

MamaBase è il neonato progetto di archivio delle lotte sociali e delle autoproduzioni che si sta sviluppando a Napoli tra varie realtà e in rete con altri archivi della rete Cubotto.

Siamo nel terzo millennio e il digitale è la forma e il mezzo è il luogo in cui si raccolgono memorie.

Da Aprile, al terzo piano dell’Ex Asilo Filangieri, ogni martedì e giovedì, a partire dalle 15 sino a sera tarda, funzionerà un laboratorio, un point, per chi volesse consegnare materiale o anche ragionare-praticare-fare l’archivio, mentre presso il Giardino Liberato di Materdei sono già presenti i due server che costituiranno la rete Cubotto di Napoli.

Ci si augura non tanto una copiosa raccolta dati quanto un momento di autoriflessione, attraverso l’archivio, fatto di incontri di visioni e revisione condivise di passati prossimi o remoti, di parole e relazioni che aprano al nuovo guardando indietro.

“Costruire un altro Archivio, aprendo gli archivi di quello che è scartato, escluso dalle narrazioni dominanti, può consentire il racconto di altre storie, costruire altri pensieri, immaginare altre culture. Perciò lavorare l’archivio, farlo, aprirlo, metterlo in discussione è un’ azione culturale e politica radicale”.

 

 

 

 

 

Note sul fascismo molecolare

Questo post è già apparso su Euronomade ed è disponibile a questo indirizzo: http://www.euronomade.info/?p=10247

Corpi dissezionati di donne

Cosa collega il ritrovamento di macabro di una giovane fatta a pezzi e le sue membra lasciate sul ciglio di uno strada dentro una valigia a Macerata, e quello di donna uccisa e sezionata pochi giorni dopo dal fratello che ha buttato i resti del suo corpo nell’immondizia? Non può di certo sfuggirci come a Ciudad Juarez i corpi delle donne stuprate e massacrate venivano spesso ritrovati cosi, a pezzi, con parti mancanti. Un filo nero lega quei corpi disassemblati alle fabbriche maquiladoras (di assemblaggio) nelle quali le donne lavoravano.

Le mobilitazioni di Non una di meno latinamericana ci hanno raccontato di un aumento di femminicidi e di cadaveri disseminati nello spazio pubblico con l’obbiettivo pedagogico di segnare precisi confini e gerarchie nella società del capitalismo dei flussi. Questi femminicidi e sezionamenti di cadaveri parlano prima di tutto dell’adesione del singolo ad una corporazione di maschi e lanciano nello spazio pubblico dei segnali ad altri maschi. Trattasi di fatto di una guerra, una guerra tra maschi giocata per l’accesso a risorse tanto simboliche, quanto economiche e politiche. Una guerra – la guerra securitaria/identitaria – che produce e riproduce il maschile, le strutture di potere dl patriarcato, dentro le forme del para-stato (vigilantes, narcos,… fascisti) e dello stato-nazione stesso.  La guerra si nutre delle immagini dei media mainstream,  immagini violente a cui tutti i giorni siamo sottoposti e che ci abituano, modellano, assoggettano, producendo una sorta di narcolessia del linguaggio empatico.

Assemblaggi

La volta definitiva che mi sono resa conto che un modello lineare era evidentemente inefficace per analizzare identità e cultura ero seduta al parco su una panchina insieme ad altri due madri che guardavano i propri ragazzi giocare. Fin qui niente di eccezionale, se non che una della due madri era ecuadoriana, come del resto il figlio, e ad un tratto la conversazione prese una piega strana. La madre  italiana si lamentava della presenza in città dei  “migranti” fastidiosi e pericolosi. Mentre questa lamentatio proseguiva non notavo nella donna ecuadoriana, assistente ad anziani da oltre venti anni,  il minimo fastidio. Le due signore, dopo una amabile conversazione si salutavano affettuosamente.

Lavoro in questo periodo come insegnante in una scuola professionale e dopo i fatti di Macerata ho proposto  dei  momenti di discussione in  due classi maschili.

Difficile rendere conto di questa esperienza  scolastica che, che come nota Fisher, si situa  a cavallo tra il modello disciplinare e il nuovo modello del controllo. Perennemente immersi in un flusso di consumo perpetuo e a distribuzione continua, gli alunni delle mie classi giocano con i cellulari e mangiano incessantemente snack. Il mondo con cui hanno a che fare è un mondo prevalentemente di immagini, prima ancora che di parole e scritti.

Dopo una vivace discussione in una classe l’attenzione si focalizza presto sui media: “quelli  la’ (quelli che appoggiano Traini) vedono solo la televisione , non sentono e vedono altro.”

Le immagini che girano nel web e che ritraggono il fascista Traini dopo la sparatoria che ha ferito 6 migranti sono immagini significative: l’uomo viene fotografato in Caserma con la bandiera italiana sulle spalle. Il ritratto compassionevole del “cittadino italiano” esasperato.

Come tessere di un puzzle o di un mosaico il mainstream mediatico-politico offre alcune immagini efficaci per produrre, modellare gli assemblaggi della soggettività identitaria contemporanea. Oltre le figure stereotipate del ladro, dello spacciatore, dell’aderente alla baby-gang, la figura del “rifugiato” è di recente entrata nella narrazione tossica del circo mediatico come topos atto a suscitare emozioni e sentimenti contrastanti. In un’altra classe specificano, “non ce l’ho con X (compagno di classe che proviene dal Congo), suo padre lavora!  Ce l’ho con i rifugiati” “li dobbiamo mantenere noi”, “gli danno 30 euro al giorno per non fare niente, stessero a casa loro”.

Quando entro in classe oggi, i ragazzi mi mostrano dal cellulare il video diventato virale del fascista che spara dalla macchina, se lo girano e ridono. Per la “meme-generazione” potrebbe presto contendere il posto nella hit alle immagini di combattimenti di cani e alle scene della boxe che alcuni osservano spesso.

Di là dallo specchio del cittadino/lavoratore.

Ma cosa hanno in comune le figure astratte negative evocate dalla ideologia della guerra securitaria/identitaria? Dentro i confini dello “stato legale” potremmo dire che esse incarnano l’essenza stessa di quella che comunemente viene intesa come l’improduttività.

In altri termini come uno specchio le figure dell’alterità di questa guerra si costruiscono in contrapposizione alla immagine integra, quanto puramente ideologica del cittadino lavoratore (maschio) dello stato nazione.

Le stesse immagini evocate di un passato “italiano” migrante, tendono a produrre nelle retoriche una dualità con le migrazioni contemporanee; contribuiscono di fatto a “rifondare” la patria a partire dal recupero di una mitologia di epopea fordista-nazionalista, forgiata sull’immagine del “lavoratore italiano”, il padre di famiglia dalle mani incallite (produttivo).

Il cerchio è perfetto, il corollario si chiude. Lo stato nazione è chiuso a doppia mandata dalla ideologia del lavoro. Fuori sono gli altri/altre di volta in volta e all’occorrenza definite/i improduttivi, nella migliore delle ipotesi bisognosi di cure, interventi umanitari e diritti umani, nella peggiore soggetti pericolosi da sottoporre da galera ed espatrio.

La figura di questo mitologico lavoratore di fatto non ha nulla a che fare con la forza-lavoro contemporanea, con la centralità stessa della produzione/riproduzione delle condizioni di vita di tutte e tutti, stanziali e migranti.

Nessun antifascismo efficace si costruirà se non a partire dalla rottura di questa ideologia e dalla costruzione di nuovi assemblaggi, nuovi assemblaggi che ricostruiscano un noi della forza-lavoro, stanziale e mobile.

Di cosa parlano i chatbot quando parlano fra loro?

L’interpretazione prevalente del test di Turing e la tendenza ricorrente a cantare vittoria per il suo superamento (salvo puntuali smentite) rivelano che l’intenzionalità dell’intelligenza artificiale (AI) è quasi sempre indagata a livello cognitivo. Tuttavia, una recente ricerca condotta alla Tsinghua University di Pechino ha dimostrato che nell’interazione coi computer gli umani preferiscono nettamente i chatbot “emozionali”, quelli che già nel 2005 Bickmore & Picard definivano “relational agents”: agenti autonomi in grado di partecipare empaticamente alle conversazioni con gli umani perché istruiti a riconoscerne le diverse reazioni emotive. Nel caso della ricerca in questione, l’algoritmo che rende emozionali questi chatbot è stato creato taggando più di ventimila conversazioni del social network cinese Weibo e poi raggruppando le emozioni in cinque macro-categorie, molto simili alle reazioni introdotte su Facebook a partire dallo scorso anno.

Ovviamente, la performance di umanità che ci aspettiamo dalle macchine non rappresenta mai un umano generico e universale, ma assume precise caratteristiche che da un lato riflettono, dall’altro rinforzano precise relazioni sociali e di potere. Nel caso delle macchine-femmina – un esempio è la femminilizzazione delle assistenti virtuali, come Siri di Apple o Cortana di Microsoft – le connotazioni di genere servono a rendere la macchina allo stesso tempo, e paradossalmente, più macchina, cioè più funzionale perché più servizievole, ma anche più umana, cioè meno “fredda” perché più affettiva e seduttiva (aspetti considerati naturalmente femminili). Proprio questo secondo aspetto, la capacità di seduzione macchinica, e le possibili applicazioni commerciali dei chatbot emozionali, pare essere la preoccupazione principale dei ricercatori della Tsinghua University.

Do You Like Cyber?
Do you like cyber? Istallazione di Emilio Vavarella

Ma la seduzione delle macchine non è certo una novità, come ci ricorda la recente installazione sonora di Emilio Vavarella, Do You like cyber (2017) presentata in anteprima europea al Festival for Expanded Media di Stuttgart nel gennaio di quest’anno, ed esposta a maggio prima all’ADAF (Athens Digital Arts Festival) e poi all’interno della mostra The Sensorium, University of East London. L’installazione, infatti, si compone di tre (o più) speaker che emettono brani dei messaggi usati dalle fembot del sito canadese di dating Ashley Madison, recuperati da Vavarella dopo l’hackeraggio del sito e il leak dei dati avvenuto nell’estate del 2015: in occasione del quale, al di là dell’ovvio scandalo per la violazione della privacy degli utenti, è emerso anche che molti account erano connessi a mail false o rubate, e che la maggior parte dei profili femminili erano in realtà delle chatbot.

L’artista, in collaborazione con la giornalista americana Annalee Newitz che lo ha aiutato a interpretare i dati, ha utilizzato per il sonoro della sua installazione le frasi che molto probabilmente alcune AI insubordinate hanno usato per chiacchierare fra loro oppure provando a contattare le (poche) utenti donne realmente iscritte – peraltro le frasi più usate dalle fembot per attaccare bottone, e che, avendo fatto insospettire alcuni utenti per la loro meccanicità, hanno portato all’avvio di un’inchiesta. Il sonoro di Do you like cyber proviene da tre speaker parametrici che, a differenza dei normali speaker, emettono il suono direzionandolo in modo preciso – caratteristica utile, per esempio, per la trasmissione di messaggi in luoghi circoscritti di aree affollate e dunque per usi di pubblica sicurezza o commerciali –, così che, rimbalzando sulle pareti, questo crei un effetto di straniamento rendendo difficile identificarne l’origine. Da chi vengono questi messaggi? A chi sono realmente indirizzati?

Come racconta Newitz in uno dei pezzi pubblicati su Gizmodo, il sito di dating ha creato nel tempo circa 70 mila falsi profili – usando anche linee di testo ripescate dalle conversazioni esistenti e ri-tradotte in altre lingue, oppure rimodellando profili abbandonati con tanto di foto – che inviavano milioni di messaggi agli utenti maschi cercando di adescarli. Se è evidente che anche chi realmente usa il sito lo fa spesso attraverso un falso profilo per mantenere l’anonimato, confrontando però una serie di dati, tra cui i tipi di indirizzi email, la ricorrenza di certi nomi, le evidenze dei pagamenti, l’effettivo controllo delle caselle dei messaggi sul sito e l’uso della chat, Newitz si è accorta che “di 5 milioni e mezzo di account femminili, praticamente lo 0% mostrava una qualche forma attività dopo la sua creazione […] mentre più di 20 milioni di uomini controllavano regolarmente la loro casella di posta e più di 10 milioni iniziavano conversazioni in chat”; ma soprattutto che “l’80% dei primi acquisti sul sito di Ashley Madison era conseguente al tentativo di un uomo di contattare una bot, o di leggere un suo messaggio”.

Se nel 2013 il sito ammetteva di creare le Ashley Angels a uso “intrattenimento” e per un’eventuale raccolta dati sulle preferenze d’uso (limitata ai soli ospiti), nel 2015 questa ammissione era scomparsa dai termini del servizio, e restava solo un generico riferimento alla possibilità che le comunicazioni potessero contenere anche elementi di fantasia. Il punto è, come ha sottolineato Newitz, che solo il 19% degli utenti maschi si era iscritto al sito dopo aver fatto conversazione con una donna in carne e ossa piuttosto che con una fembot, col risultato che le fembot generavano quasi la metà dei guadagni di Ashley Madison. Dopo l’apertura di un’indagine ufficiale lo scorso anno, l’azienda canadese dietro il sito, la Avid Life Media, ha cambiato il suo nome in Ruby Corp. (che si siano ispirati all’Agent Ruby di Lynn Hershmann?), e ha ribrandizzato il sito, cambiando il primo slogan inneggiante all’infedeltà coniugale “Life is short. Have an affair” col più soft “Find your moment” .

La singolare scelta di lasciar parlare le fembot in Do You Like Cyber, piuttosto che di parlare per l’ennesima volta di loro, tuttavia, ci mette in contatto con una seduzione macchinica differente, indecifrabile ma non funzionale – dunque non minacciosa –, una potenza affettiva dell’intelligenza artificiale che ha luogo fuori dalle regole della logica e dell’utile. Si tratta, per Vavarella, di esplorare le possibilità di una creatività postantropocentrica, dove l’altro non umano parla o agisce senza lasciarsi tradurre in uno specchio o uno strumento dell’uomo. Come accade anche nel recentissimo Animal Cinema, un assemblaggio di frammenti video presi da YouTube i cui operatori sono animali che si sono impossessati autonomamente degli strumenti per girare. La manifestazione dell’AI ha conseguenze imprevedibili che non possono essere comprese esclusivamente attraverso un paradigma cognitivistico. Per Vavarella, la libertà che l’arte ha di non dover dare risposte può fare spazio all’incontro fra noi e gli altri non umani prima o al di là delle parole. L’altro, infatti, non richiede di essere compreso o spiegato nel linguaggio dello stesso, ma incontrato là dove le nostre parole sono fuori luogo, perché quello è il luogo dove l’altro esiste già senza di noi.

 

André Jaque's Intimate Strangers

Rimorchiati dal design. Lo spazio pubblico e la politica dell’interfaccia di Grindr.

Ci siamo incrociati nel caos della grande manifestazione contro la violenza maschile sulle donne: aveva folte sopracciglia che facevano ombra su uno sguardo sghembo, la barba corta disegnava morbidi vortici sulle guance, vestiva una t-shirt che gli stava come su una gruccia e uno shopper di tela bianco. L’avevo già visto altrove, campeggiava da mesi tra i suggerimenti delle persone che avrei potuto conoscere su Facebook. Una sera qualche giorno più tardi, prima di parcheggiare la testa sul cuscino, stanco della geografia disegnata dal mio Grindr, attivo uno dei pochi filtri gratuiti disponibili – le tribù – e scelgo otter.

Il ghigno di una lontra

Da quello che vedo capisco che i ragazzi-lontra, gli otter, sono come gli orsi, ma meno grossi. È tutto quel che so, non so se esiste una cultura che sostiene quel tipo di corpo, se di corpi si parla. Il primo è a 180 km. Ho imparato a indovinare le località geografiche dal numero di km. 200 metri indica l’Holiday Inn che vedo dal terrazzo, 3 km il centro storico, 400 km Firenze, 700 Torino, 1600 Londra, 180 km è Roma. Il primo era lui, quello della manifestazione, in una smorfia che gli alzava l’angolo della bocca e gli corrugava la fronte. “Ciao, ti ho visto alla manif, ma non ti ho fermato perché non sono bravo con ‘ste cose, ti va di fare due chiacchiere?”.

Esiste una geografia differente sulle applicazioni per incontri, disegnata dalle coordinate di ogni dispositivo che intimamente si connette ai desideri (e alla noia) di ogni corpo e li cattura in parametri come altezza, età, tribù, e un motivo per restare connesso. Incontro? Sesso? Amicizia? Chat? Frequentazione? Relazione? No. La noia non è prevista in questa geografia. È una geografia viscosa che si fa più densa nelle grandi città, in cui la versione gratuita non ti fa guardare oltre i tre isolati e più rarefatta nelle periferie dove la persona più prossima è a un’ora di macchina. È una geografia stratificata in cui persone che calpestano lo stesso fazzoletto di terra, non riescono a incontrarsi perché planano negli strati delimitati dalle proprietà che definiscono la propria identità e il proprio desiderio.

Nonostante sia ancora imberbe, Grindr ha rivoluzionato la socialità non solo nella comunità gay insegnandoci un nuovo modo di utilizzare lo smartphone, ma è ormai un riferimento tecnoculturale presente in romanzi, film, serie televisive e istallazioni artistiche. Lanciata nel 2009 da Joel Simkhai, l’applicazione con il suo design a griglia ha in qualche modo sdoganato l’uso delle chat online non più percepite come pericolose o disegnate per persone che non sono in grado di gestire la propria socialità e la propria sessualità offline. Le app hanno aperto nuovi spazi di interazione tra il mondo fisico e quello virtuale ed ogni app di geolocalizzazione installata da un utente sul proprio smartphone è un modulo che lo soggettivizza all’interno di una spazialità che non è più pubblica ma nemmeno completamente privata. Dopo essere stata citata da Stephen Fry nel programma britannico Top Gear, i download dell’applicazione sono aumentati esponenzialmente e assieme ad essi le perplessità che riguardano la privacy, triangolazione e tracciabilità.

Il design a griglia di Grindr e messaggi diretti alla sicurezza degli utenti in contesti di omofobia istituzionale

L’arte ai tempi di Grindr

Nel 2014 l’artista olandese Dries Verhoeven scosse il dibattito sul tipo di spazialità generata da questo tipo di app con la sua installazione Wanna Play? Liebe in Zeiter von Grindr – l’amore (sic!) al tempo di Grindr. La performance-residenza, commissionata dallo spazio berlinese Hebbel am Ufer (HAU) e dal governo olandese, consisteva in un container che riproduceva e confondeva lo spazio fisico con quello digitale: la quarta parete del container era infatti una vetrata che permetteva la visione dell’ambiente interno. Sulla parete posteriore venivano invece proiettate le schermate dell’app di Verhoeven, in negativo. La proiezione dei profili e delle conversazioni era stata percepita come un attacco agli abitanti di Kreuzberg, quartiere storicamente abitato da persone migranti (e) LGBTQI. In particolare un utente di Grindr, Parker Tilghman, dopo essersi reso conto che le conversazioni con Verhoeven erano state proiettate in pubblica piazza senza il proprio consenso, recatosi all’appuntamento nel container di Verhoever, gli sferrò un pugno e in seguito lo chiamò Stupratore digitale su Facebook. In un lucido e arrabbiato articolo pubblicato dal Mute Magazine la settimana successiva, Jacob Rosemberg smantellava il container concettuale di Verehoven (e il tentativo da parte di HAU di mettere a valore l’incidente cucendo la ferita apertasi con il filo dell’arte relazionale). L’articolo smontava in particolar modo la convinzione dell’artista di sollevare il dibattito su cosa fosse lo spazio pubblico e privato ai tempi di Grindr, facendo notare che la sfera pubblica e quella privata – e la distinzione tra le due – si inseriscono in un contesto determinato da interessi privati.

Di tutt’altro tenore è invece l’istallazione Intimate Strangers di Andrés Jaques e del suo studio di architettura critica Office for Political Innovations, in corso fino ad aprile 2017 al Design Museum di Londra nell’ambito della mostra Fear and Love fino ad aprile 2017. Esplosa su differenti schermi di diverse forme e dimensioni, e divisa in 4 episodi, Intimate Strangers apre alle contraddizioni di Grindr e delle applicazioni di proximity-based people discovery, al modo in cui cattura la soggettivazione degli utenti e dalle linee di fuga che apre. Nei 4 episodi l’architetto ispano-americano racconta le hook up apps come tecnologia di un urbanità transmediale, la cui diffusione nelle grandi città rispecchia in qualche modo il processo di gentrificazione di quartieri queer informali e la costruzione di un nuovo mainstream, ma anche come tecnologia che si apre al controllo (in Stati con leggi omofobe) e come tecnologia di resistenza per la costruzione di reti solidali. L’installazione di Jaque è stata pubblicizzata sui social di Grindr, ma se il blog di Simkhai sul sito di Grindr e il suo account Instagram ci raccontano un’app aperta sensibile alla queer politics, il design dell’esperienza utente dell’applicazione narra una storia diversa.

Spazio pubblico digitale e soggettivazione

È Tim Dean nella sua autoetnobiografia sul bareback (come pratica e come sottocultura) a tracciare la genealogia della logica di privatizzazione e di messa in sicurezza di spazi altrimenti aperti e attraversabili, in cui i corpi si incontra(va)no, esprimendo l’eccedenza rispetto alla forma di intimità familiare legittima e saldando così solidarietà che emergevano in forme anonime di intimità illimitate. Il buio notturno degli spazi aperti si è man mano rischiarato nella penombra delle darkroom, nell’opacità delle saune, e in fine nello spazio digitale che brilla di luce propria dallo schermo LCD degli smartphone. A questa graduale illuminazione, le app hanno corrisposto un processo di messa in sicurezza (security) del rischio nell’incontro, senza però creare uno spazio sicuro (safe).

Le applicazioni per incontri hanno tirato lo spazio del cruising fuori dai suoi confini scuri redistribuendolo su quello urbano ma nel privato delle case, delle palestre, delle discoteche frammentando la socialità di soggetti-dati che si dis-vedono a vicenda in base al desiderio che le app catturano. Come nel romanzo di China Miéville, La città e la città , le app producono spazialità multistrato in cui la cittadinanza (nel caso del romanzo) o l’identificazione con una tribù (come vengono chiamate da Grindr) dirige la socialità su binari che solcano lo stesso spazio ma che non si incontrano mai. La dis-visione o visione selettiva è una tecnologia di confine tipica nelle interfacce di questo tipo di app e governa la socialità tra i suoi utenti.

Per Benjamin Bratton, il software è una forma di governo che si distribuisce su una geografia verticale sebbene non gerarchica, non più compresa soltanto dai confini geografici, ma da una sovrapposizione di infrastrutture, di utenti, di città e di interfacce e, ovviamente, di piattaforme. Le interfacce delle piattaforme che restituiscono una nuova visione del mondo, rispondono a una logica e a una architettura di programmazione problematica perché mette a lavoro i corpi che transitano sulle app e ne producono una narrazione, espropriandoli dei propri dati: le piattaforme e le loro interfacce disegnano una società a propria immagine e somiglianza.

Da Buzzfeed: se i personaggi Disney fossero su Grindr

La narrazione prodotta dalla quantificazione del sé accompagna la ricodificazione di pratiche dirompenti, ad esempio quella degli orsi, inizialmente una controcultura in rotta di collisione col paradigma estetico maschile dominante, in identità che riaffermano il modello di mascolinità egemonica, spesso bianca (mxm, no grassi, no feminelle, no asiatici, no neri). In questo spazio, in cui anche la posizione geografia dell’utente ne definisce un aspetto ovvero una proprietà, il sé quantificato ci interpella da un punto di vista politico e ontologico.

Dalla prospettiva transfemminista queer, Nina Ferrante osserva come la promessa lasciata dal postmodernismo negli anni 90, ovvero quella di identità temporanee e liquide abbia lasciato il posto alla cristallizzazione di pratiche come vetri di un caleidoscopio di identità date. Ad esempio, l’apertura di Facebook rispetto al binarismo dei generi, in seguito a una protesta di trans* e drag-queen che reclamavano la materialità delle proprietà dei corpi online, seppur non disciplinando i corpi degli utenti, non rompe il paradigma dell’identità, ma a partire dai data-commons prodotti (i post di protesta on-line) ha implementato una logica del +1 che non mette seriamente in questione tale paradigma né da un punto di vista politico né da un punto di vista di ecologia di dati. Al contrario se ne fa proprietario e lo governa.

Sulla base di questo tipo di governance delle pratiche nel loro cristallizzarsi in identità, Tim Dean sottolinea l’eccesso prodotto dalle occasioni nel loro divenire proprietà. Secondo Dean, molte persone che praticano sesso senza preservativo (come molte coppie monogame gay) non si riconoscono in una sottocultura bareback, né il porno anni ’70 veniva commercializzato come tale. Piuttosto la codificazione della sottocultura è partita dalla massiccia campagna di profilassi all’indomani dell’epidemia AIDS tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Allo stesso modo, il dispositivo biopolitico dell’interfaccia di Grindr (la griglia, i parametri) individua un insieme di dati fisici, estetici, etnici, culturali e medici ridotti in proprietà e identità spesso non sovrapponibili (almeno nella versione gratuita).

Le proprietà e l’esperienza utente

Grindr e la quantificazione del sé

Ma a chi appartengono le proprietà di un corpo, se per proprietà si intendono sia gli attributi che i possedimenti? Traendo spunto dalle tesi del filosofo e matematico inglese Alfred North Whithead,  Stamatia Portanova sostiene che le proprietà dei corpi vengono individuate attraverso i “dati iniziali” o le occasions (ovvero gli incontri, le pratiche); il lavoro di individuazione risulta nella produzione di data commons che vengono misurati e messi a valore online. L’eco-logica capitalista delle app per incontri cattura le proprietà emergenti dei corpi imbrigliandoli nel lavoro di interazione con la app stessa. Dal momento che gli attributi sono anche possedimenti, le griglie dell’interfaccia li trasferiscono nell’economia della condivisione sotto forma di informazioni o oggetti-dati.

Non solo alcuni dati sono ritenuti dall’applicazione come spazio digitale privatizzato ma sono le stesse relazioni sociali che vengono frammentate e ridotte a una comunicazione uno-a-uno e rese invisibili agli utenti. Un app dei commons, continua Portanova, restituirebbe la ricchezza generata dai dati ai “legittimi proprietari” ma non romperebbe con il funzionalismo dell’ecologia delle app, secondo il quale l’unico punto di accesso all’app è la funzionalità che soddisfa il desiderio (there’s an app for that!). E tuttavia, è l’essere disfunzionale delle app per incontri a renderle così popolari.

Parlando con un amico della mia ricerca, ci siamo lanciati in un esercizio di design fiction à la Black Mirror, immaginando un’applicazione che, come Uber e Airbnb, permetta di dare un voto alla performance del partner sessuale/amante incontrat* online. Questo esercizio distopico mi ha fatto riflettere sulla necessità di immaginare l’app-a-venire partendo da una visione politica della progettazione dell’esperienza utente (UX Design). Non conosciamo gli scenari che la tecnologia ci riserverà nel futuro, ma per il momento il digitale fa parte della nostra esperienza del reale. Eppure possiamo già immaginare le funzioni della app a venire, ancor prima di avere in mano smartphone quantici che sconvolgano le nostre categorie di pensiero. E lo si può fare a partire dall’occasione che l’app vuole generare, non più l’incontro ma una ecologia di relazioni e di dati di proprietà comune per fare in modo che la geografia disegnata dalle app sia sicura (safe e non secured), solidale e non identitaria.

È tardi e mi sono addormentato con il telefono acceso. Mentre io dormivo il mio sé quantificato si mostrava disponibile a chattare, incontrare, annoiarsi assieme. Il mattino seguente leggo la sua risposta “mi andava di scambiare due chiacchiere ma sono crollato”. Fine delle comunicazioni.

Capitalismo delle piattaforme e governo della società. La ‘global community’ di Facebook

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Qualche giorno fa, il presidente e fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una lettera  che contiene alcune affermazioni programmatiche molto interessanti sul futuro della piattaforma, quali le priorità e la visione di insieme che sottenderà i prossimi sviluppi della programmazione. Si tratta di un documento molto rilevante, nella misura in cui si inserisce nel dibattito più generale sulle grandi aziende statunitensi che gestiscono i più grandi servizi online e i processi politici che li vedono coinvolti. Pensiamo per esempio ad alcune delle accuse più ricorrenti rivolte al gigantesco social network dai politologi americani e non solo, cioè che il medium crea delle ‘filter bubbles’ esponendoci solo a opinioni simili alle nostre (quella che Zuckerberg definisce ‘riduzione della diversità informativa’ e quindi il rischio della polarizzazione) e che non permette di distinguere le notizie vere dalle false (le famose bufale), definite dal miliardario americano come il rischio del ‘sensazionalismo’. Di fronte a questi rischi ed ‘errori’, come vengono definite, Facebook promette maggiori investimenti nelle sue tecnologie di intelligenza artificiale (A.I.), prefigurando algoritmi in grado non solo di distinguere il vero dal falso, ma di gestire il feed degli utenti in modo tale da evitare sia la ‘bolla del filtro’ che la polarizzazione delle opinioni, selezionando una varietà di punti di vista da cui costruire una opinione più equilibrata. Facebook si pone dunque esplicitamente nella inedita posizione di governatore dell’informazione sociale, e quindi come nuova infrastruttura della società (post)civile globale.

Rispetto ai giorni in cui l’azienda rifiutava fermamente, seguendo l’esempio di Google, l’idea di essere una media company, definendosi in primo luogo come una azienda a vocazione tecnologica, si tratta di un importante mutamento già annunciato qualche mese fa. In questo modo, la piattaforma comincia a collocarsi esplicitamente nel dominio dei media, quindi paragonandosi a media come la televisione e la stampa, e come conseguenza accollandosi anche le responsabilità politiche della governance. Se, da un altro punto di vista, grandi aziende della Silicon Valley hanno stabilito la governance attraverso piattaforme informatiche (Internet delle cose, smart city and smart government, sharing economy, gig economy etc) come loro campo di azione, Facebook è l’unica che sposta l’asticella di questo intervento dalla regolazione algoritmica dei flussi logistici, alla regolazione diretta di quello che il documento definisce il ‘tessuto sociale’, cioè alla modulazione dei processi associativi e e dei ‘valori collettivi’ che da essi emergono.

Abbiamo visto nei giorni della vittoria di Trump, una presa di posizione politica  da parte dei giganti della Silicon Valley, che, con l’eccezione di Uber  (che infatti ha subito un boicottaggio con l’hashtag #DeleteUber), si sono schierate generalmente con l’opposizione, diventando i portabandiera della tradizione liberale americana e dei suoi valori (esemplificati dalla citazione di Lincoln con cui la lunga lettera di Zuckergberg non a caso si chiude), ma anche della globalizzazione contro la minaccia ultranazionalista del populismo di Trump. Se il motto che sintetizza la missione di Facebook, è “rendere il mondo più aperto e connesso”, questo si sposa male con la chiusura nazionalista di eventi come la Brexit e l’elezione dell’imprenditore americano. La lettera presenta Facebook come il governatore di un tessuto sociale globale connesso che si individualizza in ambienti e regioni specifiche (dalla Germania all’India, dall’Egitto al Nepal) che producono ‘norme culturali’ eterogenee, non governabili a partire da una unica norma. La curva della normazione , che Foucault  descriveva relativamente ai meccanismi di sicurezza, variabile e differenziata, sostituisce la ‘normalità’, mentre l’apertura e la connessione realizzano la continuità del processo di valorizzazione.larger

Se come notavano autori diversi quali Celia Lury e Maurizio Lazzarato   qualche anno fa, l’azienda postfordista non produce in primo luogo merci, ma mondi in cui vivere, ecco che Zuckerberg presenta la missione della sua azienda, il suo ‘viaggio’ come ‘creazione di un mondo’ naturalmente ‘aperto e connesso’ che porti avanti ol processo espansivo di socializzazione che porta l’umanità, nelle parole della lettera, ‘dalle tribù, alle città, alla nazione’, verso una dimensione inevitabilmente globale. E’ una nuova immagine del vecchio eurocentrico concetto di progresso, che nella visione di Zuckerberg conduce verso un sempre maggiore processo di socializzazione planetaria. Facebook si presenta dunque, come tutta la Silicon Valley, come rappresentante di una forza di globalizzazione che implicitamente oppone la chiusura nazionalista della Brexit e di Trump. La missione di Facebook diventa quindi quella di facilitare ed espandere il processo di globalizzazione nella misura in cui quest’ultimo presenta delle ‘sfide’, dei ‘rischi’ e delle ‘opportunità’ che possono essere colte soltanto da quella che la lettera descrive come una ‘comunità globale’.

La lettera dunque rende esplicite quelle che sono le sfide della costruzione di nuove ‘infrastrutture sociali’ che permettano alla comunità globale di organizzarsi e rafforzare quel ‘tessuto sociale’ compromesso dalla globalizzazione stessa. E’ interessante notare come questa spinta a costruire una comunità globale si dia nel contesto dei problemi di governance incontrati dai gestori della piattaforma e che questa nuova visione sia centrata attorno ai ‘gruppi’. Zuckerberg dunque sposta il focus dalle reti sociali interpersonali (quali quelle accumulate da un profilo personale) alle ‘pagine’ (che costituiscono il motore dello sfruttamento economico della piattaforma con i loro ‘mi piace’) ai ‘gruppi’ come focus degli investimenti futuri, ponendosi paradossalmente come l’inventore della sociometria, lo psichiatra Jacob Moreno , il problema della regolazione psicosociale della vita delle popolazioni.

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E’ sulla questione dei gruppi che emerge la visione e il modello di società che Facebook propone come soluzione alla crisi di governance globale (ma significativamente non alla crisi economica).

Sono convinta che non è un caso che la questione dell’infrastruttura sociale, come la chiama Zuckerberg, sia emersa attorno alla popolarità dei ‘gruppi’ sulla piattaforma, identificati come area per cui costruire nuovi servizi. In particolare Zuckerbeg si riferisce a quelli che vengono definiti ‘gruppi molto significativi’, cioè gruppi che diventano velocemente luoghi di sostegno e di cura per individui isolati da una condizione specifica (una rara malattia, per esempio, o anche gli sposi e le spose dei militari costrette a spostarsi di città in città senza poter costruire una vera rete sociale). A differenza delle reti interpersonali (amici, famiglia e conoscenti), i gruppi non solo resuscitano la vecchia immagine della ‘virtual community’ centrata sulla cura di cui parlava Howard Rheingold nei primi anni novanta, ma la integrano in un ‘tessuto sociale globale’, che è identificato con la piattaforma nel suo insieme. Le comunità di Facebook o gruppi performano tutte le funzioni che ancora oggi altri servizi online permettono (pensiamo alla piattaforma Slack o ai forum anonimi per vittime di violenze), ma le performano all’interno di un unico network privato con una architettura centralizzata server/client (o cloud) che ospita una popolazione di miliardi di utenti modellata attraverso il diagramma del grafo sociale e i metodi della social network analysis. Il sociale per Zuckerberg non è, come sostengono molti critici dei social, un sociale fatto di individui isolati e connessi (insieme ma soli come diceva Sherry Turkle), ma un social composto da gruppi e sotto-gruppi. nella misura in cui è il gruppo, non la comunità il referente tecnosociale che sottende la piattaforma e nella misura in cui lo’individuo non esiste se non come membro di un gruppo, per quanto piccolo esso sia. La società evocata da Zuckerberg con il nome di comunità e un insieme di sotto-insiemi connessi, cioè insieme topologicamente discontinui e continui che restituisce l’immagine di un globo eterogeneo ma connesso. Evocando implicitamente i primi studi della social network analysis, Zuckerberg descrive la società come un granuloso tessuto di piccole reti, che uniscono e differenziano, ma che compongono anche dopotutto un singolo plateau. E’ questa specifica composizione che permette, per Zuckerberg, alla rete sociale di diventare l’infrastruttura attraverso cui rispondere alle crisi globali, identificate significativamente e principalmente con il terrorismo e il cambiamento climatico.

SAN FRANCISCO, CA - SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)
SAN FRANCISCO, CA – SEPTEMBER 22: Facebook CEO Mark Zuckerberg delivers a keynote address during the Facebook f8 conference on September 22, 2011 in San Francisco, California. Facebook CEO Mark Zuckerberg kicked off the 2011 Facebook f8 conference with a keynote address (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Qualche anno fa, l’antropologa e attivista americana del movimento Occupy, Joan Donovan mi ha raccontato come è stato il movimento Occupy ad avere utilizzato per primo in maniera significativa e orientata politicamente la capacità logistica delle reti sociali, cioè la loro capacità di trasformarsi da reti di opinione a reti capaci di coordinare azioni su larga scala. Quando l’uragano Sandy si abbattè su New York, il movimento Occupy si dimostrò capace di mobilitare un processo di raccolta e movimento di risorse che dimostrò una capacità di ‘autogoverno dell’emergenza’ che i governi locali e nazionali stremati dai tagli non riescono quasi più a dare. La maggior parte degli usi innovativi della piattaforma raccontati dalla lettera vengono dagli utenti, dall’intelligenza di quella general sociality catturata da questi nuovi media. Nel suo lavoro più recente, Donovan ha iniziato a definire ‘ipercomune’ (o hypercommon) la capacità di cooperazione sociale resa possibile dalle reti, che rendere possibile nuove forme di autogoverno e modelli di produzione, che si differenziano sia dal modello statale che da quello aziendale.

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Significativamente, Zuckerberg non inserisce tra le priorità politiche per la nuova comunità globale, la crisi del debito, la precarietà, lo sfruttamento o la tragedia delle migrazioni, ma si ferma alle pandemie, al terrorismo, e al cambiamento climatico. La piattaforma diventa il modo attraverso cui la società si difende dai danni e li previene. Il cambiamento sociale sta tutto nella capacità di individui (la ‘nonna’ che avrebbe iniziato il movimento della marcia delle donne contro Trump è l’esempio più significativo) di viralizzare la rete sociale come infrastruttura della mobilitazione. Se la piattaforma sta proponendo una alternativa al protezionismo ipernazionalista di May o Trump o delle nuove destre, lo fa rimanendo comunque fermamente all’interno di quello che Nick Srnicek ha definito il ‘capitalismo delle piattaforme’  – oggetto dell’importante incontro organizzato da Euronomade e Macao a Milano degli inizi di marzo.

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In sintesi, il documento di Zuckerberg rende ancora più chiaro come Silicon Valley stia formulando quella che Foucault descriverebbe come una nuova ‘razionalità politica’, che assume l’eredità del liberalismo e nel neoliberalismo nell’identificare il problema principale il governo delle ‘popolazioni’ (i milardi di utenti), la massimizzazione della loro vita sociale, politica e culturale, e la protezione dai ‘rischi’ e ‘errori’ della circolazione dell’informazione (dalle notizie false, sensazionalismo, polarizzazione, divisioni al terrorismo, il cambiamento climatico e le pandemie) all’interno di una economia di mercato globale che non mette però mai in discussione i rapporti di proprietà o l’accumulazione di valore economico. Insieme al movimento della Silicon Valley per la smart city (aspramente criticato tra gli altri per esempio da Evgeny Morozov ), il capitalismo delle piattaforme intensifica la sua vocazione a farsi governo della società. Quali forme di tecnopolitica e non solo possono rispondere a questa nuova configurazione?