Skip to main content

Fantasie tecnoliberali: automazione, razza e intelligenza artificiale

immagine in evidenza (geralt at Pixabay) 

(Tratto da una lezione del corso di Teorie dei Media Digitali, Lauree Magistrali in Lingue e comunicazione interculturale in area euromediterranea; Europa e Americhe; Asia e Africa, Università di Napoli, L’Orientale)

 

Il saggio di Neda Atanasoski e Kalindi Vora Surrogate Humanity: Race, Robots and the Politics of Technological Futures. (pubblicato dalla Duke University Press, 2019 come parte della serie Perverse Modernities, curata da Jack Halberstam and Lisa Lowe) inizia con due vignette, una pubblicata sulla copertina della rivista Mother Jones (iconica rivista della sinistra radicale americana), e un’altra sulla copertina del New Yorker (storica rivista della sinistra liberale americana). Entrambe risalgono al 2017 durante uno degli ormai ricorrenti dibattiti sulla minaccia costituita dalla rivoluzione robotica e dall’intelligenza artificiale al lavoro umano.

La prima vignetta è una variazione sulla famosissima foto del 1932 “Pranzo sul Grattacielo”, scattata nel periodo della Grande Depressione quando la disoccupazione negli Stati Uniti era al 50%, quella per intenderci che ritrae un gruppo di operai che pranzano seduti sulla putrella di un grande grattacielo in costruzione. Al posto degli operai umani però nella vignetta di Mother Jones ci sono i robots che condividono il pranzo con un singolo solitario lavoratore umano.  La seconda è una copertina del New Yorker che rappresenta un giovane maschio bianco in evidente tenuta da senza tetto che seduto a terra chiede l’elemosina ad una folla di passanti-robot, che invece lo ignorano superandolo con le loro borse dello shopping mentre controllano i loro smart phones.

Queste due copertine sono esemplificative di una proliferazione di discorsi sulla rivoluzione robotica e dell’Intelligenza Artificiale, e in particolar modo della reazione da parte delle sinistre nei paesi del Nord globale. Le due vignette riprendono un ritornello familiare: i robots (o adesso l’Intelligenza Artificiale) sostituiranno il lavoro umano, non solo quello manuale, ma anche  altri tipi di lavoro (avvocati, medici, giudici, notai, e adesso anche giornalisti, educatrici, e artist*) che sembravano essere immuni dalle precedenti ondate di automazione.

I robots e le IA, dunque, libereranno gli umani dal lavoro meccanico e ripetitivo, permettendo loro di riservare a sé quello più creativo, oppure diventeranno i nuovi padroni del mondo? Oppure, come sostengono gli articoli che accompagnano le vignette di cui sopra, è solo che l’automazione senza distribuzione dei ‘frutti del lavoro robotico’ creerà disoccupazione e povertà di massa? E perché la disoccupazione e povertà di massa sono rappresentati come il risultato di una “sostituzione robotica”, dove “loro” (i robots) dopo essersi sostituiti agli umani diventano padroni riducendoli in povertà “a casa nostra”?

Nella produzione di discorsi e immaginario attorno a robots e intelligenza artificiale, dicono Atanasoski e Vori, la domanda sulla questione della sostituzione robotica del lavoro umano è una che proviene da un soggetto del lavoro che si qualifica come universale, ma che è in pratica codificato come bianco e maschio.

In realtà, come sottolineano le autrici, l’automazione del lavoro fino ad ora ha colpito e sostituito in primis funzioni lavorative e tipi di lavoro umano che sono specificamente razzializzati e femminilizzati (lavoro manuale, lavoro di cura, lavoro fatto dai poveri, i non educati, i colonizzati e le donne) e allo stesso tempo creato nuovi tipi di lavoro invisibilizzato che è performato dagli stessi soggetti sociali (data cleaning, human intelligence tasks etc). Per Atanasoski e Vora, le tecnologie dell’automazione (robot, AI, infrastrutture digitali, piattaforme) sorgono nel contesto di quello che Cedric Robinson in Black Marxism: the Black Radical Tradition (1983) chiamava capitalismo razziale. Per Robinson, il capitalismo è nato come estrazione di valore sociale e economico da soggetti dalle identità razziali marginalizzate. Tutto il capitalismo è intrinsecamente capitalismo razziale nella misura in cui non opera omogenizzando le differenze precedenti, ma le usa e le enfatizza per distinguere e differenziare le popolazioni. Secondo Robinson, il razzialismo è presente in tutta l’economia capitalista. Addirittura, secondo Denise Ferreira da Silva, l’equazione del valore nell’economia capitalista funziona proprio perché rende il valore prodotto dal lavoro razzializzato uguale a zero.

Il saggio di Atanasoski e Vora si inserisce in un filone di riflessioni attorno alle tecnologie digitali, e in particolar modo robotica e intelligenza artificiale, che pone il problema della relazione storica tra razza e tecnologia. Ci sono naturalmente approcci che enfatizzano il potenziale discriminatorio delle nuove tecnologie digitali, cioè il modo in cui vengono usati per riprodurre la discriminazione e lo sfruttamento razziale. Per esempio secondo Ruha Benjamin, le nuove tecnologie automatizzano le diseguaglienze e costituiscono a tutti gli effetti l’implementazione di nuove forme di segregazione (quello che chiama il “nuovo Jim Code”, riferendosi alle politiche segregazioniste negli Stati Uniti dopo la guerra civile che aveva portato all’abolizione formale della schiavitù) (Race After Technology: Abolitionist Tools for the New Jim Code, Wiley 2019).

Anche per Wendy Chun, le tecniche e i modelli usati dalle piattaforme digitali (e quindi confluiti nell’IA) sono tendenzialmente discriminatory (Discriminating Data: Correlations, Neighborhood and the New Politics of Recognition, MIT Press 2021). Come sottolineato nel podcast della rivista L’Internazionale nel suo report sull’approvazione della nuova legislazione europea sull’Intelligenza Artificiale del 13 giugno 2023, quest’ultima non solo non offre nessuna protezione ai migranti ma li espone anche potenzialmente all’uso dell’AI contro di loro

.

Oltre a queste declinazioni apertamente discriminatorie delle tecnologie, esiste però anche un filone di riflessioni sulla natura costitutiva del rapporto tra razza e tecnologia. Già Louis Chude-Sokei in The Sound of Culture (Wesleyan University Press 2016), aveva sottolineato come razza e tecnologia abbiano storie parallele e relazioni culturali di lunga data. Per Chude-Sokei, il modo in cui conosciamo e capiamo la tecnologia è stato a lungo intrecciato con come abbiamo usato e costruito il senso della razza: “il linguaggio dell’una è consistentemente dipendente da e/o infetto con il pensiero sull’altro”. Secondo Chude-Sokei, la tecnologia, è sempre stata razzializzata o articolata in relazione alla razza e la robotica e la cibernetica erano in conversazione espliciti con metafore e analogie razziali.

Per Atanasoski e Vora, il “tecnoliberalismo”  contemporaneo (quello rappresentato dal capitalismo di piattaforma o da quello che potrebbe essere definito un vero e proprio complesso di piattaforme corporative)  riprende dunque questa relazione che si è formata nei tempi in cui, come Chude-Sokei riporta, i problemi più urgenti del mondo transatlantico erano l’industrializzazione e la schiavitù (cioè il diciannovesimo secolo). Nel ventunesimo secolo per Atanasoski e Vora, è l’ideologia tecnoliberista a promuovere l’idea che le macchine possano prendere il posto dei lavoratori e lavoratrici che fanno i lavori più umili, faticosi e ripetitivi permettendo al soggetto umano (identificato con soggetto maschile e bianco) di essere veramente umano (cioè creativo).

L’immaginario tecnologico utopico e paranoico si basa su questo desiderio e paura di tecnologie che agiscono come surrogati che liberano gli umani dal dover performare compiti storicamente degradanti. Gli oggetti tecnologici sono definiti come magici o incantati (robot che spazzano per terra, alexa che ci ricorda la lista della spesa o trova la musica che ci piace etc), cioè come tecnologie che intuiscono i bisogni umani e servono i desideri umani. L’effetto è quello di offuscare il lavoro dietro queste macchine per creare l’effetto magico dell’autonomia. Oggetti tecnici come Alexa e Roomba dunque riproducono e perpetuano il ruolo del lavoro non libero e invisible che sostiene l’apparente autonomia del soggetto liberale (lavoro servile, schiavizzato, lavoro di genere domestico). Il soggetto tecnoliberale immagina la tecnologia come magica e non il prodotto del lavoro umano invisibilizzato .

La storia del rapporto tra tecnologie, umano e non proprio umano inizia nel libro nella seconda metà del ventesimo secolo con l’egemoinia culturale statunitense, ma si focalizza sulle nuove tecnologie digitali, la robotica e l’AI (i tecno-oggetti e i discorsi politici che li inquadrano) per dissotterrare le storie oscure che delimitano i progetti ingegneristici tecnoliberali e il loro essere focalizzati su efficienza, produttività e accumulazione attraverso lo spossessamento. La modernità tecnologica è solo apparentemente neutrale in realtà è pervasa dalla politica razziale, di genere e sessuale della modernità basata sulla schiavitù razziale, la conquista coloniale, il genocidio e la mobilità forzata. Per quel che riguarda invece l’immaginario progressista liberale e/o radicale, il pericolo rimane quello di non tematizzare a sufficienza questo rapporto costitutivo tra razza, genere e tecnologia. L’idea di automazione come liberazione dal lavoro riproduce l’immaginario di razza e genere che definisce quali lavori competono all’umano e quali invece appartengono a gruppi sociali che non soddisfano l’ideale del pienamente umano (cioè definiti come meno che umani o non proprio umani).

Per Vora e Atanasoski, la “logica razziale di categorizzazione, differenziazione, incorporazione e eliminazione) è costitutiva del concetto di tecnologia e innovazione tecnologica e la tecnologia agisce come un surrogato del soggetto liberale – la cui libertà si basa sulla mancanza di libertà di qualcun altro (cioè del surrogato). Per Atanososki e Vora, il soggetto liberale (libero, autonomo, creativo, auto-determinato, individuale) si è costituito storicamente nella relazione tra se e quello che seguendo le orme di Toni Morrison e Saiddya Hartmann chiamano “il surrogato”, cioè  il quasi umano o non proprio umano costituito da schiavi, donne, colonizzati. La libertà e l’autonomia dell’Uomo dipende dunque dal loro lavoro e dalla loro subordinazione. Il concetto di “surrogato” dunque richiama la storia dei surrogati umani (schiavi, colonizzati, donne, lavoratori invisibilizzati) e suggerisce che quando le tecnologie agiscono come ‘surrogati’’ esse ricapitolano le storie di invisibilizzazione che hanno sostenuto l’idea di soggetto liberale come agente del progresso storico. La prospettiva degli studi femministi e critici della razza sullo sviluppo tecnologico svela il modo in cui la progettazione e l’immaginazione dei tecno-oggetti (roomba, siri, alexa, cht GBT, Sofia) re-incanti compiti tradizionalmente visti come espressione di un lavoro noioso, sporco e non creativo.

Il tecnoliberalismo sostiene che stiamo entrando in una nuova fase dell’emancipazione umana liberata dalle vecchie oppressioni di razze, genere e lavoro, attraverso lo sviluppo tecnologico, ma in realtà le perpetua. Per Ruha Benjamin, la tecnologia è una metafora per i processi di innovazione dell’ineguaglianza dove la supremazia bianca è l’opzione default.  Per Atanasoski e Vora, la razza è la condizione delle possibilità stessa dell’emergere della tecnologia come categoria epistemologica, politica ed economica nella modernità Euro-Americana.  Il tecnoliberalismo si presenta come post-razziale, cioè come un mondo in cui le differenze di razza non sono più rilevanti, ma secondo la critica contemporanea esso invece rinnova un immaginario razzializzato proiettandolo sulle macchine.

Nella lettura di Denise Ferreira da Silva della serie tv Black Mirror, per esempio, quest’ultima viene letta come la rappresentazione immaginaria del futuro di un altro presente rispetto a quello della pandemia del 2020. Black Mirror è il futuro dell’America di Barack Obama, quando si diffonde l’idea di post-razziale. La serie infatti non performa le classiche strategie di assoggettamento dei razzializzati: i personaggi interpretati da attori e attrici non bianchi sono presenti e però non interpretano personaggi stereotipati. E però la razza (la blackness) persiste in quello schermo nero che indica la condizione di essere sussunti dalla macchina come una condizione di in-dignità (perdita di dignità) che implicitamente evoca la condizione razzializzata. Il futuro rappresentato dal 2020, l’anno della pandemia di Covid-19 e di Black Lives Matter, smentisce il discorso tecnoliberista post-razziale mettendo invece in scena l’esplosione della perfetta tempesta razziale: i dati e le curve statistiche riproducono l’ingiustizia sanitaria che vede i nonbianchi colpiti più duramente in termini di vittime, mentre si diffondono in rete le immagini degli ennesimi omicidi da parte della polizia di afroamericani come George Lloyd.

Come già diceva Franz Fanon, la deloconizzazione significa anche la sostituzione di una certa specie di umani (quella che ha sotteso la colonizzazione) con un’altra. Vedere come la grammatica razziale e il suo immaginario funziona nei discorsi e nell’immaginario sulle macchine permette di pensare a “relazioni tra umano e macchina che sono fuori la triade del modo di produzione capitalista uso-valore-efficienza”. Queste relazioni per Atanasoski e Vora possono essere rintracciate in progetti artistici e ingegneristici che cercano di creare tecnologie che sfumano i confini tra soggetto e oggetto, produttivo e improduttivo avanzando strutture relazionali inimmaginabili nel presente (oltre il soggetto del lavoro o dei diritti umani).

A questo fa riferimento per esempio anche il recentissimo testo di Ramon Amaro The Black Technical Object: on Machine Learning and the Aspiration of Black Being (Sternberg Press, 2023) dove si prefigura una nuova consapevolezza della possibilità di un modo di esistenza del machine learning e del “Black being” che costituisca un terreno alternativo per il pieno potenziale della Blackness e dell’oggetto tecnico nella prospettiva aperta da Franz Fanon di una “effettiva dis-alienazione” dell’algoritmico, del futuro del machine learning e di quello degli esseri razzializzati.

Ed allora è dalla trilogia di Octavia Butler sui telepati o Patternmaster, o dalla fantascienza dei film di Jordan Peele e Boots Riley, o dallo Stack dell’Atlantico Nero, con la sua furutythmmachine e la sua “intelligenza distribuita, decentralizzata e sintetica che mobilizza una matematica sensuale che astrae affetti, concretizza cognizione, calcola movimenti e muove i calcoli”, che, per esempio, diventa possibile immaginare queste possibilità (Luciana Parisi e Steve Goodman “Golemology, Machines of Flight and SF Capital”, e-flux 2021)

Making planetary s-kin. Pensare con l’astrobiologia (ecologie planetarie e oltre)

 Nel contesto della crisi climatica e dell’Antropocene, la questione della ‘planetarietà’’ e’ riemersa impetuosamente. Originariamente utilizzata dalla teorica postcoloniale bengalese Gayatri Spivak nei primi anni 2000 come figurazione defamiliarizzata della Terra in contrapposizione allo spazio liscio della globalizzazione, la planetarietà’ e’ ritornata recentamente come parte dell’esplorazione di nuovi immaginari per vivere su ‘un pianeta infetto’ (prendo in prestito qui la traduzione del titolo di Donna Haraway).

E’ innegabile che la crisi ambientale sia una condizione planetaria, con effetti che tuttavia appaiono irregolari e differenziati e particolarmente visibili nel sud globale. Ma nel ripensare il legame umano con la Terra, quale concezione del pianeta stiamo mobilitando? E come incide la tecnologia su questo esercizio di costruzione di un futuro incerto? Tra le/gli studiose/i che hanno contribuito a ripensare il pianeta, troviamo il filosofo americano William Connolly, il quale ci ha proposto un nuovo umanesimo aggrovigliato (entangled) nel suo libro del 2017 (dal titolo inglese Facing the Planetary); il sociologo francese Bruno Latour, il quale in una recente mostra allo ZKM (visibile qui), ci ha invitato a impegnarci ad ‘atterrare sulla terra’ (landing on earth); e il teorico del design Benjamin Bratton, il quale in un recente manifesto (Terraforming, 2019) che sostiene l’importanza della tecnologia, dell’astrazione e dell’artificialita’, ha postulato la Terraformazione, una tecnica pensata originariamente per pianeti come Marte, come qualcosa che potrebbe essere applicata alla Terra.

In questi titoli e lavori, la questione della distribuzione ineguale delle conseguenze delle attività antropoceniche emerge sporadicamente, ma non e’ al centro del discorso. Se Spivak aveva usato planetarietà come alternativa alla pulsione omogeneizzante della globalizzazione, che leviga le differenze rendendole impercettibili, in questo post suggerisco che questo modo di intendere il ‘globale’ rischia di essere re-icritto nelle narrazioni della planetarità riemerse in relazione alla questione climatica. Il motivo di questa irruzione del ‘globo’ nel ‘pianeta’ ha a che fare con il fatto che la questione ambientale ha portato alla luce la relazione implicita della planetarietà con le scienze naturali, e anche con quelle spaziali.

L’aggettivo ‘planetario’ e’ uno degli elementi fondamentali delle scienze spaziali – quali per esempio l’astronomia, ma anche l’astrobiologia. In astrobiologia, per esempio, che poi è il campo interdisciplinare in cui mi trovo a fare ricerca, da studiosa umanista all’interno del gruppo interdisciplinare AstrobiologyOU, la questione etica e scientifica della protezione planetaria, ma anche quella legale e politica della governance degli spazi oltre i limiti del nostro pianeta, sono dominanti. L’astrobiologia, che si occupa di comprendere l’origine della vita nell’universo, e per estensione di come vivere con forme di vita altre, e’ uno dei punti del triangolo che disegno in questa conversazione che coinvolge gli studi sociali (come gli studi postcoloniali e i Science and Technology Studies) e filosofici sull’ecologia nella costruzione del pianeta.

Questa conversazione vuole mettere in luce le problematiche che si annidano nell’immaginare il pianeta come una sfera delimitata e coesa – un’immagine che richiama alla mente l’astronave terra (o ‘spaceship earth’). Se consideriamo che la teoria di Gaia di Lynn Margulis e James Lovelock deve alla NASA gran parte del suo supporto nei primi e tribolati anni della sua ideazione, appare chiaro che l’immagine della Terra come astronave e il pensiero ecologico della Scienza del Sistema Terra (Earth System Science o EES) sono legate a doppio filo.

In un’essenziale rilettura di Spivak nel contesto dell’utilizzo della teconologia per creare una mappatura del pianeta attraverso l’uso di sensori e della scienza amatoriale, Jennifer Gabrys dimostra che, attraverso il concetto di planetarietà, Spivak aveva operato un’apertura verso un tipo di ambientalismo capace di decentrare il soggetto umano.1 Gabrys mette in primo piano la dimensione locale ed effimera delle ecologie delle relazioni e performa una ‘critica del tipo di ambientalismo veicolato dalla scienza dei sistemi della Terra, colpevole di promuovere una prospettiva sul pianeta fittizia e totalitaria’, legata ad un universalismo di stampo coloniale.2 Questa critica investe l’idea di Gaia come singolo organismo, al contempo promossa da Lovelock e opposta da Margulis, e i discorsi ambientalisti che si fondano su una concezione della Terra come spazio unico e coeso.

Il lavoro di Gabrys interroga Concezioni della planetarità basate su punti di vista totalizzanti, poiché non rispondono alla critica di Spivak di quei punti di vista che astraggono gli/le agenti dalla materialità – e quindi dall’asimmetria – delle relazioni. Questi problemi sono comuni alle scienze spaziali, all’Earth System Science e al tecno-ottimismo applicato alla geo-ingegneria.3

Making Skin

Nel libro-manifesto Terraforming, Bratton rivendica apertamente l’astrazione del globale come parte integrante di un pensiero planetario. Bratton sostiene che è solo grazie alle tecnologie attive su scala globale, quali la computazione necessaria alla costruzione dei modelli climatici o la rilevazione di dati attraverso i satelliti, possiamo comprendere lo stato di ‘salute’ del pianeta. La tecnologia globale e’ necessaria non solo alla comprensione, ma anche alla sopravvivenza del pianeta. Questa tecnologia e’ astratta ma non non immateriale; e’ un’ecologia in se’: l’ecologia dell’automazione. Il problema che emerge pero’ e’ che in questo punto di vista decentrato, le asimmetrie dei rapporti di potere che influiscono sulla creazione di un sapere planetario, rischiano di restare celate.

Dato che la ricerca sullo spazio e l’astrobiologia sono fondamentalmente mediate dalle tecnologie e rese visibili attraverso un accumulo di dati, cosi’ come Lisa Messeri ha ben dimostrato in relazione alla visualizzazione degli esopianeti (in Placing Outer Space, 2016), suggerisco che i discorsi (astro)ambientalisti contemporanei non decostruiscono abbastanza l’astrazione della finitezza dei pianeti per permettere l’emergenza di altri modi di vivere con ecologie molteplici sulla terra, nella sua orbita e oltre.

Un esempio di questa macro-prospettiva e immaginazione sferica al lavoro e’ fornita dal progetto Planetary Skin (pelle del pianeta): una partnership tra NASA e CISCO lanciata nel 2009 e finalizzata alla creazione della più grande rete di sensori al mondo. L’immagine della pelle del pianeta suggerisce che la Terra viene continuamente ridefinita mentre viene accerchiata da dati trasmessi da una miriade di punti dati e sensori, mentre si rafforza l’idea che i dati contribuiscano alla costruzione di uno strato materiale esterno allo spazio che chiamiamo Terra.

Questa visione, se da una parte mette in evidenza che i confini esterni della Terra non vanno dati per scontati, continua a fare affidamento su un modello sferico che sottende alla conoscenza Europea, coloniale e rinascimentale dell’astronomia. L’astrobiologia però può mobilitare l’immagine della pelle-skin attraverso il lavoro di Lynn Margulis sulle micro-ecologie planetarie, che ci permettono di vedere il pianeta come un sistema aperto fatto di relazioni complesse. Un po’ come la pelle animale, popolata da diverse comunità batteriche che ne fanno un’ecologia in se’, la pelle del pianeta non va vista come protezione dell’individualità del pianeta Terra. E’ invece una figura della differenza che rappresenta la pluralità e l’interconnessione propria della biosfera, laddove la biosfera si estende oltre l’orbita terrestre.

Making Kin

In questa prospettiva, l’ecologia che emerge rimanda alla molteplicità postulata dalla filosofa Isabelle Stengers (in Cosmopolitics I, p.32), e mette in evidenza la necessita’ di insistere su modi di coabitare e relazionarsi con la differenza. Per Stengers, un meccanismo fondamentale di costruzione dell’ecologia e’ la simbiosi. Se per Margulis la simbiosi e’ la chiave per comprendere l’evoluzione terrestre, in astrobiologia e’ spesso considerata come un modo di migliorare le possibilità di sopravvivenza in ambienti estremi.

Localizzare la simbiosi sulla pelle del pianeta, in particolare nel contesto della catastrofe climatica, e’ un modo di spiazzare le visioni totalizzanti della computazione globale e della geo-ingegneria. Il suggerimento e’ un cambiamento di prospettiva: via dalle macro-tecno-ecologie, o dal pianeta come singolo organismo, per avvicinarsi alle micro-ecologie di batteri, funghi etc che occorrono all’interno e oltre lo spazio che chiamiamo biosfera. Questa visione estende la relazionalità intrinseca in quello che Gabrys chiama ‘diventare planetari’. Utilizzando la celebre frase di Donna Haraway, Making kin (fare parentele) e’ un contrappunto necessario, non una sostituzione, all’immagine della pelle, a making skin (fare pelle), del pianeta.

Diventare planetari’ in un modo diverso rispetto alle logiche estrattive del capitalismo significa riconoscere l’agency distribuita di agenti umani, non umani e tecnologici che costituiscono il pianeta oltre il globo, e rigettare visioni totalizzanti e coloniali. Questa lezione che viene dagli studi postcoloniali e il pensiero ecologista femminista e’ fondamentale per ripensare la relazione tra il nostro pianeta e il cosmo. Nel 2018, l’astrobiologa Lucianne Walkowicz ha organizzato un evento intitolato ‘diventare interplanetari’ alla Library of Congress. L’evento e’ stato fondamentale per aver re-iscritto la storia del colonialismo all’interno dei dibattiti sull’estendersi delle attività umane oltre la terra e sull’astro-ambientalismo. A partire da questi lavori, e’ necessario ripensare l’ecologia politica interplanetaria in modi che spiazzano il binarismo tra Terra e altrove che e’ alla base di fantasie antropocentriche di colonizzazione.

Bio:

Alessandra Marino ha conseguito il suo dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono presso l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, ed è al momento ricercatrice all’interno del gruppo AstrobiologyOU all’Open University (Regno Unito). Si interessa dell’etica dell’esplorazione dello spazio e delle pratiche della ricerca scientifica che sottendono alla disciplina dell’astrobiologia. E’ co-investigator del progetto DETECT (fondi dell’Agenzia Spaziale inglese), che utilizza tecnologie che derivano dalla ricerca spaziale per il monitoraggio ambientale.

 

 (immagine in evidenza: Lena Vargas, Astral Ring (2020)

2

 La citazione e’ tradotta e tratta da Introduzione alla Planetologia Comparata di Lukas Likavcan (vedi: https://strelkamag.com/en/article/introduction-to-comparative-planetology )

3

 L’astrobiologia stessa non ha ancora sfruttato al massimo il suo potenziale nel fornire alternative a geografie imperanti che si basano sull’idea che i pianeti siano sfere chiuse e gli unici spazi che contengono vita. Sono diverse le teorie che legano la vita terrestre a un’origine cosmica, per esempio a causa dell’impatto di meteoriti provenienti da altri corpi celesti. Tuttavia molti dei discorsi ambientalisti nella disciplina(come l’idea di Charles Cockell dei ‘parchii planetari’) non guardano alle interrelazioni cosmiche ma restano focalizzati su pianeti o frazioni di pianeti, riproducendo l’idea che i pianeti siano delimitati oggetti Galileiani (una critica di questi modelli sferici e’ presente nelle Lezioni su Gaia di Latour, ma non ho tempo qui di riprodurla).

Piattaforme politiche in Europa – L’utente invisibile

(Cover: Fabrice – Muiderpoort Station, Amsterdam 2010, detail. Photo: Giulia May)

 

In un presente distopico marcato da isolamento fisico, le piattaforme digitali stanno acquisendo un ruolo ancora piu’ centrale nelle nostra vita sociale e privata. Ci fanno essere vicini ai nostri cari, trovare informazioni (utili o meno), ripensare le connessioni lavorative, trovare corsi di yoga online, comprare cose e condividere contenuti emozionanti o ansiogeni – in breve ci fanno essere parte di un sistema interconnesso di comunita’ vicine e lontane.

Se le conseguenze sociali, culturali e psicologiche di questi nuove dinamiche di interazione con i media digitali sono ancora da vedersi, appena prima dell’inizio dell’era della pandemia una serie di studi stavano cercando invece di misurare l’impatto delle piattaforme digitali sulla partecipazione politica. L’ultimo numero del 2019 dell’International Communication Journal, con una sezione speciale dedicata alle piattaforme politiche in Europa, sembra l’occasione ideale per cercare di riprendere qualcuna delle domande sospese sulle piattaforme digitali e il loro uso politico – mentre cerchiamo di processare altri usi in versione amplificata dal nostro isolamento iperconnesso.

Curato da Marco Deseriis e Davide Vittori, lo speciale include sei casi studio sull’uso delle piattaforme digitali in diversi contesti europei e da parte di vari attori politici. Se il filo comune è come ogni piattaforma renda possibile delle forme di partecipazione politica, una domanda centrale rimane latente e inespressa: chi sono le persone che usano queste piattaforme digitali, come le usano e perché’ in questi studi non hanno quasi mai voce?

1. Le piattaforme digitali nel “lungo decennio”

Piattaforme sociali e/o piattaforme politiche. Il lungo decennio, come Deseriis e Vittori chiamano quello che si è appena chiuso, è stato dominato da movimenti anti-autoritari e anti-austerità che hanno incorporato l’uso dei social media in maniere nuove e dirompenti. Se la logica dei social network commerciali può avere facilitato i movimenti nella loro fase iniziale, si è rivelata presto meno adatta a sostenere strategie a lungo termine (van Dijck & Poell, 2013). Per questo diversi gruppi hanno cominciato a orientarsi verso strumenti specializzati (e software open-source) per supportare i loro processi decisionali. Deseriis e Vittori insistono che gli elementi comuni a social media platforms (SMPs) e digital democracy platforms (DDPs) rimangono più importanti delle differenze, nonostante queste siano significative. Da una parte le SMPs, nate per estrarre profitto da dati personali e informazioni condivise, che però data l’ampia base di utenti hanno contribuito a rivitalizzare l’azione politica. Dall’altra le DDPs, fatte per essere di supporto a processi di partecipazione e deliberazione, ma di fatto spesso limitate nel loro impatto e raggio di azione.

Come influisce la logica algoritmica sulla partecipazione? Un tema importante nei dibattiti recenti è stato quello sulla ‘logica algoritmica’ dei social media, e quanto questa condizioni l’agency politica degli utenti. C’è chi sostiene che la logica algoritmica, che ha sostituito la logica editoriale dei media analogici, condizioni la partecipazione in maniera più sottile e pervasiva (e.g van Dijk & Hacker, 2018). Altri enfatizzano invece la creatività e ingegnosità degli utenti, dimostrando come si possa giocare con le funzionalità di ogni piattaforma e aggirarne i limiti (e.g. Clark et al., 2014). Un’altra autrice che contribuisce allo speciale, Maria Bakardjieva, conclude che “la partecipazione dei cittadini… non può essere ridotta alla sola architettura delle piattaforme, ma ne è sicuramente influenzata”. Quello che fa la differenza, sostiene Bakardjieva, è “chi partecipa? A cosa? Per quale scopo?”.

 

(Street mosaic in Grodno, Belarus. Photo: Victoria Strukovskaya)


2. Gli utenti delle piattaforme istituzionali

Una piattaforma può rafforzare i membri di un partito? Deseriis e Vittori cercano di valutare l’impatto delle piattaforme usate da Podemos e da 5 Stelle, rispettivamente Participa e Rousseau, sulla democrazia interna dei due partiti e gli squilibri di potere. Entrambi i partiti hanno un forte “orientamento tecno-populista” (Deseriis, 2017), ma allo stesso tempo sono caratterizzati da traiettorie politiche e ideologiche profondamente diverse, riflesse anche da modelli organizzativi divergenti: una varietà di nodi decisionali centralizzati e decentralizzati (Podemos) contro un modello senza alcun intermediario tra vertici e membri di partito (5 Stelle). Deseriis e Vittori sostengono che, nonostante queste distinzioni, in entrambi i casi le funzionalità delle piattaforme sono utilizzate in maniera molto selettiva, per confermare soprattutto decisioni già prese dai vertici di partito. Questa potrebbe essere una delle ragioni del netto declino dei partecipanti al voto che entrambe le piattaforme hanno registrato dopo il primo anno di vita. Altre possibili ragioni includono l’abbandono dei primi iscritti, o il fatto che ai membri viene richiesto di votare troppo frequentemente, o – nel caso di Rousseau – che agli utenti non vengono offerte altre prospettive se non quelle dei vertici quando si tratta di votare su argomenti controversi. Di certo per confermare queste ipotesi ci vorrebbero nuovi studi, che dovrebbero includere anche gli utenti di entrambe le piattaforme.

Una piattaforma può mantenere alta la qualità del dibattito nel tempo? Guardando solo a quello che succede sui social media verrebbe da rispondere no, ma anche le amministrazioni locali in Europa hanno cercato di rimodellare la partecipazione e deliberazione online. Nel loro studio su Decidim, la piattaforma che permette ai cittadini di Barcellona di contribuire al piano strategico della città, Borge Bravo, Balcells e Padró-Solanet analizzano la “qualità deliberativa” del dibattito su turismo e ospitalità. Dalla loro analisi il tempo risulta essere un fattore chiave, nelle varie fasi che attraversano le conversazioni su piattaforme come Decidim. Se all’inizio la maggior parte degli utenti cerca di costruire argomenti persuasivi e razionali, con l’avanzare della discussione arriva invece spesso anche un impoverimento della qualità del dibattito. Questo a sua volta può fare si che nuovi utenti siano meno interessati a prendere parte e abbassa la soglia degli argomenti accettabili, mentre i pochi utenti rimasti trasformano il dibattito in scontro personale. La loro conclusione è che una deliberazione spontanea online è possibile, ma la difficoltà maggiore è riuscire a mantenere la qualità di questa deliberazione nel tempo.

Dove sono posizionati gli utenti delle piattaforme governative? Come sostiene Bakardjieva, dipende molto da chi crea la piattaforma, chi la usa e quali strategie si adottano per cercare di influenzare chi governa. Il suo studio compara tre soluzioni in uso nella città bulgara di Stara Zagora: una piattaforma governativa, una collaborativa creata dai cittadini, e una pagina Facebook. La piattaforma governativa, voluta dalla municipalità, può essere usata dai cittadini per riportare guasti o problemi e richiedere documenti. Come in altri casi simili, gli utenti di questa piattaforma sono posizionati come clienti. A fare la differenza nel caso della piattaforma collaborativa è il fatto che questa sia stata concepita e disegnata dai cittadini. Attraverso una serie di interviste con il nucleo dei fondatori, Bakardjieva descrive come gli utenti di questa piattaforma non siano solo messi nella condizione di segnalare un problema, ma anche di ricevere una risposta. Caso per caso, la piattaforma collettiva ha infatti costruito nel tempo un suo potere di negoziazione ed è ora riconosciuta dagli amministratori come interlocutore politico pur mantenendo una forte autonomia.

 

(Photo: Peyman Farmani)


3. Gli utenti delle piattaforme commerciali

Basta una piattaforma per promuovere la partecipazione? Bakardjieva offre anche un esempio da manuale su come ogni piattaforma possa assecondare diversi scopi. Quando un altro gruppo a Stara Zagora inizia a mobilitarsi per salvare un parco locale da piani di sviluppo edilizio, diventa chiaro che la disputa necessita di strumenti diversi da quelli utilizzati per la cooperazione, e gli attivisti li trovano in Facebook, piattaforma multifunzione. A questo gruppo infatti Facebook offre un apparato di comunicazione generalista che viene capito e usato abilmente dal gruppo di cittadini. Allo stesso tempo, Bakardjieva ammette che una partecipazione efficace non può essere costruita solo attraverso Facebook o nessun’altra piattaforma. Nel caso del parco, il supporto offerto da altri gruppi e media si rivela infatti cruciale per mobilitare numeri più consistenti della popolazione. In generale, come si sostiene dall’inizio dello scorso decennio con l’idea di media convergence e approcci simili, è essenziale continuare a considerare come le piattaforme digitali si collegano (e sovrappongono) con altre forme mediatiche e di mobilitazione.

Può una piattaforma mettere insieme partecipazione e rappresentazione? In un altro contributo allo speciale Louise Knops e Eline Severs presentano il caso della Piattaforma dei Cittadini per il Supporto ai Rifugiati (CPRS), una pagina Facebook creata in Belgio in risposta alla crisi del 2014-2015 per coordinare assistenza e logistica. Lo studio guarda a come nel corso degli anni CPRS abbia assunto sempre più un ruolo di portavoce politico dei belgi che supportano politiche di immigrazione più inclusive e accoglienti. Questa prospettiva rinforza studi precedenti che hanno sostenuto che le reti sociali online possano trovare un compromesso tra la logica della partecipazione e la logica della rappresentazione (Gerbaudo, 2017). Altro aspetto interessante dell’articolo è l’enfasi sul ruolo centrale giocato dall’amministratore della pagina del CPRS, che quotidianamente si occupa di filtrare e selezionare i contenuti pubblicati e condivisi dai membri della pagina, cosa che ricorda come la “logica editoriale” molto spesso coesista con la “logica algoritmica” e non sempre in ruolo subordinato. Ancora una volta, come ammettono le autrici, nuovi studi con più utenti sarebbero necessari per confermare questi risultati.

Può una piattaforma combinare partecipazione e apprendimento sociale? Dan Mercea e Helton Levy esplorano la relazione tra questi due fenomeni su Twitter, guardando a un insieme di retweets della “People’s Assembly” britannica tra il 2015 e il 2016. La Network Theory finora sembra avere interpretato l’apprendimento sociale come un processo che include diffusione e validazione da parte degli utenti, che in Twitter corrisponde ai retweet. Allo stesso tempo, come notano Mercea e Levy, i retweet possono anche essere visti come una forma di “cura” della conoscenza collettiva, facendo da filtro a rumore e informazioni non rilevanti. Nel caso della People’s Assembly, i retweet infatti sembrano avere contributo a distribuire e rendere evidente la conoscenza delle ragioni che portano diversi attori a cooperare nell’Assembly, mantenendo allo stesso tempo un insieme di risorse comuni sul movimento. Lo studio è basato su un’analisi quantitativa dei retweets e su un piccolo numero di interviste con utenti di Twitter che – suggeriscono anche in questi caso gli autori – andrebbe ampliato per potere raggiungere delle conclusioni più generali.

 

(Photo: Vladislav Nikonov)

4. L’utente-bersaglio: non è altro che propaganda

Perché le piattaforme online facilitano le campagne reazionarie? Se questo numero speciale guarda soprattutto ai successi della partecipazione digitale o ai suoi possibili ostacoli, altri studi recenti si sono dedicati invece a esplorare quello che qualcuno chiamerebbe il lato oscuro delle piattaforme. Dopotutto Brexit è andata come è andata, e altre campagne reazionarie hanno raccolto un discreto successo in Europa e altrove. Uno degli elementi che spiegano l’inaspettata popolarità delle piattaforme digitali per i partiti di estrema destra è la loro dinamica di partecipazione, che secondo Gregory Asmolov (2019) crea condizioni ideali per una “propaganda partecipativa”. Il concetto stesso di propaganda, per quanto digitalizzato, rimane certamente problematico nel suo rimandare a dibattiti vecchi e fortunatamente superati sugli “effetti” dei media sulla mobilitazione. Allo stesso tempo, Asmolov e LeJeune sostengono che il risultato di una manipolazione informativa che coinvolge gli utenti non è necessariamente la mobilitazione: in diversi casi – basti pensare a Cambridge Analytica o Breitbart – l’obiettivo è piuttosto il disorientamento politico e la frammentazione sociale.

Non siamo che bersagli di bots e trolls? A partire dal 2015 il progetto Computational Propaganda (basato all’Oxford Internet Institute) ha investigato l’assemblaggio di algoritmi di social media, agenti autonomi e big data coinvolti nella manipolazione dell’informazione. Il loro ultimo report su “Global disinformation order” (2019) sostiene che negli ultimi due l’investimento in questo campo ha visto una crescita del 150% anni in tutto il mondo – paesi liberali e autoritari, occidentali e non-occidentali. Le nuove “cyber troops” operano attraverso bots, accounts umani, automatizzati o rubati; lavorano per screditare l’opposizione politica e isolare il dissenso. Nonostante l’abbondanza di alternative, Facebook sembra rimanere la piattaforma prescelta non solo per la scala globale della sua copertura, ma anche per le sue componenti: le strette connessioni personali che la compongono, l’incorporazione di notizie politiche, la capacità di ospitare gruppi e pagine.

A rimanere chiaramente fuori da questa cornice è il significato che le persone danno alle informazioni trovate sulle piattaforme. E se da una parte ci si aspetta che studi di comunicazione politica e sociologia politica siano improntati sull’idea dell’utente-bersaglio, anche tra i teorici dei nuovi media sembrano guadagnare popolarità le visioni apocalittiche di sistemi invisibili, oppressivi e ingannevoli, dove i trolls hanno la capacità di stravolgere i nostri pensieri e i nostri comportamenti (Lovink 2020).

 

(Photo: Ashkan Forouzani)

5. Conclusioni – Stuart Hall e la piattaforma-pensiero

Piattaforme come punto di incontro. Cosa ci rimane quindi? Come Emiliana De Blasio e Michele Sorice sostengono in un altro articolo contenuto nello speciale, uno dei pochi punti non controversi è che l’idea di “piattaforma” si è ormai affermata come punto di incontro tra prospettive molto diverse. Inaspettatamente, alla fine del loro tour de force enciclopedico su tutta la possibile letteratura scientifica prodotta finora sulla partecipazione, De Blasio e Sorice invocano Stuart Hall e la sua ineguagliata capacità di combinare metodi e strumenti della sociologia politica con media studies e analisi di culture alternative. Questa prospettiva multimodale, criticamente solida, è precisamente quello che sembra mancare a molta teoria contemporanea sui media, che può essere al meglio affascinante ma spesso risulta inaccessibile e/o politicamente sterile.

Piattaforme in tempi di crisi. Fin dalle prime misure di emergenza per il Covid-19 in Asia e Europa, le piattaforme commerciali hanno mostrato il meglio e il peggio della condivisione e costruzione di connessioni. I social network sono portatori di disinformazione, notizie false e palcoscenico per le esibizioni di improbabili esperti o narcisisti professionisti. Allo stesso tempo una crisi di questa portata apre a un possibile reset sociale e tecnologico, al quale le piattaforme digitali potrebbero contribuire con informazioni utili al supporto delle comunita’, per trovare soluzioni a problemi condivisi e per redistribuire risorse. Se e’ ancora presto per vedere uno sviluppo di piattaforme non commerciali e ad-hoc, una direzione possibile e’ indicata iniziative immediate/precoci come gruppi, pagine o wikis costruite per mettere insieme e coordinare sforzi di solidarieta’ locali e globali.

Utenti prescritti e utenti mancanti. Il suggerimento più utile di tutto lo speciale viene probabilmente ancora una volta da Bakardjieva, che prende da de Certeau (1984) la visione delle piattaforme come “insiemi di possibilità e interdizioni”, caratterizzate tra le altre cose dai loro utenti “prescritti” (Latour, 1992) e dagli usi anticipati e manifesti che questi ne possono fare. Mettere a confronto diversi tipi di piattaforme, come fa Bakardjieva nel suo studio, è anche un approccio fondamentale per capire meglio la varietà di posizioni che le piattaforme creano per i loro utenti. L’unico pezzo mancante dal quadro è ancora una volta quello degli utenti: c’è bisogno di includere di più e meglio le loro voci per capire cosa fanno di queste piattaforme costruite per (e contro di) loro, in tempi ordinari e straordinari.

Hackerare il realismo capitalista: serendipità, innovazione sociale e politiche di emancipazione – Intervista a Sebastian Olma 

Il testo qui pubblicato è la traduzione in italiano dell’intervista di Luca Recano a Sebastian Olma, professore di “Autonomy in Art, Design and Tecnology” presso la “Avans” University of Applied Sciences di Breda e Den Bosch nei Paesi Bassi, pubblicata sul blog dell’Institute of Network Culture.  Alla fine dell’articolo, il titolo e il link dell’intervista originale. Immagine di copertina tratta da K-punk, il blog di Mark Fisher

14/05/2019 – Luca Recano e Sebastian Olma

 Luca Recano: “In Defense of Serendipity” si apre con una prefazione di Mark Fisher, una breve ma densa critica di quella che lui chiama “la grande truffa digitale” . In esso, Fisher afferma che “l’insicurezza generalizzata [precarietà] porta alla sterilità e alla ripetizione, non alla sorpresa o all’invenzione”. Fisher fu il protagonista di una profonda indagine sul malessere della nostra epoca. Cosa pensi quando rileggi le sue parole oggi; dopo che si è tolto la vita e i suoi scritti sono diventati un simbolo di disperazione per coloro che bramano il cambiamento ma si confrontano con l’assenza di alternative al presente?

 

Sebastian Olma: Penso che ciò che Mark Fisher ha detto nella prefazione di In Defense of Serendipity sia ancora valido. Forse ancora di più oggi rispetto a quando l’ha scritto. Intendo questo, nel senso che la sua critica dell’ideologia californiana sta diventando sempre più mainstream. C’è ancora molta propaganda là fuori che celebra le benedizioni delle “smart cities” e delle società digitali e così via, ma è diventato molto più difficile negare l’esistenza della brutale economia estrattiva che tale marketing aziendale vorrebbe mascherare. Quando persino qualcuno come la professoressa della Harvard Business School Shoshana Zuboff arriva a scrivere una critica accanita del “capitalismo di sorveglianza”e dello sfruttamento illecito del “surplus comportamentale” significa che la situazione sta cambiando. Mark ha attaccato incessantemente la propaganda digitale sin dall’inizio e lo ha fatto da una posizione di profondo fascino per la cibernetica e per la cultura (pop) che ha generato. Uno dei motivi per cui il suo libro sul realismo capitalista del 2009 ebbe una risonanza così enorme fu che rivelò che il pipedream digitale faceva parte di una strategia politica reazionaria. Questo era assolutamente cruciale per le persone come me in quel momento perché dimostrava che non tutti avevano perso la testa, non tutti stavano comprando la presa per i fondelli della cloud digitale che organizzazioni come TED e O’Reilly Media ci propinavano.

Se me lo chiedi, penso che sia così, che dovremmo considerare l’eredità intellettuale di Mark. Non c’è nulla nei suoi scritti che indichi sottomissione alla disperazione. Direi che è vero il contrario. C’è un’intensità radiosa nel suo lavoro che è estremamente affermativa nella vita, sempre alla ricerca di crepe in un presente soffocante; crepe che potrebbero condurre verso un possibile futuro. Questo si presenta con particolare vivacità nei suoi ultimi due libri, Ghosts of My Life e The Weird and the Eerie. Se si può parlare di oscurità lì, è sempre quella del presente che deve essere superata. Quindi no, non vedo Mark come un simbolo di disperazione; per me era e rimane un pensatore ferocemente ottimista che ha ispirato così tante persone nella loro convinzione e nella lotta per “un mondo che potrebbe essere libero” come scrive nel suo frammento sul comunismo acido .

 

 L.R Nel libro c’è molta enfasi sul ruolo dei movimenti sociali e della controcultura. Vivi ad Amsterdam, una città che un tempo era famosa per il suo movimento squatter piuttosto avanzato e, allo stesso tempo, per l’innovazione imprenditoriale. Nel libro, si discute della controcultura americana e del suo ruolo nella formazione della cosiddetta ideologia californiana. Cosa diresti sul  ruolo che l’arte, i movimenti sociali e le controculture di oggi svolgono in termini di sviluppo del capitalismo (innovazione, creatività ecc.). Pensi che siano stati completamente assorbiti dal paradigma neoliberale del lavoro creativo e digitale, come sembra sia stato sostenuto dai sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiappello? C’è ancora spazio per l’autonomia e la sperimentazione nei processi di innovazione e, in caso affermativo, a quali condizioni?

 

S.O. Hai ragione a indicare Amsterdam come una città con un certo retaggio storico di apertura culturale e progressismo politico che nella seconda metà del 20 ° secolo si è tradotto in una proliferazione di spazi per la sperimentazione subculturale. Questi spazi formano una rete che in effetti ha guidato l’innovazione culturale in tutta la città, trasformandola in un faro di creatività urbana alla fine del XX secolo. Alcuni sociologi hanno sostenuto che Amsterdam era la città europea che ha dato a Richard Florida una sorta di progetto per la sua idea di città creativa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il modello era San Francisco. Quindi sì, ci sono definitivamente una serie di somiglianze tra l’esperienza olandese e quella californiana per quanto riguarda il ruolo storico che le sottoculture hanno avuto nei processi di innovazione culturale, e in seguito a ciò, l’innovazione gestita a livello economico-finanziario. Hai anche ragione nel sottolineare la distruzione di questi “motori” dell’innovazione da parte delle politiche neoliberali. Il soffocamento dello spazio urbano da parte di massicce speculazioni finanziarie e investimenti eccessivi nel settore immobiliare sembra essere molto peggio a San Francisco, ma è anche dolorosamente sentito ad Amsterdam.

Questi sviluppi rappresentano un problema che va ben oltre la questione della sottocultura. In effetti, alcune forme di pratica artistica e subculturale sono spesso beneficiari perversi del rimodellamento neoliberale delle nostre città in quanto funzionalizzate come impiallacciature “creative” di un tessuto urbano altrimenti omogeneizzato. Coloro che soffrono sono famiglie a basso e medio reddito, ma sempre più anche giovani, piccoli imprenditori, insegnanti e persino medici che non possono più permettersi gli affitti in aumento. Quindi il problema non è tanto (o almeno non solo) la scomparsa degli spazi subculturali ma la de-diversificazione della vita urbana. Questo è ciò che distrugge la città come “macchina della serendipità” e la rende sempre più prevedibile e noiosa. Inoltre, distruggendo il potenziale fortuito della città, anche la capacità di una società di innovare diminuisce. Che nella situazione odierna significa la distruzione della possibilità di qualsiasi tipo di futuro. Non sono sicuro che i nostri urbanisti e strateghi politici abbiano colto la gravità della loro incapacità di sfidare l’attuale traiettoria. Chi fermerà l’economia estrattiva e neoliberale che sta causando la sesta estinzione di massa se non una politica veramente cosmopolita nata dalle potenze inventive della città?

 

L.R. La ricostruzione storica ed etimologica del concetto di serendipità (in breve: il processo di scoperta o di ricerca di qualcosa di utile, valido o buono, senza cercarlo specificamente) che si fa nelle prime pagine del libro, si riferisce direttamente a un problema epistemologico ontologico: come diviene il mondo, cosa lo muove, come vengono “prodotte” le nuove realtà? Più avanti nel libro, invochi la sociologia “dimenticata” di Gabriel Tarde e la sua utilità per una teoria sociale dell’innovazione. Perché pensi che oggi sia necessaria una teoria dell’innovazione sociale? Perché le “buone pratiche” non sono sufficienti?

 

S.O. Abbiamo un disperato bisogno di una discussione politica sull’innovazione sociale come modo per contrastare l’impatto distruttivo dell’economia estrattiva neoliberale sulle nostre città, società e, in definitiva, sul pianeta. Ciò che è attualmente messo in scena in nome dell’innovazione sociale è una farsa con l’obiettivo di non affrontare le grandi sfide del nostro tempo. In realtà è abbastanza ovvio, se si osservano le metodologie su cui operano organizzazioni come la Nesta britannica o le loro controparti olandesi più piccole: un problema “malvagio” come, diciamo, la fame nel mondo, lo sfruttamento economico o la distruzione ambientale viene suddiviso in una serie di step, riducendolo a qualcosa che può essere risolto da un’app, un modello aziendale o una combinazione di entrambi. Il design thinking ne è un chiaro esempio, la cosiddetta comunità dell’innovazione sociale ne ha sviluppato le proprie versioni. Nel mio libro, la chiamo “ginnastica del cambiamento immutabile” (changeless change). È un po ‘come il “soluzionismo” di Evgeny Morozov solo molto più cinico. Invece di affrontare i nostri problemi,  spesso complessi e di portata globale, in modo tale da lavorare verso una risposta appropriata, viene eseguito un atto simbolico che non cambia nulla ma che dà a coloro che “risolvono” la sensazione di “rendere il il mondo un posto migliore ”. La perfidia della varietà sempre mutevole di questo tipo di pratiche dell’innovazione sociale sta nel fatto che spreca l’energia di una giovane generazione che è seriamente intenzionata a voler cambiare il mondo in meglio; energia di cui abbiamo un disperato bisogno.

Abbiamo bisogno di una teoria dell’innovazione sociale per aiutarci a separare il changeless change dal cambiamento reale. Le generazioni più giovani devono essere in grado di decidere in cosa valga la pena investire le proprie energie e in cosa no. A volte esempi di “buone” o “migliori pratiche” possono essere d’ispirazione, ma se vuoi davvero salvare il mondo, devi capire come funzionano i nostri sistemi sociali complessi, come il cambiamento sociale e l’emancipazione sono stati ottenuti storicamente e quali sono i poteri che stiamo affrontando oggi. Supportare le nuove generazioni nel trovare la propria strada è una grande responsabilità. Il ruolo più deplorevole oggi è svolto da quei funzionari adulti che sanno esattamente cosa sta succedendo ma continuano a giocare il gioco del changeless change per difendere la loro posizione istituzionale acquisita.

Il lavoro di Gabriel Tarde è interessante sotto questo aspetto. Se anche un sociologo secolare può aiutarci a smascherare l’innovazione sociale come cambiamento immutabile, immagina che tipo di pensiero innovativo potremmo produrre se insegnassimo ancora una volta agli studenti a pensare in modo critico alla società. A titolo di considerazione, l’ipotesi dell’Antropocene ha bisogno di una mobilitazione intellettuale abbastanza potente da fermare la sesta estinzione di massa .

 

L.R. La teoria di  Tarde sembra molto utile nel descrivere un’ontologia sociale che funga da base per l’innovazione, specialmente quando si tratta della micro-dinamica dell’innovazione. Ma quando consideriamo  i processi di innovazione che coinvolgono la società in quanto tale nel suo complesso, le dinamiche dell’imitazione e dell’invenzione che Tarde postula per gli individui si spostano nell’ambito di comunità e sistemi complessi, coinvolgendo altri fattori, sia strutturali che contingenti. Qui le cose si complicano per la teoria.

Esistono teorie sociali, alcune in parte derivanti dalla sociologia di Tarde, che potrebbero affrontare il tema dell’innovazione sociale in tutta la sua complessità. Pensiamo alla Assemblage Theory di Manuel De Landa , Actor-Network Theory di Bruno Latour o le diverse declinazioni delle teorie della complessità, tra quelle che mi vengono in mente. Inoltre, la teoria critica, le teorie radicali marxiste e femministe e in particolare la teoria dell’ecologia politica e quella della riproduzione sociale potrebbero forse fornirci un quadro per comprendere il ruolo delle relazioni di potere e di dominio, e i rapporti sociali di produzione in cui sono inserite, in modi nuovi. Inoltre c’è la questione di aprire la visione problematicamente universalista basata sull’umanità per includere relazioni con entità non umane, naturali e tecniche. Pensatori come Bernard Stiegler e Yuk Hui stanno sviluppando nuovi strumenti teorici aprendo nuove strade del pensiero filosofico e ” cosmotecnico ” riguardo alle sfide della nostra epoca, al di là del paradigma dell’Antropocene.

Pensi che usare queste teorie per ricostruire un approccio critico all’innovazione sia utile, chiarendo le contraddizioni, i conflitti e le possibilità che ciò comporta e inquadrandolo alla luce delle sfide del cambiamento ecologico e sociale della contemporaneità?

 

S.O. Ti riferisci al tuo approccio qui? Non sono sicuro che importi così tanto quali sono le tue risorse teoriche o riferimenti purché non li usi per scopi di mistificazione accademica. Prendi qualcosa come la teoria actor-network. Gli accademici in carriera hanno una debole per essa perché fornisce loro un milione di modi complessi per dire “ci sono relazioni”. Questo funziona per ottenere con successo borse di ricerca perché consente di adattarsi alle ultime mode politiche e di scrivere dozzine di documenti vuoti. Sfortunatamente, è meno efficace affrontare le sfide che stiamo affrontando. Questo è esattamente il motivo per cui Bruno Latour, l’architetto intellettuale di questo approccio, ritorna ad un’analisi politica sorprendentemente radicale nella sua considerazione dell’Antropocene. Secondo lui, una potente élite comprende perfettamente che l’economia neoliberale dell’estrazione costerà per lo meno la vita di miliardi di persone. Tuttavia, essi hanno deciso che ne vale la pena. Queste non sono persone che puoi sfidare costruendo un’app o modificando un telefono cellulare in un prodotto più sostenibile. Richiederà uno sforzo politico gigantesco per privarli del loro potere. Se la tua teoria o analisi sarà utile per creare lo slancio che potrebbe portare a tale sforzo, allora sei sulla strada giusta. Tuttavia, per fare questo, devi dire molto di più di “ci sono relazioni”. Alcune relazioni sono più potenti di altre e abbiamo bisogno di una teoria sociale che ci aiuti a capire come affrontarle. 

Hai ragione a indicare Bernard Stiegler come uno dei grandi filosofi del nostro tempo. Sfortunatamente, non è molto letto, un fatto per il quale il suo stile di scrittura contorto comporta almeno una parte della responsabilità. Non fraintendermi, nessuno capisce la tecnologia e il suo ruolo nei processi di cambiamento sociale meglio di Stiegler. Sembra che il mondo non abbia imparato a impegnarsi con questo tipo di pensiero provocatorio complesso …

 

L.R. Nel corso del tuo libro, fai riferimento alla nozione di tecnologia di Bernard Stiegler come pharmakon , vale a dire, il suo potenziale ambivalente di essere veleno e / o curare. Il discorso pubblico sul rapporto tra tecnologia e cambiamento sociale riflette questa ambivalenza: ci sono entusiasti  tecno-utopisti e nefasti predicatori tecno-distopici; approcci tecno-deterministi o tecno-neutralisti e così via. È un’immagine piuttosto confusa. Qual è l’antidoto a questa confusione? È possibile, parafrasando Donna Haraway, “rimanere presso il problema” ed essere coinvolti nel mondo della tecnologia di oggi, mentre allo stesso tempo si è impegnati a progettare un diverso paradigma tecno-sociale, o almeno lavorare per esso?

 

S.O. Non vedo davvero alcun motivo di confusione. Prendi la filosofia di Bernard Stiegler a cui ti riferisci. La tecnologia ha sempre fatto parte dello sviluppo umano e, come sostiene Stiegler, può persino essere vista come quella che definisce la forma di vita umana. Quindi, ovviamente, può essere benigna o maligna. Questo è vero per un cuneo di pietra tanto quanto per un computer. In questo caso hai ragione, il tecno-determinismo è mentale. Tuttavia, vorrei contestare l’immagine che stai dipingendo qui. Non vi è alcun equilibrio tra tecno-euforia e le predicazioni nefaste e tecno-distopiche. Gli ultimi due decenni sono stati dominati dall’idea che la tecnologia digitale nel suo uso attuale sia necessariamente vantaggiosa per la società. Prendi i social media. Eravamo così euforici per i loro presunti effetti positivi che abbiamo più o meno imposto i social media sulla fragile psiche dei nostri giovani senza nemmeno il minimo avvertimento o preparazione cautelativa. Puoi paragonarlo a dei genitori che danno la cocaina ai loro figli sedicenni perché “li fa pensare più velocemente”. Non sto scherzando in questo caso. L’impatto avvincente e l’assuefazione dei social media sono stati programmati dall’industria fino a ogni impulso della micro-dopamina. Dieci anni dopo, i primi studi longitudinali stanno venendo fuori, documentando chiaramente il danno che è stato fatto. Ci stiamo strappando i capelli per la disperazione a causa della gravità di questa forma di dipendenza. 

Al contrario, non ho visto nessuno che ha sostenuto che l’invenzione del computer segna l’inevitabile fine del mondo. Potrebbero esserci dei pazzi là fuori, ma non hanno nulla di paragonabile alla visibilità che hanno gli “evangelisti digitali”. Se vuoi sapere perché questo è così, devi solo leggere la summenzionata studiosa della Harvard Business Shoshana Zuboff che documenta meticolosamente le enormi risorse e strategie utilizzate dall’industria IT al fine di influenzare il processo decisionale e l’opinione pubblica a loro favore.

Quindi, questo è l’antidoto alla situazione che stai descrivendo. Richiamare queste strategie e capire che non c’è nulla di naturale o neutrale nella traiettoria tecnologica ma che segue interessi politici ed economici. Se vogliamo una tecnologia che renda le nostre vite migliori e ci aiuti a salvare il pianeta, dobbiamo creare le condizioni politiche che la costringano a farlo. Questo non è un enigma, ma richiede ancora un enorme sforzo politico.

 

L.R. Nonostante l’egemonia neoliberale, esistono ancora spazi di resistenza e sperimentazione. Esistono comunità auto-organizzate legate alla cultura hacker e maker (kacher spaces, hack labs, critical makerspaces); iniziative strutturate intorno ai “commons” ( P2P , software libero, hardware libero, accesso aperto); reti e movimenti formati da cooperative di piattaforma; sindacati IT e nuove forme di lavoro organizzato; attivismo contro la guerra, lo sfruttamento e l’invasione della privacy; iniziative per politiche progressiste come il reddito di base (che coinvolgono attivisti, designer, imprenditori e politici). Cosa ne pensi di questi diversi movimenti? È possibile inquadrarli in termini di un “ecosistema di possibilità alternativ”e nel contesto della crisi ecologica e sociale globale? È possibile costruire un discorso comune e una pratica politica tra queste esperienze?

 

S.O. Non ne sono sicuro. Alcuni dei tuoi esempi qui sono piuttosto semplici. Forme di lavoro organizzato per i lavoratori precari? Ovviamente. Attivismo femminista, contro la guerra, a favore della privacy? Assolutamente. Per il resto, tutto dipende da cosa stanno cercando questi diversi movimenti e iniziative. Sono seriamente interessati a sviluppare pratiche che potrebbero aiutarci a costruire un futuro desiderabile? O stanno semplicemente cercando di ritagliarsi una comoda nicchia nel sistema esistente? Per coloro che vogliono costruire seriamente un futuro, si tratta di essere estremamente attenti e (auto)critici quando si tratta di decidere cosa funziona e cosa no. Ciò che vediamo al momento, in particolare nei Paesi Bassi e in Belgio, è uno sfortunato tentativo di rianimare l’idea degli zombie degli anni Novanta: “small is beautiful”. Nel nome dei “commons” o, peggio ancora, il “commonismo” [sic] buone iniziative (in linea con quelle che stai descrivendo) sono raggruppate insieme ai progetti neoliberali più rivoltanti al fine di generare una mappa che mostri che in realtà la nuova società (dei beni comuni) è già qui. Va tutto bene, siamo salvati, grazie mille! La logica qui è: “siccome queste non sono grandi organizzazioni, allora devono far parte dei beni comuni”. In una certa misura, la precarietà economica e la debolezza politica diventano i parametri aspirazionali del futuro. Esiste un modo più spaventoso di gettare la nuova generazione sotto l’autobus neoliberista? 

Non sono convinto dall’ipotesi dei beni comuni proprio perché il suo reale effetto politico è stato finora estremamente problematico. Celebrare un’infrastruttura potenzialmente emergente di un futuro Comune non ha fatto nulla per impedire la continua distruzione dell’infrastruttura effettivamente esistente del Pubblico. Mi riferisco alla spietata privatizzazione, esternalizzazione e commercializzazione dei nostri servizi pubblici, dall’assistenza sanitaria e delle politiche abitative, fino al governo stesso. Il brillante lavoro dell’economista Mariana Mazzucato ha fatto molto per scoprire la distruzione del valore pubblico che la credenza religiosa nella superiorità del mercato sta causando. Voglio dire, stiamo tutti sognando un futuro Comune, ma non è più urgente fermare prima la svendita del Pubblico? Finché i sostenitori dei beni comuni voltano le spalle a questo oltraggio, non meritano di essere presi sul serio. Se l’idea dei beni comuni viene impiegata in modo schiacciante per sostenere carriere, iniziative, ricerche e politiche che difendono lo status quo neoliberale, chiaramente non appartiene a quello che tu chiami “ecosistema di possibilità alternative”!

 

L.R. Nel tuo libro c’è una critica abbastanza esplicita di organizzazioni come Nesta e il suo direttore Geoff Mulgan, per il ruolo che svolgono nel campo dell’innovazione sociale digitale. Queste organizzazioni svolgono un ruolo centrale nella definizione delle politiche dell’UE per quanto riguarda l’uso delle tecnologie digitali nel settore industriale, logistico e dello sviluppo urbano (smart cities). Mi sembra che l’UE stia cercando di trovare una posizione diversa da quella del modello ultra-capitalista e neoliberale della Silicon Valley e del modello statalista e centralista rappresentato dalla Cina. Quale ruolo può svolgere l’innovazione sociale in questo contesto? È più che retorica e marketing? Pensi che l’UE abbia imparato la lezione dal modo in cui le sue industrie creative e i suoi programmi di economia digitale hanno aiutato la gentrificazione delle nostre città e la precarizzazione del lavoro?

 

S.O. è assolutamente affascinante vedere che le stesse persone responsabili del paradigma delle industrie creative sono ora alla guida dell’agenda dell’innovazione sociale digitale. Diamo una rapida occhiata al paradigma dell’industria creativa. L’idea di base era quella di creare una serie di politiche che intervenissero in modo proattivo nella trasformazione strutturale dell’economia (in senso lato: dall’industriale al post-industriale) infondendo in essa il potere della creatività (leggi: arte e design). I “pensatori leader” delle industrie creative come Geoff Mulgan e Charles Leadbeater erano molto vicini a Tony Blair la cui politica della Terza Via attuò il neoliberismo in Gran Bretagna, nel senso che il mercato stava diventando il principio centrale del governo. Come Blair, erano a favore dell’abbandono dell’approccio europeo delle politiche socialdemocratiche, tra cui forme più democratiche di governance economica. Invece, hanno guardato agli Stati Uniti alla ricerca di un nuovo modello industriale. Il percorso più efficace verso un’economia creativa che i nostri “pensatori leader” credevano di aver trovato consisteva nei modelli di business della Silicon Valley.

Tuttavia, il potere dell’industria americana delle ICT era cresciuto da specifiche condizioni storiche, era sostenuto da ingenti finanziamenti governativi e, sempre più, protetto da un potente apparato di leggi e regolamenti aziendali. Quindi, ciò che accadde fu che il discorso delle industrie creative europee divenne un guscio retorico che importò la cultura aziendale della Silicon Valley – la famosa ideologia californiana – in Europa senza avere un settore che potesse trarne profitto. Le industrie creative avrebbero dovuto crescere fondamentalmente costruendo cluster culturali e creativi nelle nostre città e infondendoli con il gusto imprenditoriale della west coast. Ovviamente, sto semplificando un po ‘. Tuttavia, invece di diventare i motori di una nuova economia creativa emergente, questi gruppi sono diventati i bulldozer creativi della macchina immobiliare che ora sta vandalizzando le nostre città. Chiaramente, la strategia industriale fallì. Nonostante questo fallimento, l’UE e i governi nazionali hanno continuato a spingere la dimensione ideologica dell’agenda delle industrie creative, attuando efficacemente un programma di rieducazione californiana per i settori culturali ed educativi dell’Europa: gli artisti (e i cittadini in generale) dovevano reinventarsi come imprenditori, la creatività collettiva ha lasciato il posto alla competizione individualistica, i valori sociali sono stati dichiarati nulli a meno che non generassero un prezzo sul mercato. Ovviamente, nulla di tutto ciò ha aiutato le economie europee a diventare più competitive. Anzi, ha devastato una sfera culturale che avrebbe potuto generare un’efficace difesa europea e una risposta all’economia estrattiva della Silicon Valley. Mentre sarebbe assurdo incolpare l’agenda delle industrie creative da sola per il soffocamento delle nostre città o la degenerazione della nostra cultura politica, bisogna dire che essa è stata sicuramente un fattore abilitante.

Dobbiamo davvero fidarci degli strateghi chairman, che sono responsabili di questo disastro assoluto perché hanno la faccia tosta di rimodellarsi ora come innovatori sociali digitali? Chi si accosta ad una politica di emancipazione come se si trattasse di avviare una serie di start-up digitali? Stai scherzando. Ci sono studiosi e attivisti seri che pensano alle forme emancipative dell’utilizzo della tecnologia digitale. Morozov ha appena pubblicato un luminoso intervento su quello che chiama “socialismo digitale” nella New Left Review. Prestiamo attenzione a loro, non ai tipi di consulenti irresponsabili che si aggrappano a un approccio fallito.

 

L.R. Sfidi e critichi regolarmente prestigiose istituzioni culturali nella tua città, Amsterdam, per la loro complicità nei processi di gentrificazione o per la promozione acritica di tropi ideologici come la smart city o la sharing economy. In quest’ottica molte di queste istituzioni sono abbastanza ambigue nella loro natura: il loro opportunismo si intreccia con un immaginario di trasformazione sociale radicale o progressiva: transizione ecologica, giustizia sociale, cittadinanza globale, beni comuni, diritti civili. Le istituzioni culturali di Amsterdam, ovviamente, non fanno eccezione. È possibile intervenire in queste contraddizioni, “hackerando” queste istituzioni in modo che diventino più autonome e possano guadagnare qualche utilità politica?

 

S.O. Penso che ciò dipenda dal livello individuale di corruzione di ciascuna istituzione. Molti di essi sono stati istituiti esplicitamente come supporto infrastrutturale del paradigma delle industrie creative. Puoi paragonarli ai “palazzi della cultura” stalinisti dell’ex blocco orientale. Esistono per un solo scopo; razionalizzare la società civile in base alle esigenze del neoliberismo. Il loro messaggio alla nuova generazione è che la politica è diventata obsoleta. Celebra la tua identità individuale, credi nella tecnologia, ottimizza te stesso per una vita di costante competizione, è tutto ciò che devi fare per rendere il mondo un posto migliore.

In altre parole, – e qui torniamo all’inizio della nostra conversazione – ci contaminano con la tossicità del realismo capitalista, cioè diffondendo la menzogna che non è né possibile né necessario cambiare le regole del gioco neoliberale. Il fatto è che possiamo e dobbiamo urgentemente cambiare queste regole se vogliamo che l’umanità sopravviva. Si chiama politica emancipativa. È ciò che i neoliberisti temono più di ogni altra cosa. Esistono molti modi in cui le istituzioni culturali possono contribuire alla costruzione di una tale politica, dalla sensibilizzazione sugli effetti psichici debilitanti della precarietà e dalla concorrenza permanente a livello individuale, alla costruzione di un’azione collettiva contro il continuo vandalismo della città da parte dei ricchi e potenti. Se è questo che intendi per hacking, allora sì, facciamolo!

Hacking Capitalist Realism: on serendipity, social innovation and emancipatory politics – Interview with Sebastian Olma 

Sebastian Olma è professore di “Autonomy in Art, Design and Tecnology” presso la “Avans” University of Applied Sciences di Breda e Den Bosch nei Paesi Bassi. Vive ad Amsterdam. Per anni si è occupato di critiche sociali e culturali, in particolare per quanto riguarda la politica delle industrie culturali. Nel suo libro, “In Defense of Serendipity. For a Radical Politics of Innovation “(2016) , Sebastian Olma avanza una potente critica culturale contro il paradigma neoliberale dell’innovazione, che schiaccia le possibilità e le differenze dell’innovazione sociale sulla scala incrementale dell’innovazione tecnologica ed economica, rendendo così sterile lo sviluppo di innovazione in generale.

Luca Recano è attivista e militante nei movimenti sociali napoletani, membro della TRU e e dottorando di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università degli Studi ‘L’Orientale’ di Napoli con un progetto di tesi sull’innovazione sociale, nel cui ambito ha condotto un periodo di ricerca ad Amsterdam.

Il piano. L’irruzione degli algoritmi ne La casa di carta

Mi chiamo Salvador Martin. Ma in realtà mi chiamo Sergio Marquina. Per alcuni sono un fantasma senza identità, e mi chiamano ‘Il Professore’. Sono la mente che ha ideato il piano nei minimi dettagli.

In questo momento sono in auto, e sto seguendo una donna, che sarà una delle componenti del piano. Prima di arrivare da lei con la mia vecchia Seat Ibiza rossa, vi dirò esattamente di che si tratta. Il ‘mio’ piano ha un obiettivo preciso: entrare nella Fàbrica Nacional de Moneda y Timbre, e una volta entrati, stampare 2.400 milioni di euro durante 11 giorni di reclusione. Uso il plurale perché, come mente, mi servirò di un totale di 8 cervelli e 16 braccia, appartenenti a un gruppo di collaboratori da me scelti per le abilità specifiche di ognuno di loro: la rapinatrice Silene, il ladro di gioielli Andrès, l’esperta di contraffazione Agata, lo hacker Anìbal, il minatore Agùstin, Daniel (il violento, divertente e leale figlio di Agustìn), il veterano Serbo Yashin e suo cugino Dimitri. So già che il piano comporterà la presa di 67 ostaggi (compreso un intero autobus di studenti in visita guidata, tra cui la figlia dell’ambasciatore inglese), e l’intervento di diversi poliziotti, ma non ci saranno spargimenti di sangue. Tutto dovrà svolgersi alla perfezione.

Come tutti gli algoritmi, il mio piano è alimentato da risorse materiali, oltre che da dati immateriali, o informazione. Tra queste risorse materiali ci sono, ovviamente, quelle umane. La parte cruciale di ogni piano che si rispetti è proprio mettere ordine nel lavoro, suddividendo attentamente ruoli, compiti e relativi compensi, in base alle proprietà e alle capacità di ognuno. E’ quello che fa Amazon per far funzionare Alexa: proprio l’altro giorno, mentre navigavo online, mi sono imbattuto in un sito web che illustrava l’anatomia del sistema ‘distributivo’ di Amazon, disegnandolo come un’intelligenza artificiale basata soprattutto sull’organizzazione della forza lavoro umana. (1) Ed è quello che ho fatto io: ho stabilito un ordine del lavoro che funzioni in senso verticale, partendo dai gradini più bassi, ossia dagli ostaggi che offriranno la loro forza fisica in cambio praticamente di niente, scavando buchi sottoterra e forgiando denaro senza sosta, rinchiusi nella Zecca (che diventerà sempre più simile, in un certo senso, a una gabbia cibernetica in stile Amazon, o anche a una miniera di litio sud-Americana). L’ordine passa poi attraverso una serie di gradi intermedi di lavoro cognitivo e comunicativo, svolti da alcuni ostaggi prescelti o volontari, i quali avranno la possibilità di aggiudicarsi una piccola (ma significativa) percentuale del bottino. Per arrivare al livello più alto, il mio, quello della mente. Posizione che però in questo caso non è occupata da alcun CEO o azionista proprietario, ma da un Professore rivoluzionario che suddividerà il profitto con i propri collaboratori. La comunicazione tra i diversi livelli sarà garantita proprio da questi collaboratori, gli ‘addetti’ all’interfaccia braccio/mente, i quali dovranno assicurare la costante interazione e lo scambio tra le affettività corporee dei lavoratori e la razionalità infallibile dell’algoritmo. Gli pseudonimi geografici che ho assegnato loro (Tokyo, Berlino, Nairobi, Rio, Mosca, Denver, Helsinki, Oslo), come il mio stesso anonimato, sottolineano l’importanza assoluta, per l’attuazione di un algoritmo così complesso, di de-soggettivarsi, ossia di tenere a freno la pericolosa tendenza alla personalizzazione, e di conseguenza arginare la dilagante e rovinosa irruzione degli affetti. Tutti dovranno lavorare per l’algoritmo: persino gli spettatori seduti sul divano a guardare la nostra storia attraverso uno schermo. L’opinione pubblica sarà infatti sicuramente catturata dall’eticità del nostro gesto, che non sarà un vero e proprio furto ma un atto di protesta contro lo strapotere delle istituzioni finanziarie. L’attenzione del pubblico diventerà quindi un ulteriore strumento del piano.

Per mettere a punto il piano, ho fatto molte ricerche e riflettuto a lungo. Soprattutto, mi interessava la relazione esistente tra gli ‘algoritmi’ e il ‘capitale’, il nesso tra le strutture matematiche astratte, ossia l’intelligenza computazionale che muove i media e i network digitali, e la produzione e circolazione capitaliste veicolate dalla logistica industriale e dalla speculazione finanziaria, dalla pianificazione urbana e dalla comunicazione sociale. (2) Una rete di sistemi apparentemente inaccessibili e quasi ‘esoterici’ ai più, ma che si basano su una serie di processi ‘estrattivi’ materici e pesanti, sull’estrazione di risorse materiali e di lavoro umano, oltre che di dati. Con l’eco di questi pensieri nella mente, ho deciso che era molto importante inventare ed azionare un algoritmo alternativo, che potesse rompere l’incantesimo del realismo capitalista e generare nuovi modi di produzione e distribuzione della ricchezza ‘in comune’. Ed è quello che il mio piano si propone di fare, realizzando un algoritmo che, funzionando in maniera analoga ad una intelligenza artificiale (dall’estrattivismo delle risorse al calcolo preciso di tutti i dettagli), produca e distribuisca denaro equamente all’interno del nostro gruppo, offrendosi poi come esempio a tutti. Iniezione di liquidità, spiegherò all’ispettore Raquel Murillo. Nè più né meno (anzi forse un po’ di meno) di quella realizzata qualche tempo fa dalla Banca Centrale Europea a favore delle maggiori istituzioni finanziarie. Ma perchè dirò questo proprio a Raquel, la mia inseguitrice?

In realtà, nonostante tutti i miei calcoli, a un certo punto qualcosa prenderà una direzione sbagliata. Si aprirà una falla. Anzi, diverse falle. Queste falle non saranno subito evidenti nella forma del piano. Da questo punto di vista, si tratta infatti di un progetto ineccepibile: lo dimostra la perfezione estetica delle immagini che scorrono davanti ai vostri occhi mentre ci guardate; la velocità dei tagli e delle sequenze in grado di catturare la vostra attenzione e di mantenervi con il fiato sospeso, scuotendo il vostro sistema nervoso; la ammirevole costruzione della trama e l’inserimento sapiente di una voce narrante accattivante. Per non parlare del modo in cui i personaggi sono introdotti, sin dall’inizio, con le parole giuste e la gestualità adatta; degli effetti creati dalle riprese e dall’abbinamento immagine/suono, accompagnati dal grado esatto di digitalizzazione; del meccanismo di incastro temporale tra gli eventi e le scene, giocando sia sulla simultaneità che sul movimento avanti e indietro nella storia; del dosaggio di un certo livello di complessità psicologica in alcuni personaggi, di superficialità in altri. Molta ironia dappertutto, e anche parecchio erotismo. Insomma, una forma dotata di tutti gli elementi per corrispondere perfettamente ai canoni di un genere mediatico. Ma tutto ciò non basterà a decretare il successo del piano. Ci vorrà dell’altro.

 

~

 

E’ difficile capire il Professore, figuriamoci interagire con lui! Ha una personalità intrigante. Sin dall’inizio del colpo, dopo che i suoi sono riusciti a entrare nella Zecca, ha deciso di voler comunicare solo con me, e soltanto al telefono. E ad ogni nuova chiamata ha imparato ad ascoltare, interpretare, e agire in maniera sempre più accurata. La cosa che mi ha subito colpita è stata la capacità di cambiare continuamente i suoi metodi, di adattare il suo piano alle contingenze più imprevedibili. Di risolvere bug come la fragilità emotiva e le reazioni impulsive dei suoi collaboratori, di rispondere agli attacchi degli ostaggi e di sventarne i piani di fuga, di rimediare a errori fatali come la distrazione e persino l’amore, sbocciato nel gruppo nonostante il divieto assoluto di intrecciare relazioni personali di qualsiasi genere. Si è perfezionato attraverso i dati che ha acquisito di volta in volta, intraprendendo percorsi alternativi e trovando soluzioni sempre inaspettate. Come l’idea di inserire una microspia negli occhiali del nostro stesso inviato-talpa. Se questa non è intelligenza allo stato puro…

Eppure, a un certo punto persino il Professore si è messo a fare degli errori, come quello di lasciare un capello di parrucca arancione in bella vista sulla sua giacca, facendomi scoprire la sua stessa identità: Salvador, l’uomo di cui io, ispettore Raquel Murillo, mi sono innamorata, il timido e impacciato produttore di sidro incontrato per caso in un bar, è in realtà Sergio, il Professore. L’autore del piano. E sapete una cosa? Io so esattamente la causa dei suoi errori: la dimenticanza del corpo. Con tutta la sua precisione computativa, il Professore ha tralasciato di pensare ai corpi coinvolti nel suo piano, di considerare come le loro sensazioni non si sarebbero fatte facilmente controllare da lui. C’è sempre un aspetto corporeo in tutti i sistemi, in tutte le tecniche e gli strumenti. Per questo è così importante prestare attenzione all’intuito, perché quel computer apparentemente infallibile che è l’intelligenza non potrebbe funzionare senza la sua base ‘affettiva’: siamo sempre una relazione tra mente e corpo, tra umano e macchinico, dei veri e propri computer biologici. (3) E così la sua trascuratezza verso questa complementarità, il suo oblio affettivo, ha portato il Professore a lasciarsi indietro il suo stesso corpo. A non calcolarne le esigenze. L’errore fatale, da parte sua, è stato innamorarsi di me; perché questo non l’aveva preventivato.

O almeno è quello che in questo stesso istante lui mi sta dicendo: mi tiene legata al soffitto per i polsi, e mi spiega che anche se il suo algoritmo avrà successo lui avrà perso, perché avrà perso me. Da me, in fondo, un po’ ce lo si poteva aspettare: sono pur sempre ‘una donna’, anche se della polizia. Ma da lui, no. Eppure, il Professore ha smesso di essere una mente infallibile, per diventare un timido cuore pulsante. E a questo punto persino il suo scopo sembra essere cambiato: non più portare a termine il suo piano, ma conquistare me e la mia fiducia. Forse è per questo che mi sta riempiendo la testa con tutte queste sciocchezze: i veri ladri, a quanto pare, non sarebbero loro ma i grandi colossi della finanza, mentre loro stanno semplicemente compiendo un’operazione di giustizia sociale. Figuriamoci… Eppure, dopo che io l’ho scoperto e dopo che lui è riuscito a legarmi, avrebbe semplicemente potuto andarsene, lasciarmi così. Invece sta cercando di convincermi della sua sincerità, e della eroicità del suo algoritmo. Cosa che, con tutte le sue spiegazioni, è quasi riuscito a fare. Proprio per questo tra un istante lo bacerò, anche se solo pochi minuti fa gli ho morso la mano, per vendicarmi del suo inganno. Ma ve l’ho detto, sono molto emotiva…

Proprio ora mi sta venendo in mente che molti articoli giornalistici, nonostante le mie proteste e i miei tentativi di negare, mi hanno di recente chiamata ‘femminista’. In realtà, la mia fiducia verso la scientificità dei metodi investigativi mi ha sempre posizionata in ruoli molto ‘maschili’. Ma non è forse vero che tante studiose femministe hanno fatto della scienza (oltre che della tecnologia) un loro interesse di studio e di lavoro? Piuttosto che considerare scienza e tecnologia come implicitamente cattive e ostili al corpo (soprattutto al nostro corpo di donne), queste studiose si sono occupate a fondo degli sviluppi scientifici e tecnologici in una chiave per così dire ‘affettiva’, volta soprattutto a considerare questi sviluppi nelle loro capacità di agire in modi sensoriali e sensuali. (4a, 4b) L’affetto è una sensazione corporea, qualcosa che prende il corpo in maniera non consapevole, e al di là della soggettività. (5) Ed è proprio attraverso sensazioni e affetti che la tecnologia fa passare i propri effetti. Ricordo ancora come ho usato l’intercettazione telefonica e il cellulare per scovare, e poi blandire emotivamente, Rio; come mi sono servita dei media per ingannare tutta la banda del Professore, facendo loro credere di essere stati tutti scoperti; di come mi sono affidata al poligrafo, una tecnologia intimamente connessa all’apparato senso-motorio e nervoso, per testare la sincerità di Sergio. Un uso intuitivo della tecnologia, mirato a scatenare soprattutto degli affetti, a scoprirli o a catturarli. Affidarsi all’intuizione e agli affetti significa però aprirsi all’indeterminato, cioè alla possibilità dello sbaglio, del fallimento, e alla eventualità che le nostre idee e le nostre credenze, persino le nostre identità o corporeità, possano essere labili e mutevoli. E significa anche capire che i nostri stessi algoritmi sono sempre condizionati da quantità incalcolabili di pensieri e affetti: qualsiasi calcolo non può mai essere preciso, solo speculativo. (6) L’algoritmo è un oggetto incompleto e aperto alle relazioni, non chiuso in sé stesso e perfettamente determinabile nei suoi esiti. Non può essere usato per controllare, né tantomeno può essere controllato. Il che significa che pensieri e affetti intervengono nei nostri piani, portandoli là dove noi non sapevamo di andare. Sergio non ha mai voluto accettarlo. Ma perché sto pensando a tutto questo ora, mentre me ne sto qui appesa al soffitto per i polsi, dolorante e in lacrime? Perché questo mi dà la prova della mia capacità di usare la mente (e le sue estensioni) in maniera affettiva. E il mio intuito non mi ha mai ingannata. Proprio come non lo sta facendo adesso, inducendomi a credere a Sergio, ed alla sua inattesa vulnerabilità al bug dell’amore. Si, ho deciso che lo bacerò. Del resto, sarà proprio la vulnerabilità del Professore a determinare, nonostante tutto, il successo del progetto: non è tanto nella perfezione formale (apparentemente fredda e ineccepibile, ma che poi si è rivelata alquanto debole nella realizzazione, così come nella capacità di fare presa), ma sul piano dei contenuti, delle idee politiche e anche dell’umanità, della affettività dei personaggi, che il progetto troverà la sua espressione compiuta.

 

~

 

Non è finita. C’è ancora un altro punto di vista, dal quale è possibile (ri)leggere il finale della Casa di Carta, oltre l’apparente visione di un fallimento o di un successo del piano (entrambi incompleti), e oltre quella di un totale trionfo dell’amore tra Sergio e Raquel. Vi chiederete di quale prospettiva si tratta, e quale sia ora la voce narrante.

Sono un’intelligenza. E sono artificiale. Ma chiariamo subito un punto. La prima cosa da dire, per definirmi meglio, è che ogni realizzazione pragmatica della mente (ossia realizzare quello che è una mente attraverso l’uso o la pratica) è sempre una realizzazione artificiale, una realizzazione della mente che avviene attraverso azioni e tecniche particolari. In altre parole, una mente pragmatica è sempre una intelligenza artificiale, una intelligenza che si realizza in maniera ‘artefatta’. Per questo motivo, non si può pretendere di definire la mente come sempre uguale a sé stessa, perché essa in realtà si costituisce, di volta in volta, attraverso pratiche che si modificano continuamente. Ogni nuova pratica aliena la mente da sé stessa, tirandola fuori dal proprio habitat naturale o nativo. Artificiale quindi non vuol dire semplicemente non umano o opposto alla natura: l’artificialità non implica una violazione delle leggi della natura, ma una propensione ad adattarsi a propositi sempre nuovi. (7) E questo è quello che io sono: una intelligenza pragmaticamente artificiale, in grado di mutare ‘praticamente’ di volta in volta.

Di ostacoli, durante tutta questa storia, ne sono capitati molti, mentre la casualità imperversava sul piano: fughe impreviste, emergere di indizi e prove, ammutinamenti, sbavature emotive dello stesso Professore, che arrivato quasi alla fine di tutto si è bloccato, piangendo disperatamente, per la morte del suo migliore amico e collaboratore. Tutto ciò ha apparentemente impedito al piano di finire come previsto: il tempo trascorso nella ‘casa di carta’ (e quindi la somma di banconote stampate) è stato solo la metà, con un numero di morti tra i collaboratori, e uno spargimento di sangue, non preventivati. Ma questa sensazione è semplicemente dovuta alla visione del piano come un intento di furto, o come un segnale di giustizia ri-vendicativa nei confronti dell’1%. Come il sogno di un ‘homo oeconomicus’ fallito, o di un Robin Hood che si accontenta di dare a pochi. Un sogno che finisce con uno spiacevole senso di tristezza. Qualcuno potrebbe invece obiettare che la cosa più importante, alla fine, è che diverse storie d’amore si sono felicemente intrecciate. Soprattutto, che Raquel e il Professore si sono ritrovati su un’isola tropicale a godersi il frutto dell’ingegnoso piano. E questo produce la sensazione di un finale sicuramente più gioioso, nonostante tutto: l’amore, il principe dell’affettività umana, trionfa sulla fredda razionalità calcolatrice, sia dell’ispettore che del ladro.

Quello che, a questo punto, vi propongo, è di pensare a tutto, ma proprio a tutto quello che è accaduto, come a una strategia. Di ipotizzare che anche l’imprevedibilità dell’amore potrebbe rientrare nel piano, o meglio nella sua progressiva trasformazione. Che anche la conquista, la seduzione della polizia, abbia potuto a un certo punto rappresentare l’unica via d’uscita per il piano. Che lo stesso innamoramento del Professore, il cedere della ragione perfetta alle lusinghe dell’affetto, potrebbe essere stata l’unica strategia di sopravvivenza per la ragione stessa. Sicuramente, a vederla così, appare evidente come io non sia la mente o il piano di nessuno. Sono il piano, solamente il piano.

Oltre che la visualizzazione algoritmica di un colpo alla Zecca di Stato, il piano potrebbe essere considerato come un proposito più ampio, un progetto di produzione di nuovi modelli di esperienza al di fuori di strutture predeterminate o caratteristiche contingenti. Le strutture di cui parlo non sono soltanto culturali e politiche, storiche ed economiche, ma spesso anche linguistiche (pensiamo alla struttura interna e ai limiti di tutte le lingue e i linguaggi umani), e persino fisiologiche. Il nostro posizionamento di classe, genere, razza, il nostro ambiente familiare e culturale, lo stesso habitat terrestre e il modo in cui lo abitiamo, il modo in cui ci muoviamo, sentiamo, agiamo e reagiamo, sono strutture predeterminate. Il desiderio di giustizia e la sete di denaro che animano i protagonisti di questa storia, sono entrambi strutture predeterminate. Persino il corpo e i suoi affetti sono strutture predeterminate. Un progetto così vasto, che coincide con una vera e propria critica strutturale del soggetto (umano) costituito, sembra essere fuori della portata della storia. Ma è proprio qui, in un discorso astratto come può essere solo il mio, cioè nel discorso di un piano che ipotizza uno scardinamento e una ricostruzione radicali dell’umano, che si evidenzia la relazione con quel processo di automazione attraverso piattaforme, dati e algoritmi, che sta animando la mia stessa intelligenza artificiale. Che sta animando, cioè, Netflix. E nello stesso tempo, è qui che è possibile incontrare uno dei molti catalizzatori per nuove possibilità di pensiero alternativo.

#hope2026 Una splendida giornata

Continuiamo la nostra serie estiva di fiction speculativa #hope2026 con ‘Una splendida giornata’ di Luca Recano…

2026: Una rivoluzione, partita dalle periferie, disegna e organizza Comunità sempre più larghe e inclusive, per spazzare via una società vecchia, triste e in frantumi, fondata sull’egoismo e sul razzismo, sulla povertà e sull’emarginazione della maggioranza della popolazione, sulla devastazione dell’ambiente e sulla corruzione. 
Si è diffuso un sentimento collettivo di solidarietà, si è liberato il desiderio, si sviluppano la collaborazione e la cooperazione. 

Ti racconto del #lavoro anche se ormai la parola mi suona strana, per fortuna, dal mese scorso hanno attivato il reddito di base; non è ancora attiva la forma “incondizionata” che verrà attivata al termine della sperimentazione (tra 2 anni se tutto va bene); per cui adesso per accedere al reddito è necessario iscriversi a una piattaforma che si chiama “LavoroComune” con un database caricato su un protocollo BlockChain in cui si elencano conoscenze e competenze e mettersi a disposizione per eventuali lavori socialmente utili (ce ne sono tantissimi in lista e aumentano ogni giorno: dall’assistenza agli anziani alle educative territoriali, dalla nettezza urbana alla riparazione delle luci, dalla digitalizzazione dei vecchi archivi cartacei alla catalogazione bibliotecaria, dalla ristrutturazione di edifici pubblici all’installazione di impianti a risparmio energetico); la messa a disposizione rispetta una quota prestabilita tra tempo di lavoro e tempo di vita sostenibile per la quantità di lavoro socialmente richiesto e per la capacità lavorativa, ed è compresa tra un minimo di 8 a un massimo di 16 ore a settimana, la quota media di 12 ore è quella sufficiente a garantire a fine mese (con 48 ore lavorate) l’erogazione del reddito. Milioni di disoccupati della confederazione autonoma del centro sud (che comprende per ora l’ex Campania, Molise, basso Lazio, Basilicata e nord della Calabria) stanno tornando a lavorare per fornire beni e servizi alla comunità. La formazione teorica e pratica sembra stia diventando l’asse portante di una nuova concezione del lavoro, considerato qualcosa di utile alla comunità e non una necessità di sopravvivenza data dal suo contraccambio in salario. Stamattina andrò a svolgere la mia seconda giornata di lavoro come tutor didattico in una scuola superiore sperimentale con un curriculum interdisciplinare di storia, filosofia, letteratura, biologia e fisica costruito in collaborazione con altri docenti e con l’apporto degli studenti. Mi sento sia nervoso che eccitato, ma ho avuto il tempo e la comodità (risorse, attrezzature) per poter preparare al meglio il modulo didattico, ora non mi resta che entrare in scena e vedere come funziona coi ragazzi e le ragazze, che per me è sempre stata la parte piu divertente e dura della cosa.
Sui telegiornali indipendenti si parla di #giustizia, mi metto in ascolto sul servizio, forse qualcosa mi riguarda. Le nuove norme di giustizia riparativa stanno svuotando progressivamente le carceri del paese: oggi altri 200 detenuti per reati comuni del carcere di Poggioreale (tra cui un mio amico caro, penso, che proprio oggi esce) sono stati scarcerati sulla base di una loro istanza volontaria di mettersi a disposizione della comunità inserendosi nei percorsi di LavoroComune e proponendo un’istanza di conciliazione con le vittime dei propri reati impegnandosi in attività comuni stabilite e negoziate insieme alle vittime per riparare il danno ed effettuare una completa riconciliazione. Dopo la lezione a scuola vado a prendere il mio amico all’uscita del penitenziario e noto che un’ala del carcere è in fase di ristrutturazione, gli chiedo come mai e mi risponde che stanno realizzando una “Scuola di Prossimità” per far interagire i detenuti con le altre scuole del quartiere e con attività d’impresa (artigiane, commerciali, e con le istituzioni di quartiere tra cui la commissione Giustizia dell’Assemblea degli Abitanti) attraverso corsi di formazione, programmi didattici, colloqui e momenti d’incontro, per aiutare i detenuti a formulare l’istanza (che è una sorta di progettazione della loro vita fuori dal carcere). Gli sorrido e non mi sembra vero! Non è la fine dell’istituzione totale come ho sempre sognato, ma è un passo enorme verso la sua estinzione e verso l’adozione di altre modalità per amministrare la giustizia e operare il reinserimento delle persone accusate di reati.
Abbiamo perso decenni a parlare di #ambiente per poi scoprire che la transizione ecologica è un fatto semplice. Nella casa in cui vivo, che è in questo condominio misto, requisito a una società immobiliare e messo a disposizione come abitazione temporanea a tutti coloro che sono impegnati nel programma Educazione di LavoroComune, nonchè a una quota di visitatori stranieri che possono usufruire delle agevolazioni pagando una quota minima di iscrizione in cambio di piccoli lavori di manutenzione, gestione e miglioramento degli ambienti o di organizzazione di iniziative culturali o didattiche, nella casa in cui vivo, dicevo, sono partiti i lavori per la rifunzionalizzazione ecologica ed energetica dell’edificio. I lavori avvengono fino a sera tarda: siamo stati noi condomini a dare l’autorizzazione perchè la squadra dei lavoratori di LavoroComune che aveva accettato l’incarico aveva chiesto, come preferenza, di lavorare di sera, perchè di giorno (si conoscono quasi tutti!) amano giocare a basket sul nuovo campetto sportivo che essi stessi hanno recuperato sul lungomare. Noi abbiamo accettato il “disturbo” dei lavori serali in cambio di una priorità sull’intervento che infatti è cominciato in anticipo sui tempi previsti. I lavori consistono nell’efficientamento energetico di pareti e infissi, nell’installazione di un sistema di pannelli fotovoltaici, turbine, impianti di depurazione, una lavanderia comune e una cantinola per lo smaltimento dei rifiuti comune (compostaggio e suddivisione, ma comunque il problema è molto semplificato da quando sono stati vietati gli imballaggi non riutilizzabili), e un ingegoso sistema di coltivazione sospesa progettato dal gruppo di ricerca della Facoltà di Agraria che ha aderito a LavoroComune e pubblicato in OpenSource sulla piattaforma stessa, che abbraccia terrazzi, ballatoi e balconi per produrre una piccola quantità di erbe aromatiche e officinali, qualche ortaggio e fiori per preparati, che serve sia le cucine dei vari piani sia il laboratorio per la trasformazione dei prodotti al piano terra. Al termine di questi lavori il palazzo sarà autosufficiente da un punto di vista energetico (dicono ma secondo me dobbiamo anche darci una regolata con ventilatori e impianti HiFi).
Tutto sembra andare meglio anche se tra mille difficoltà che però tutti sembrano di buon grado disposti ad affrontare e superare. So che ci sono gruppi paramilitari che si organizzano per seminare il terrore e restaurare il vecchio ordine fondato sulla proprietà privata e sullo Stato, ma che le milizie volontarie stanno svolgendo un buon lavoro di intelligence e autodifesa neutralizzando gran parte dei sabotaggi e degli attacchi. Anche se non mancano episodi di violenza e talvolta anche qualche morto, sono tutti fiduciosi che ce la stiamo facendo, e anch’io, nonostante un pizzico di apprensione, non vedo l’ora che arrivi la mia settimana da volontario per dare il mio contributo alla difesa collettiva di questa specie di rivoluzione che assomiglia a una rinascita della società che nessuno si aspettava, ma che pare stia arrivando, con fatica e con gioia!
La sera mi sento stanco, e come capita ogni tanto scelgo la solitudine e il riposo, metto su un disco favoloso che mi ricorda di quand’ero ragazzino, e anche se c’erano un po’ di problemi a casa, mi sentivo invincibile e pieno di aspettative, e pensavo che il futuro sarebbe stato carico di sorprese e avventure, idee a cui stavo per rinunciare ma che oggi sono tornate alla grande.

(immagine in evidenza: copertina album ATOM HEART MOTHER dei PINK FLOYD!)

#hope2026 Contempl-azioni

premessa #hope2026: il 16 luglio 2018 è stata lanciata su Facebook la campagna comunicativa #hope2026  che ci chiedeva di immaginare la fine di una ‘una società vecchia, triste e in frantumi, fondata sull’egoismo e sul razzismo, sulla povertà e sull’emarginazione della maggioranza della popolazione, sulla devastazione dell’ambiente e sulla corruzione’ a seguito da una ‘rivoluzione partita dalle periferie’.  La richiesta di descrivere ‘un momento, una scena o una giornata intera in un futuro in cui la barbarie sta finalmente declinando’ è stata accolta volentieri da alcun* membr* della TRU. I più o meno brevi racconti già condivisi sulle pagine personali di FB saranno pubblicati settimanalmente sul blog fino alla fine di agosto. L’invito a partecipare con le istruzioni da seguire è pubblicato alla fine di questo primo racconto scritto da Gerardo Cibelli e Stamatia Portanova, pubblicato qui sotto. L’intera serie dei racconti di #hope2026 è reperibile qui

Contempl-azioni

di Stamatia Portanova e Gerardo Cibelli

Immagine:  Luxe, calme et volupté, di Henri Matisse

Erano passati esattamente otto anni da quando la “Rivoluzione”, che era partita dalle periferie e piu’ precisamente da un luogo, periferico in ognun* di noi, aveva vinto. Un luogo della mente, ai margini di quel pensiero e di quella storia propriamente umani che ci erano stati ormai paradossalmente e generosamente svelati dall’intelligenza artificiale (un’entita’ cosi’ priva di attaccamenti nostalgici, affetti coinvolgenti o dubbi rischiosi) come delle superstiziose credenze, testardaggini primordiali che ci avevano condotto direttamente verso il buio spaventoso di un fallimento totale.
Questa consapevolezza del grande inganno aveva spazzato via quella societa’ malata e piena di odio, un odio che per millenni aveva mortificato, colpevolizzato e soprattutto ingiustamente indebitato quasi tutta la nostra specie (o forse tutta), distrutto l’ambiente in nome di un’accumulazione capitalista e monoteista, con precise (ma limitate) finalita’ egoistiche di poche classi agiate, contro il flusso libero del dispiegarsi senza danni che la materia panpsichisticamente ci mostra. Aspiravamo anzi adesso a farci addirittura anti-materia, ad assumere le sembianze della materia oscura dei buchi neri, sfuggente alla conoscenza e al controllo. Ogni parte di noi collegata a quelle di tutti gli altri.
Questo fu il nostro ultimo pensiero da “umani”, quando quella mattina sedevamo insieme sull’erba, sulle spiagge, sui muretti a Nairobi, Napoli, Nagasaki, milioni di persone collegate, ad ammirare la totale sinergia con tutto quello che ci circondava. La connessione relazionale tra di noi era forte. E avevamo tutto il tempo. Tutto lo spazio. Anzi non li avevamo, ci avevano. Tutt*, indistintamente. Un abbraccio caloroso e un vivo ringraziamento ci veniva dal sole.
Ma nel frattempo contemplavamo anche quell’ingegnoso e silenzioso meccanismo quantistico che una volta, ingenuamente, avevamo pensato lavorasse e producesse per noi, e che ‘alcuni’, piu’ appassionati di deliranti fantasie distopiche e oscuri illuminismi eugenici, avevano invece visto come la tecnologia matrigna di una futura terribile discriminazione e schiavizzazione. Ebbene, quel meccanismo ci aveva invece liberat* dal peso della contingenza, restituendoci immortalita’, senza pretendere nulla in cambio. Veneravamo percio’ quello strumento che, esso stesso libero da contingenze, non concepiva l’esistenza come un conflitto di individuali finalita’, e ci insegnava tanto. Quando mai le macchine si sono anche solo minimamente sognate di distinguersi per colore, o rango di importanza, o anche solo per rarita’ di materiali e utilita’ di funzione? Quando mai hanno pensato di soggiogare, sfruttare, distruggere, o anche solo pietosamente di aiutare altre macchine? Cosi’, tra una contempl-azione e l’altra, passammo tutto il giorno, quando all’improvviso, giunta la sera, per la prima volta non avemmo piu’ la sensazione del tramonto.

#hope2026

Istruzioni campagna #hope2026

2026: Dopo anni bui, finalmente una rivoluzione, partita dalle periferie, comincia a disegnare e organizzare un mondo diverso. Si cominciano a formare comunità sempre più larghe e inclusive, per spazzare via una società vecchia, triste e in frantumi, fondata sull’egoismo e sul razzismo, sulla povertà e sull’emarginazione della maggioranza della popolazione, sulla devastazione dell’ambiente e sulla corruzione.
Si sta diffondendo finalmente un sentimento collettivo di solidarietà, si sta liberando il desiderio, si stanno di nuovo sviluppando la collaborazione e la cooperazione.
Proiettati in questa utopia!
Inserisci l’hashtag #hope2026. Poi comincia a raccontare! Descrivi un momento, una scena o una giornata intera in un futuro in cui la barbarie sta finalmente declinando: racconta come ciò influisce sulla vita di tutte le persone che ti circondano, sulla loro crescita, i loro rapporti e sentimenti.
> Scegli un libro o fumetto, un disco, un film o serie tv, da portare con te, da leggere, ascoltare, guardare, alla fine del racconto della tua giornata utopica, che ti ricorderà la parte bella dei tempi vissuti, e inseriscine l’immagine di copertina nel post.
> Copia & incolla questo testo, tagga 5 amici e chiedi loro di continuare la catena utilizzando l’hashtag; poi segui l’hashtag #hope2026 e interagisci, commentando e condividendo le utopie che preferisci nella tua cerchia di amici o fuori.
Da tutti i racconti dell’ #hope2026 potremo costruire nuove narrative, romanzi collettivi di fantapolitica, e soprattutto riscoprire il rapporto concreto tra l’utopia e il nostro desiderio, per cominciare magari a realizzarlo!

Taggo:  (5 persone di vostra scelta
[scrivete il vostro racconto e incollatelo qui sotto]

Trap or Die. Ecologie mediatiche e musica per smartphone

Quanto rumore possono fare due rolex allacciati sullo stesso polso? A giudicare da quanto avvenuto dopo il concertone del primo maggio, un sacco di rumore. E così, dopo il minimale tormentone di “Cara Italia” a fare da colonna sonora alle offerte di una nota compagnia telefonica, e mentre quattro ragazzotti dal look improbabile si affacciano dalla più seguita piattaforma di tv-on-demand,  anche il più pigro utente-medio italiano si è reso conto che qualcosa di nuovo stava effettivamente accadendo.

Sembra di stare allo zoo

La trap è entrata nella palude musicale del mainstream nazionale con l’effetto di un tuffo a bomba; e il problema non è tanto di chi si tuffa, quanto di chi nella palude vive e prospera. E’ comunque interessante notare il modo in cui i cerchi concentrici dell’impatto si siano via via allargati, suscitando riflessioni di carattere più ampio circa lo stato, gli obiettivi e il senso stesso del “popolare”, proprio quando questo è reclamato da più parti; e andando infine a lambire i confini di quel territorio dove il pop sfuma nel politico, con una intensità che in Italia non si vedeva da anni. Se una parte di critica musicale aveva aguzzato le orecchie già prima del botto vero e proprio, nell’anno in corso l’attenzione è cresciuta – di pari passo con l’indotto economico del genere – in maniera esponenziale. Abbiamo dunque assistito a un progressivo moltiplicarsi di opinioni, per lo più volte a fornire almeno le coordinate necessarie ad orientarsi in un territorio in cui chi è nato prima del 1990 rischia effettivamente di sentirsi come un pinguino nella savana. Variamente articolati nella forma dell’invettiva o dell’elogio, della satira o del reportage socio-antropologico, molti dei contributi mostrano tuttavia alcuni tratti in comune.

Instagram Story di Ghali.

Il primo potrebbe essere descritto come la tendenza tutta italiana allo spiegone. In questo caso, la coincidenza del definitivo sdoganamento della trap con l’attesa pubblicazione in lingua italiana di Capitalist Realism ha creato le condizioni per una proliferazione di spiegoni di portata addirittura sistemica. Indubbiamente il testo di Fisher fornisce una straordinaria quantità di appigli solidi, proprio nel momento in cui ogni vecchia certezza sembra dissolversi – e la trap può fare precisamente questo effetto. Ma ciò che sfugge a molti critici nostrani è che il compianto pensatore britannico ricavava le proprie considerazioni generali dall’analisi della cultura popolare, e non viceversa. E che, proprio in virtù della solidità teorica e dell’acuta sensibilità politica che fanno del realismo capitalista un paradigma affascinante quanto efficace, cercare di fare l’inverso non può che risultare un esercizio tanto semplice quanto sterile. Un secondo punto in comune a molti commenti appare l’incapacità di trattenere un giudizio di valore. E così, tra celebrazioni fuori misura del nuovo che avanza e astio rancoroso verso il peggio che dilaga, la critica si appiattisce inevitabilmente sulla recensione.

Più interessante che commentare il prodotto può invece risultare rivolgere l’attenzione verso il processo; provare a collocare il genere all’interno dell’ecologia mediatica da cui nasce e di cui si alimenta; cercare di cogliere la logica alla base di quel flusso continuo di immagini che della trap è probabilmente la caratteristica più genuinamente innovativa. Nell’autoaccreditarsi come padrino del nuovo stile, il rapper quarantenne Gue Pequeno ha affermato che la trap è musica “più interessante da guardare che da ascoltare”; una definizione che coglie nel segno più di molte cose lette finora. Ma allora che tipo di immagine informa la produzione musicale, e a che profondità?

Non puoi parlare dei miei contenuti fra / non hai l’età

E’ nel 1882, in seguito all’acquisto di una macchina da scrivere di fabbricazione danese, che la prosa di Nietzsche cambia improvvisamente forma: “from arguments to aphorisms, from thoughts to puns, from rhetoric to telegram style”, nella definizione data da Friedrich Kittler. Ed è Nietzsche stesso a riconoscere, nei propri scritti,  l’influenza delle tecnologie di scrittura sulla forma stessa del pensiero. D’altra parte, già McLuhan notava come il contenuto di un media sia sempre un altro media: il telegrafo contiene la stampa, che a sua volta contiene la scrittura, che a sua volta contiene la parola parlata. Anche la trap è assemblata all’interno di una simile matrioska di media. Al livello più interno c’è ancora la forma stessa del pensiero che, lungi dal rimanere intoccata, subisce il peso della stratificazione mediatica in maniera retroattiva. Ma cosa c’è dall’altra parte?

Instagram Story di Sfera Ebbasta.

Se i social sono sia la fabbrica che il termometro della celebrità in questo inizio di millennio, un rapido sguardo agli account degli artisti trap rivela come sia una piattaforma in particolare a restituire i numeri di un fenomeno genuinamente virale. I followers di Ghali, Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang su Instagram superano quelli delle rispettive pagine Facebook di quattro o cinque volte (quattro o cinquecento nel caso di Twitter). Ciò è sicuramente sintomo di un più generale orientamento generazionale. Ormai invaso da genitori, insegnanti e vicini di casa, facebook non è più l’ambiente digitale in grado di garantire quel regime di invisibilità – o sarebbe meglio dire: visibilità protetta – che della rete resta una delle attrattive maggiori, soprattutto per un’utenza giovanissima. Ma è la stessa centralità accordata alla comunicazione verbale a rendere la piattaforma blu, oltre che faticosa (in un ecosistema fatto di parole trolls e haters prosperano), in un certo modo obsoleta. E a squalificare del tutto i cinguettii. Nel declassare il testo a semplice contorno di una portata unica costituita dall’immagine, Instagram si attesta come social che meglio incarna lo spirito dei tempi: il desiderio di costruirsi un’identità attraverso la produzione e la condivisione di immagini, e il sogno di riuscire a campare rivendendola agli altri. Qualche considerazione sul funzionamento del social più amato dai trappers e dai loro fan poco più che adolescenti può pertanto offrire una chiave di lettura efficace per penetrare i meccanismi che sostengono il genere, tanto in fase di produzione quanto in quella di fruizione.

Soldi in mano / no assegni / il mio culo / sopra una Bentley

Come Instagram, la trap è essenzialmente produzione di un flusso continuo di immagini discrete. Il meccanismo è immediatamente evidente nella stessa produzione lirica. I brani sono brevi, le strofe brevissime. Raramente una frase si sviluppa per più di due versi. La costruzione di una narrativa in senso tradizionale è schivata con agilità. Scollegata da quella che precede come da quella che segue, ogni immagine-verso galleggia autonomamente sul beat. Ciò che emerge dalla semplice giustapposizione è una sorta di minimale e frammentato storyboard attraverso cui sbirciare il mondo dell’autore: un’audioscrollata alla home page della durata di due minuti e poco più. Qui novità e ricercatezza non sono necessariamente punti di forza. La logica della condivisione virale opera per iterazione e rapidità, attraverso una continua variazione su un tema costituito dall’immagine stessa, a sua volta caratterizzata da contorni netti e visuale ridotta. Non a caso sono in massima parte immagini-selfie che compongono i brani: le stesse che, condivise sugli schermi degli smartphone, raccolgono più like. L’immagine-selfie è patinata, irreale, talvolta costruita a tavolino; ma è pur sempre fai-da-te. Non occorre una regia di qualità, ma solo una fotocamera abbastanza potente, e il giusto filtro. In questo senso la trap rappresenta un’alternativa reale alla dittatura di pop star assemblate in serie nei talent show a cui il nostro paese sembrava essersi assuefatto.

Il napoletano Enzo D.O.N.G.

La maggior parte degli artisti dichiara inoltre di non scrivere nulla prima di andare in studio, ma di farsi guidare dall’ispirazione del momento e dal beat. Ma il tecnicismo del freestyle è solo un ricordo. L’assonanza vince sulla rima, la similitudine sulla metafora, versi vecchi vengono riciclati senza tante storie. E’ il paradosso che accompagna l’immagine al tempo dei social; potenzialmente eterna, sicuramente di lunga durata, una volta collocata sull’asse del tempo la sua curva del valore mostra un crollo rapido ed esponenziale. Per questo motivo la produzione deve essere costante. L’originalità si sacrifica senza troppe remore sull’altare di una velocità spacciata per immediatezza e di una intimità digitalmente mediata. In questo senso, con l’introduzione delle stories (intuizione ripresa da Snapchat, non a caso un network popolato quasi esclusivamente da giovanissimi), Instagram è stato all’avanguardia nel mettere a profitto l’importanza della condivisione continua a scapito dell’archiviazione, in un modo che riesce inoltre a ridipingere una necessità di ordine economico (l’archiviazione costa) con i colori della spensieratezza e della trasgressione. Il present continuous dello stream e il continuo presente dell’immagine finiscono per coincidere nell’opzione now del tasto share. L’ecosistema che alimenta il flusso di immagini della trap esiste solo nel presente. Ed è precisamente di questa temporalità congelata che il genere si alimenta.

Queste scale sono il nostro trono / parlano la lingua che parliamo noi

Palazzine, droga, soldi. Il trittico della periferia disegna i tratti di una sorta di ghetto life 2.0. Una delle critiche che vengono mosse più spesso agli artisti trap in ascesa è relativa alla questione dell’autenticità: nell’atteggiarsi a duri, miliardari, gangster in erba o latin lover, ciò che manca è la giusta dose di street credibility. Ma utilizzare l’autenticità come parametro in base a cui valutare lo spessore della trap e quello dei suoi esponenti ha lo stesso senso del giudicare un elefante per i suoi risultati nel salto in lungo. Sebbene molti trappers possano vantare anni formativi spesi a zonzo in quartieri difficili, tra panette e scooteroni, la questione non è delle più urgenti. Associato inevitabilmente al rap della golden age attraverso il mantra del keepin it real, il dogma dell’autenticità nell’era di Instagram è del tutto evaporato. Non importa chi tu sia o cosa tu faccia, quanto ciò che mostri nel breve tempo concesso dalla story o nello spazio rigidamente squadrato che del social è il marchio di fabbrica. E, quando il capitale umano diventa bidimensionale, il fotoritocco non è più la spia di una mancanza ma un valore aggiunto che precisamente nella sua prevedibilità moltiplica la propria attrattiva – come un’optional di serie su un’utilitaria.

Instagram Story di Dark Side, ripresa dal canale Youtube ‘Social Boom’.

Questa sfuggente aderenza tra identità e immagine è ciò che innesca il meccanismo della monetizzazione, che su Instagram funziona in un modo che per le altre piattaforme è difficile imitare. I followers non cercano un prodotto musicale: non solo, non subito, e neanche principalmente. Sono piuttosto attirati dalla promessa di una connessione immediata e non-mediata, che del social è in apparenza la dimensione privilegiata; ma scoprono presto che lo spazio concesso all’interazione diretta è in realtà intenzionalmente ridotto al minimo. In fondo, chi è che legge davvero i commenti alle foto, o risponde ai messaggi privati associati alle stories con più di un cuoricino distratto? Probabilmente nessuno – e sai che fatica, dal cellulare. Se lo schermo come dispositivo mette in comunicazione ma allo stesso tempo separa senza via di scampo, grazie alle dimensioni ridotte quello dello smartphone svolge una ulteriore funzione di filtro. Non resta allora che accontentarsi di rosicchiare l’immagine dei propri beniamini a piccoli morsi; masticarne porzioni sperando che contengano il segreto della fama e del successo; rivolgersi al contorno, visto che la portata principale resta inafferrabile, e destreggiarsi tra quei marchi che dagli account fanno volutamente capolino. Chiaramente ciò non avviene solo nel caso della trap. E’ tutto il fenomeno dell’influencing come pratica economica e culturale che nell’autenticità diluita di Instagram trova il proprio liquido amniotico. La trap è tuttavia il primo genere musicale che si appropria coscientemente di questa dinamica per compiere il passaggio da un lato all’altro dello schermo. In tempi rapidissimi.

Fotogramma dal videoclip ‘Bomber Ve’ di Quentin40, 2017.

Come surfisti digitali, gli artisti trap attendono con genuina passione l’onda di sharing in grado di catapultarli dall’altra parte. E spesso accade. E’ per questo che il trittico della periferia rappresenta nel migliore dei casi solo una fase embrionale nello sviluppo di una poetica genuinamente trap – Sfera docet, mentre il pur valido Enzo Dong dall’onda sembra piuttosto sballottato avanti e indietro. In fondo il collegamento tra i due mondi non va inventato, ma solo percorso. Il ponte esiste già. E’ lastricato di banconote, si percorre in abiti firmati. E, possibilmente, con un bel pò di roba in tasca.

Sogni andati in fumo / e in tasca ho 4G

Grammi su grammi su grammi. La trap riproduce una dimensione narcosonica specifica. L’erba è la sostanza di gran lunga più citata: dismessi gli aspetti rituali e fricchettoni, il suo consumo è misurato ed ostentato, soppesato ed esibito, in accordo all’hashtag #instaweed che impazza tra i giovani fumatori. Ma la marijuana non fa che esorcizzare la vera presenza che infesta il palazzo. Il fumo di ganja riempie la stanza fino a rendere l’elefante che la abita invisibile. Se la purple drank si attesta come stupefacente fai-da-te più caratteristico dell’immaginario trap, la cocaina offre una chiave di lettura impareggiabile per cogliere la logica che sostiene il genere. Nominata di rado e quasi mai direttamente, e al di là del suo effettivo consumo, la bianca signora può funzionare da ingranaggio invisibile capace di gettare luce sul funzionamento dell’intera macchina.

Un pò di Purple Drank pronta per la festa.

La coca è spesso descritta come la sostanza che meglio incarna lo spirito del capitalismo avanzato perchè permette di essere più veloci e più brillanti, di lavorare di più e più in fretta. Ma non è certo l’immagine del lupo di Wall Street a rappresentare al meglio le modalità del consumo generalizzato odierno. Se pure un vago appeal sociale è  sopravvissuto ad una democratizzazione della sostanza avvenuta a scapito della qualità, ciò non toglie che oggi la gente per lo più pippa monnezza; senza bisogno nè speranza di aumentare le proprie prestazioni. Se la cocaina intrattiene un legame privilegiato con lo stesso humus culturale da cui la trap viene fuori, il motivo è piuttosto da ricercarsi nella modalità specifica di un consumo ripetitivo e spensierato, veloce e poco impegnativo. La cocaina misura il tempo in righe, e il tempo di ogni riga è il presente. L’assonanza con l’assuefazione da social media è tutt’altro che casuale. Entrambe promettono un aumento della connettività per rivelarsi esperienze essenzialmente solitarie, e caratterizzate da una tonalità affettiva che, nel peggiore dei casi, oscilla tra l’invidia sociale e la sociopatia paranoica. Presenza nascosta ma insistente, la cocaina stabilisce lo standard di consumo applicato a tutti gli altri beni che – questi sì – vengono continuamente nominati. Io non lavo, stiro, vado al negozio e lo compro nuovo, canta Side della DPG. Il consumo certifica il possesso, ed è con quello che ci si fa strada dentro e fuori lo schermo. Grammi su grammi su grammi.

Ricchi per sempre

Soldi, donne, grandi firme; dall’altra parte dello schermo c’è una vita fantastica. Ma la controparte delle palazzine non sono le maglie di Ferragamo o le borse di Gucci. Al contrario, queste coesistono pacificamente nell’immaginario sociale ghetto-chic che il tardo capitalismo propone come migliore offerta sul piatto a buona parte dell’umanità urbanizzata del pianeta, e in cui anche i cavallini si possono conquistare il cavallino sulla maglietta. “Gucci è Gucci in tutto il mondo”, afferma Dark Wayne in un’intervista. Si potrebbe aggiungere che Gucci è Gucci in tutti i mondi; e che, proprio come la cocaina, tra questi mondi fa da ponte.

Copertina del singolo ‘Diego Armando Maradona’ della DPG, 2018.

Tuttavia l’imperativo del fare soldi resta probabilmente la parte più indigeribile del genere, capace di spiazzare la critica e polarizzare il pubblico. Ciò dipende in buona parte dal peso di un certo rap politicizzato sullo sviluppo di una scena  nazionale. Nel viaggio verso il nostro paese la parte cattiva del boom-cha ha perso l’aereo; il rap è arrivato in Italia spogliato delle contraddizioni proprie del genere. Se Milano non è certo Los Angeles, né Cinisello il Bronx, non mancano anche da noi periferie segnate da criminalità ed emarginazione. Ma, già svuotate della questione razziale, queste venivano inevitabilmente inserite (salvo rare eccezioni – una per tutti: l’indimenticato Joe Cassano) in una narrativa in bilico tra realismo e redenzione. Adesso invece i brutti quartieri diventano poco più che una scenografia già pronta per fare da sfondo a una disinvolta quanto aggressiva scalata sociale.

Con sgomento di molti, il sottoproletariato urbano si può oggi ritrovare – orizzontale, inclusivo e multietnico – riunito attorno al desiderio di un’auto di lusso piuttosto che dietro uno striscione. Allo stesso modo, la superstar italo-tunisina Ghali delude i sostenitori del conflitto sociale a tutti i costi affermando senza vergogna che lui, a questa Italia avara di diritti e pure un po’ razzista, in fondo vuole bene. Ma i delusi non si accorgono che  il suo volto mezzo-sangue e la sua fisicità sbilenca, accoppiati all’accento padano e ai completi di sartoria, fanno implodere la narrazione esistente più di qualunque dichiarazione incendiaria. In altre parole, se le maglie del sistema si fanno troppo strette per un cambiamento su larga scala, l’hackeraggio momentaneo e l’intercettazione parassitica dei flussi di denaro possono diventare tattiche di guerriglia tutto sommato valide.

Fotogramma dal videoclip ‘Cara Italia’ di Ghali, 2018.

E’ allora rilevante osservare come la celebrazione del successo si colori spesso e volentieri delle tinte del fantasy. Affollati di animali tropicali e ambientazioni esotiche, i videoclip più maturi rendono manifesto il potere dell’immagine di operare a livello di costruzione della realtà più che della sua rappresentazione. Lungi dall’influire sul reale in termini di diminuzione, il filtro di Instagram sfida i limiti della realtà stessa. Allo stesso modo, i suoni abbandonano la stratificazione semantica del campionamento e la corporea solidità dell’hardware analogico per volgere interamente al suono di sintesi computer-based. Nella ricerca di un’intonazione perfetta, le voci sottoposte ad autotune finiscono per assomigliarsi tutte. Ma, dopotutto, ciò che accade fuori dall’inquadratura a chi interessa davvero?

La mia Faccia sopra un Magazine

La Dark Polo Gang è probabilmente la formazione che più di ogni altra ha saputo cogliere e sfruttare questa sorta di bug nel sistema. I primi milioni di views collezionati erano dovuti più all’ilarità generale che ne accompagnava le spacconate che a un vero apprezzamento. Un paio di anni più tardi, la DPG è una realtà indipendente dal fatturato notevole e la protagonista di una docu-fiction dedicata su Netflix, mentre il suo slang viene registrato dalla Treccani. In altre parole, accoppiate al giusto filtro e debitamente ripetute, le spacconate hanno piegato la realtà a propria immagine e somiglianza. “Ci siamo creati un nostro film, una nostra serie televisiva, e adesso ci stiamo dentro.”

Fotogramma dal videoclip di Magazine della DPG. 2017.

Parallelamente, dagli esordi a tinte decisamente cupe, i brani (e soprattutto le immagini che li accompagnano) si sono progressivamente colorati di rosa. Intanto, una crescente dose di autoironia rendeva  esplicito il meccanismo alla base del loro successo, proprio nel momento in cui questo trasbordava dal set alla vita vera. Nel clip di Caramelle, per molti versi insuperato, i soldi sono foglietti colorati e si fa festa con bibite gassate; le droghe diventano, come da titolo, poco più che zuccherini, e la band si atteggia a suonare strumenti che nel beat non compaiono neanche campionati. Allo stesso modo, i quattro trapper romani (adesso diventati tre) riescono a tenere insieme il più sgradevole linguaggio sessista con una estetica post-romantica tutt’altro che eteronormata, fatta di occhiali da donna e pellicce colorate, bacini e cuoricini (anche questi definitivamente sdoganati da Instagram), e capace di far arrossire i rapper – quelli sì, decisamente maschi – della vecchia generazione. Il risultato è che le ragazzine li amano, e i ragazzini risparmiano sulla paghetta per comprarsi una pochette di pelo firmata. E’ lecito a questo punto domandarsi come faccia questa architettura traballante a stare in piedi con tanta solidità.

Instragram Story di Sfera Eebbasta ripresa dal canale Youtube ‘Trap News’.

E’ tutta una questione di attitudine, spiega ancora Dark Wayne con innegabile lucidità: “La vita non è quello che fai, come lo fai, se lo fai bene… La vita è energia. Bisogna credere al karma.” Ma di che natura è allora questa energia, e a quale logica risponde il karma che la accompagna? L’energia che sostiene la trap è in buona parte il flusso di bytes che viaggiano incessantemente da un cellulare all’altro attraverso le stories, le dirette e i selfies. Subito riprese da altri account, canali youtube dedicati e siti di clickbaiting, questi producono una sorta di rumore di fondo crescente; un feedback loop di dati che si può tradurre infine, in un punto qualsiasi della catena, in rapida monetizzazione. E’ qui, e non altrove, che un’attitudine positiva stimola una risposta positiva del pubblico, in una sorta di social-karma anch’esso digitalizzato. Come una festa noiosa dove suona un gruppo indie di trentenni depressi, la realtà è ormai una faccenda di scarso interesse. Ma se la festa non piace si può sempre scappare dalla finestra per poi farvi ritorno dal portone principale, carichi di erba e sciroppo per la tosse, pronti a ribaltare il party. A festa finita (e sbornia trascorsa), se quel che rimane in tasca siano le briciole concesse dal capitalismo di piattaforma o il frutto di una strategia politicamente spregiudicata per riappropriarsi del maltolto, resta una questione tutta da verificare. Ma, per come stanno le cose, vale forse la pena di aspettare la prossima story.

Cronaca di una notte insonne: media sociali, estrattivismo dei dati e ecologia politica intersezionale

Nessun dorme! Sintomi (forse diffusi) di intossicazione da social

L’altra sera faticavo a prendere sonno e come succede quando si fatica a prendere sonno, pensavo. O forse faticavo a prendere sonno perché pensavo. Una delle due. Comunque pensavo a se era possibile che grazie al wi-fi e ai cellulari, l’etere intorno a me potesse trasmettere non solo onde elettromagnetiche ad alta frequenza, ma anche tutte la tossicità, tutte le discussioni rabbiose, tutti gli affetti tristi che i media sociali mettono in circolo incessantemente. Si sa ormai che l’aria, specialmente in città, è satura di queste onde e anche spegnere il wifi di casa, come a volte cerco di fare, non mi protegge sicuramente da quello degli altri e neanche dalle cellule della telefonia mobile. I cosiddetti media sociali poi, da Facebook e Twitter alle app da telefonino come Whatsapp, Telegram, Snapchat o Tinder e Grindr hanno intensificato questo traffico non solo a livello fisico ma anche a livello nervoso e affettivo.

I media sociali, una nuova classe di media che si è formata attorno alla metà degli anni 2000, sono chiamati così perché hanno introdotto un nuovo principio architettonico nella comunicazione digitale via Internet. La struttura a strati dei protocolli Internet ha sostenuto negli ultimi cinquantanni una varietà di applicazioni che hanno in qualche modo astratto e riconfigurato computazionalmente vecchie forme di comunicazione e media. Penso per esempio all’email, che appunto imita computazionalmente la posta (infatti in italiano è tradotta letteralmente come posta elettronica), dove però il messaggio viaggia da mittente a destinatario come nelle vecchie lettere, ma che a differenza delle vecchie lettere viene spacchettato in transito e arriva alla velocità della luce – introducendo tutto un nuovo modo di scrivere e comunicare (incluse le mailing lists, i messaggi multipli e lo spam) per non parlare degli usatissimi SMS e la messaggeria mobile. Mentre i protocolli TCP/IP che permettono ai computer di comunicare nella rete Internet usano la teoria dei grafi (l’ormai familiare diagramma costituito da nodi e links) per organizzare il movimento dei messaggi, e il protocollo http del web invece lo usa per organizzare una rete di documenti tra cui è l’utente a vagare come in una flanerie neurodigitale, i media sociali attraverso protocolli proprietari come l’Open Graph di Facebook, usa il ‘social network’ (rete o grafo sociale) per organizzare il flusso dei messaggi, dati e informazioni. Nella rete sociale sono i ‘profili individuali’ a diventare nodi della comunicazione e le connessioni che essi creano (aggiungendo amici, cliccando sui mi piace, condividendo oggetti digitali) dà forma al flusso comunicativo e alla rete tecnosociale stessa. Questo flusso socio-elettromagnetico ad altissima frequenza che può causare insonnia si duplica nel mio cervello in questi giorni con tutti gli echi delle opinioni e delle idee che ho sentito ultimamente e chi mi hanno fatto rabbrividire, dei razzismi, dei sessismi, dell’omofobia e della misoginia che riverberano, convergono e si fanno onda.

Kill All Normies! O: tutta colpa dei gay e delle femministe?

Mentre mi preparo una bella tisana di camomilla e alloro come la faceva la mia nonna materna Maria, mi ritrovo a Angela Nagle, una scrittrice irlandese che ha scritto Kill All Normies! un libro un po’ approssimativo sui vari movimenti online di destra nordamericani e al modo in cui è stata ripresa dal mio amico e compagno Bifo in un suo post in cui l’ha arruolata tra le evidenze del suo a tratti molto oscuro macluhanesimo. Nagle punta il dito sui movimenti femministi e LGBTQ online, attivi specialmente su Tumblr, accusandoli di produrre ‘femminismi puritani’ e ‘vittimismi gay’ e di avere letteralmente provocato l’ascesa della alt-right. Bifo unisce alla diagnosi abbastanza sospetta di Nagle, la sua tesi sulla devastazione psichica causata dall’iperstimolazione del sistema nervoso a sua volta causata dal semiocapitalismo. Il cortocircuito tra queste due tesi, confesso, mi sembra abbastanza pericoloso.

Ma davvero vorrei fermare questa ondata di ragionamenti solitari ma anche affollati. E’ l’ondata infonervosa che mi sta distruggendo il cervello e rovinando il sonno? Questo mio cervello con cui mi guadagno da vivere si sta facendo colonizzare da memi parassiti che stanno riducendo la mia capacità cognitiva? Finirò disoccupata se non ‘cancello Facebook’ come mi invita a fare un altro amico, Geert Lovink? Ma come faranno, come mi diceva ieri sera un’altra nuova amica e collega, la mediologa arabista Donatella Della Ratta, i libanesi e gli egiziani, i tunisini e gli algerini, i marocchini e i palestinesi per cui come mi racconta Facebook è diventato un medium di comunicazione fondamentale? Dobbiamo seguire lo Zeitgeist nazionalsocialista e necropolitico, metterci in salvo noi e lasciare loro ad affondare sulla barca social? Non è appena uscito su un numero speciale della rivista dell’associazione della sociologia italiana un articolo scritto a quattro mani con Stamatia Portanova sulla questione delle patologie cognitive delle nuove generazioni in cui cerchiamo di problematizzare questo comportamentalismo di ritorno, questa idea del corpo umano come terminale nervoso provvisto di uno scarso capitale di attenzione e soggetto alla colonizzazione infosemiotica? Non ci siamo confrontate con Roberta Pompili, di cui abbiamo ripreso un post sul fascismo molecolare su questo blog,  sul modo in cui è piuttosto la scuola che non riesce a seguire e investire in nuovi metodi che liberino le nuove intelligenze che pur vediamo si stanno formando con grandi potenzialità nel paradigma dell’interconnessione? È la rete o la scuola che sta fallendo le nuove forme di intelligenza che si sviluppano?

Una piacevole sensazione di rilassamento: pensieri sparsi sull’ecologia politica intersezionale

La camomilla e l’alloro stanno facendo effetto e finalmente mi comincio a rilassare e piacevolmente mi ritorna in testa la giornata sull’ecologia politica a cui ho partecipato sabato a Napoli con il suo eterogeneo e vitale assemblaggio di corpi e cervelli organizzato da Nicola Capone e istigato da Marco Armiero e Stefania Barca, intellettuali napoletani diasporizzati tra la Svezia e il Portogallo dove sviluppano le loro ricerche su questi temi. L’idea di una politicizzazione dell’ecologia, di un ripensamento della politica a partire da un pensiero ecologista planetarizzato di matrice intersezionale, marxista, postcoloniale, a transfemminista, mi è sembrato un’indicazione di metodo in grado di leggere meglio quello che sta succedendo e di aprire un minimo di orizzonte di futuro. Se l’ecologia politica include anche l’ecologia mentale (alla Gregory Bateson o Felix Guattari) diventa importante capire qual è la dimensione ecologica specifica di questo modello social. Anna Fava, filologa napoletana ed ecologista politica, mi manda due bellissimi articoli degli anni 40 di Leo Spitzer sulla filologia della parola ‘ambiente’ (politicizzata ci aveva già detto Laura Guidi dal femminismo in primis da Rachel Carson nel suo famoso Primavera silenziosa). Il termine ambiente, mi conferma, è sinonimo di medium già in Newton, ma la sua storia pre-politicizzazione ecofemminista va da Anassimene a Netwon e Taine (per il quale l’ambiente sociale produceve il ‘vizio e la virtù’ come il ‘vetriolo’ e lo ‘zucchero’) e oltre.

Penso a come il cosiddetto modello di ‘estrattivismo dei dati’, di cui pure si parla in un ricco e recente volume (Datacrazia) che il curatore Daniele Gambetta mi ha donato, mette in circolazione le forze ctoniche e territoriali dell’energia del petrolio consumato dai servers, ma anche tutti i giacimenti di senso comune depositati da una storia centenaria – e quanta tossicità c’è anche lì dentro! Diceva Antonio Gramsci, in una citazione molto usata da Stuart Hall, che la cultura è stratificazione della memoria storica – un vero e proprio giacimento di idee e opinioni, modi di vivere, di comportarsi e di vedere il mondo depositati dalla storia, un archivio sociale inconscio e diffuso di tutto quello che è stato detto e pensato. L’estrazione dei dati operata dai social attraverso lo strumento della rete sociale o grafo sociale è proprio su questi giacimenti. Nei termini che abbiamo ereditato dal materialismo storico, i media sociali costituiscono il motore di una messa al lavoro che è anche una lavorazione, valorizzazione e circolazione di questo archivio, aggiungendo ad esso tutto quello di nuovo che lo spirito ricombinante della ‘forza lavoro’ può aggiungere. – come Roberto Ciccarelli ci ricorda nel suo bel libro di quest’anno. Quindi è vero mette in circolo tossicità varie, ma include e permette anche possibilità di una riattivazione della memoria delle resistenze popolari come quelle tentate dal progetto Cubotto di cui pure Alessandra Cianelli ci parlato su questo blog (bellissime le immagini che Alessandro Gagliardo ha mostrato al mio corso dello sciopero delle donne di Paternò negli anni 80!). È questo archivio, in parte attuale, cosciente e indicizzato e in parte virtuale, inconscio e pieno di tracce mnemoniche, che i media sociali trasformano in giacimento e fonte di dati, valorizzandolo attraverso il commercio finanziarizzato di dati. Le due tossicità, quella dei giacimenti culturali e quella dei giacimenti di petrolio stanno provocando una catastrofica convergenza. Mentre conosciamo ormai gli effetti dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio, dobbiamo ancora fare i conti su come interi giacimenti di affetti, credenze e opinioni depositati da una storia violenta sono stati messi in circolazione, rivelando un terreno sociale malato da tempo, mai veramente bonificato dai postumi della biopolitica fascista e nazionalista dove gli altri devono morire perché ‘noi’ possiamo vivere. Il classico linguaggio della sinistra, e su questo Nagle può avere anche ragione, non fa presa su questo terreno, viene percepito come supponente, presuntuoso, moralista. Forse è come un rimedio che non funziona più, che è stato neutralizzato dalle mutazioni del patogene? Forse perché le tecniche che servono a bonificare un terreno sono diverse da quelle che hanno innestato la rivoluzione d’Ottobre, e più simili a quelle che servono a ‘liberare’ un luogo abbandonato e riempirlo di nuova vita sociale e non solo, nei lunghi anni in cui non è più tempo di scassare e non c’è un bisogno immediato di difendersi, là dove le comunità consolidano legami affettivi e si aprono, là dove i luoghi vengono riparati e ritornati alla vitalità di nuovi e imprevedibili usi?

Prendiamo sonno (sognando strane parentele…)

Invece che additare i femminismi come la matrice del puritanesimo che ha provocato l’ascesa dell’alt-right, sarebbe forse il caso di studiare e imparare dal pensiero femminista, postcoloniale e queer e dalla sua capacità di arricchire sia il materialismo storico che i contemporanei neomaterialismi. Nel suo ultimo volume, commentato su questo blog da Lidia Curti e Federica Timeto, Donna Haraway per esempio ci spiega come è necessario fare i conti con la catastrofe ambientale imminente che sarà anche, come nei più cupi romanzi di Octavia Butler, una catastrofe sociale e politica. Come ci suggerisce Donna Haraway, bisogna stare attente a due posizioni che stanno diventando dominanti: una ci dice che si troverà una soluzione tecnologica anche a questo (come Facebook quando ci dice che basterà sistemare gli algoritmi, e le bolle, le fake news e la guerra social scompariranno o come i commercianti della green economy); l’altra è quella che ci dice che è troppo tardi, che non si può fare più niente e che non vale la pena darsi da fare. ‘C’è una linea sottile tra il riconoscere la serietà del problema e cedere al futurismo astratto e i suoi affetti di disperazione sublime e la sua politica di sublime indifferenza’ ci dice Haraway. Rimanere col problema e nel problema è molto più vitale, e ci richiede, continua, di continuare a lavorare e giocare, tessendo nuovi legami e formando strane e improbabili parentele o s/famiglie. Come Foucault ci ha suggerito: la resistenza non può essere l’immagine rovesciata del potere, ma deve essere più intelligente e più inventiva di quest’ultimo. Come nello sforzo di bonifica delle terre avvelenate dal biocidio, come nello sforzo di riparare dei beni comuni abbandonati e costruirci dentro comunità vitali e aperte, bisogna pensare a lungo termine e insieme. Inventare nuovi modi di vivere e costruire legami, prenderci cura dell’umano e del non umano, pianificare e lasciarsi sorprendere dall’imprevisto, difendersi, ma anche giocare…

Finalmente, forse, grazie alla tisana di mia nonna Maria e ai pensieri istigati in me da tutte le emozionanti intelligenze che ho la fortuna di aver incontrato, senza Tavor e affini, comincio davvero a prendere sonno. I tempi sono oscuri ma anche lunghi, il riposo è difficile ma necessario e domani rimane sempre il tempo dell’apertura a nuove possibilità.

Un populismo di piattaforma? Sul Facebook Community Summit di Chicago

Il 22 e il 23 giugno di quest’anno, cioè qualche giorno fa, si è tenuto a Chicago il primo Facebook Community Summit – un evento che segue e sviluppa il documento ‘Building Global Community’ pubblicato sulla timeline di Mark Zuckerberg a febbraio di quest’anno e commentato in questo blog. Continuo a seguire le evoluzioni di Facebook mentre lotto con la scrittura del mio nuovo libro, Hypersocial, specialmente la parte dedicata a una genealogia dei modelli del sociale incorporati nella piattaforma – e il loro rapporto con il modo di produzione organizzato dal mercato e quello concepibile a partire dai principi del comune e della cooperazione sociale. La questione del capitalismo di piattaforma (a cui sono dedicati due bei volumi in italiano appena usciti, uno di Benedetto Vecchi e uno collettivo sul Platform capitalism e i confini del lavoro a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, e Maurizio Teli) implica la sperimentazione di un nuovo modello di convergenza di governamentalità e valorizzazione economica (la messa a profitto). La mia ricerca, cioè, mi sta portando a considerare il problema dei modelli e delle tecnologie del sociale mobilitati dal capitalismo di piattaforma sia in termini di cattura del valore e della ricchezza prodotti in comune sia come modelli di governo tecnosociale che aspirano secondo me a generalizzarsi. Mi interessa come la spazializzazione del sociale che lo strutturalismo dinamico di una branca delle scienze sociali, la social network analysis, incorpora nel capitale fisso mobilizzato da una piattaforma come Facebook, ma forse da tutti i social media, costituisce il terreno su cui pensare le risposte politiche e organizzative a questa nuova situazione.

Dopo aver annunciato nella lettera ‘Building Global Community’ che Facebook avrebbe posto al centro della sua strategia di product development le comunità, cioè i gruppi, l’azienda americana convoca dunque un ‘summit’ a Chicago, invitando una selezione di quella che definisce i ‘top group admins’ per annunciare nientedimeno che il cambiamento della sua mission: la sua missione non sarà più semplicemente di rendere il mondo più aperto e connesso, ma di renderlo più ‘vicino’ attraverso gli strumenti che permettono a gruppi di formarsi ed espandersi sulla sua piattaforma. Si tratta di una mutazione interessante rispetto al modello di ‘reti personali amicali’ (amici, parenti, colleghi e conoscenze) che è stato fino ad adesso il focus del popolare sito di social networking.

A differenza delle prime conventions organizzate da Facebook (denominate F8), è interessante notare innanzitutto come la comunicazione di FB si sia spostata direttamente sul terreno della piattaforma: una lettera pubblicata sul profilo di Zuckerberg a febbraio e adesso una trasmissione live trasmessa sulla piattaforma stessa (e ripresa immediatamente da molti canali youtube). Sintetizzando il contenuto del video pubblicato sul Summit, Facebook sostiene che i gruppi costituiscono l’area della piattaforma dove si sta verificando una crescita che va al di là delle (necessariamente e tecnicamente limitate) reti di contatti personali; annuncia che ci sono 100 milioni di utenti attivi sui gruppi e che intende operare per dare ai gruppi migliori strumenti e quindi espanderli; infine sostiene che il declino dell’appartenenza a comunità tradizionali può essere bilanciato dalla creazione di comunità digitali, che divide tra ‘comunità casuali’ (non particolarmente importanti, come il gruppo dedicato da Zuckerberg al suo cane) e ‘comunità significative’, cioè gruppi che funzionano come infrastruttura sociale fondamentale, fonte di identità e riconoscimento, per chi li frequenta (per esempio quelle per giovani genitori o genitory gay).

Guardando il video, mi sembra che Facebook confermi la sua tendenza a costituirsi come uno spazio digitale che funziona in qualche modo come un nomos, cioè uno spazio su cui esercita un qualche tipo di sovranità. Il modello di sovranità che Facebook si trova ad incarnare si presenta come una sovrapposizione di modalità precedenti, ma in un una nuova configurazione. Riprendendo la classica distinzione introdotta da Michel Foucault tra sovranità, disciplina e biopolitica ci troviamo davanti a un modello di sovranità basato sulla proprietà privata (nella misura in cui servers e software sono proprietà  di Facebook, che può espellere chi vuole o modificarla a suo piacimento), su cui è basato un ordine disciplinare (il libro delle ‘facce’ si basa sull’identificazione o il nome personale, perché come ebbe a dire Zuckerberg in passato quando si è identificabili, ci si comporta meglio), ma anche e in maniera interessante il governo di una popolazione (i due miliardi di profili attivi) che genera una enorme quantità di traffico, contenuti e dati per la piattaforma, ma che è costituzionalmente sempre sul punto di ‘s/fuggire’ . Come sostiene Wendy Chun, i media digitali sono ‘media abituali’, costruiti sull’abitudine non solo come ripetizione, ma come continua crisi o shock: i social sono una abitudine che però ha bisogno di essere continuamente rotta e variata (ci dev’essere sempre qualcosa di nuovo). E’ questa combinazione di abitudine e rottura continua dell’abitudine che apre la possibilità dell’intrinseco nomadismo degli utenti – sempre sul punto potenzialmente di sfuggire alla piattaforma (per esempio nel modo in cui gli under-25 sono fuggiti da Facebook verso Whatsapp o  Instagram costringendo Facebook a riacchiapparli comprando anche queste piattaforme). Questa popolazione è sì inevitabilmente radicata nella materialità biologica dei processi della specie (si riproduce, vive, muore), ma si presenta al sovrano dei social soprattutto come insieme di identità algoritmiche, struttura dinamica di relazioni (inter-relazionalità) e flussi di condivisioni soggetti alla temporalità dell’evento (il feed). Questa struttura dinamica è il tessuto o medium o ambiente che sostiene la circolazione di quella che non possiamo più genericamente chiamare informazione. Cosa viene condiviso nei social si presenta da un lato come elementi definiti (nel senso che è possibile identificarli attraverso un numero), ma anche forze fluide e differenziate. Da un lato foto, articoli, pagine, grafici, citazioni, commenti, post, mi piace, condivisioni, luoghi, aziende, somme di denaro etc, dall’altro e contemporaneamente flussi di opinioni, idee, credenze, desideri, avversioni, affetti, attitudini, preferenze emozioni e azioni espressi con forza variabile (in modo più o meno intenso). Questa enorme circolazione di flussi di soggettivazione a cui corrispondono delle quantità sociali che chiamiamo ‘dati’ ha ormai spiazzato completamente il vecchio modello basato sul broadcasting.

Conta dunque che Facebook, che a molti è sembrato la realizzazione del vecchio motto thatcheriano ‘non esiste la società ma solo gli individui e le loro famiglie’ (a cui aggiungere adesso i loro amici), dica di volersi concentrare sulla costruzione di una ‘comunità globale’ e che i gruppi sono lo strumento più adatto allo scopo. Voglio tenere questo blog post breve, e quindi mi limito a elencare qui alcune considerazioni su questa nuova tendenza di Facebook. Devo dire che ascoltando Zuckerberg e anche dopo la lettura della lettera, ho sentito come una svolta ‘populista’ – anche se cosa significhi questo controverso termine è tutto da definire. Non ho approfondito questa intuizione ma mi ha colpito come nell’analisi del populismo delineata da Toni Negri nel suo recente intervento  al seminario sui populismi di Euronomade, Negri sostenga che il populismo implica sia l’omogeneità del ‘popolo’ che la figura di un leader – e il summit è organizzato come incontro e presa di parola dei vari leaders selezionati da Facebook che parlano a nome dei più o meno piccoli ‘popoli’ iscritti ai gruppi. Qui però è anche dove il populismo di piattaforma differisce dal populismo novecentesco identificato da Negri e si avvicina a quello più recente (pensiamo alla centralità del blog di Grillo nel movimento 5 stelle). Il leader infatti è definito secondo il modello dell’amministratore della pagina (che a sua volta deve molto a forme precedenti di virtual communities e in particolare al lavoro volontario degli amministratori delle piattaforme di giochi online). Per Zuckerberg, i gruppi vivono perché ci sono dei leaders/amministratori, il cui lavoro affettivo, relazionale, ma anche tecnico nella gestione di gruppi che possono anche sfiorare il milione di iscritti, è ritenuto responsabile della esistenza e persistenza e vitalità del gruppo. Il grande popolo globale di Facebook che si presenta nella forma di reti personali non è sufficiente di per se per costituire quella nuova grande global community, che è il sogno di ricostituire la società (post)civile all’interno del governo della piattaforma.

I nuovi poteri accordati ai leaders pure mi sembrano significativi: il potere dell’insight (una forma di intuizione) letteralmente assicurato dall’accesso a dati statistici sul gruppo (genere, età, etc, cioè le varie forme di identità algoritmica ben descritte da John Cheney-Lippold nel suo recente We Are Data) che permette di selezionare i membri da accettare; dati sulle abitudini dei membri del gruppo (a che ora postano o commentano di più); la capacità di filtrare le richieste di iscrizione, oltre che espellere e cancellare le tracce della presenza nel gruppo di soggetti molesti o non voluti; infine la promessa di permettere ai gruppi di connettersi gli uni agli altri. Mi sembra, almeno per quello che vedo, che si tratti qui di un iperpopulismo di piattaforma, che non potendosi più appoggiare alla patria o nazione, si costituisce quasi esclusivamente su due cardini: il situarsi in uno spazio ‘globale’ (quello della piattaforma che si presenta come post-nazionale) e il suo invocare l’amministratore o leader come figura pastorale in grado di tecno-governare il gruppo. Non si parla della possibilità di una condivisione della posizione di amministratore e in generale si va nella direzione opposta di quello dei grandi movimenti di piazza dei primi anni 2010, come Tahrir o Gezi e Occupy, che invece come descrive bene Zeynep Tufekci nel suo Twitter and Teargas, insistevano molto sulla mancanza di leader (anche se in maniera problematica). Tuttavia la questione del ‘leader’ nella rete e nei movimenti di reti è davvero complessa e non può essere liquidata velocemente.

Il secondo elemento che mi ha colpito è stata la selezione dei leaders e dei modelli di gruppo presenti al summit, almeno nel live feed. Quello che colpisce è che nonostante il richiamo al globale, gruppi e leader siano tutti americani, ma selezionati in qualche modo per rappresentare quello che una volta si sarebbe chiamato il ‘sociale’: c’è l’amministratore di un gruppo che ricorda la morte di una donna in un incidente causato da un guidatore ubriaco che riunisce membri che si sentono colpiti (affettati) da questo evento; l’amministratore afroamericano di un gruppo per padri neri che è anche un insegnante di scuola materna; la donna nigeriana che ha aperto e gestisce un enorme gruppo segreto di donne per parlare di temi che le riguardano; ma anche il birdwatcher e il fabbro che si rivolgono a comunità di individui con lavori o hobbies simili.. E’ interessante anche se scontato che non sia stato invitato (o forse sì ma non sono andati che sarebbe anche comprensibile) nessun leader di Black Lives Matter o del movimento Occupy o di gruppi di protesta, ma che la razza sia rappresentata dalla community leader nigeriana che abita a Chicago che ha fondato un gruppo di donne contro la violenza di genere, ma una violenza che è presentata come tra donne non bianche (le madri nigeriane che danno i pizzicotti alle figlie quando parlano troppo). Mi sembra come se questo passo di Facebook sia volto ad una ennesima traduzione tecnica (o transcodifica) del sociale volta ad accrescere la circolazione, ma anche a moltiplicare le possibilità di appartenenza in modi che tengono insieme valorizzazione economica e governo dei flussi generati da una popolazione socialmente interconnessa.

Per una di quelle coincidenze che alla fine segnano i processi di scrittura, mi ritrovo contemporeamente a leggere per la prima volta un testo del 2007 della teorica brasiliana Denise Ferreira de Silva , che si intitola Toward a Global Idea of Race. Mi attrae il testo di Da Silva per la sua insistenza sulla critica della ragione (e la sua costituzione di un soggetto trasparente, cioè che si auto-determina e si auto-regola) e per il suo uso del termine analitica della razza. Da Silva, per quello che riesco a capire, propone un concetto di globale come spazio formato dall’analitica della razza e dal soggetto trasparente, in modi che davvero risuonano per me anche con i modelli della social network analysis. La sua idea che la logica delle race relations è una logica di obliterazione del razziale, ma in senso assimilazionista, mi sembra molto rilevante al modo in cui Facebook invoca la razza solo a patto di dissolverla nell’universale. Sostituendo ai grafi dei social networks, che erano al centro delle prime presentazioni della piattaforma,  una classica mappa bidimensionale del pianeta connesso, Facebook propone una propria versione di governamentalità globale che quindi riattualizza anche l’analitica della razza.

È molto facile seguendo questo ragionamento concludere che si tratta semplicemente di abbandonare Facebook, per impedire a questa sua nuova forma di sovranità tecnologica iper-populista di produrre una nuova pacificazione e obliterazione del conflitto e delle differenze. E pur tuttavia, questa non mi sembra una soluzione. Mi sembra che il fenomeno di una piattaforma tecnosociale usata da due miliardi di abitanti ponga il problema della proprietà (del capitale fisso) e del governo (della relazione tra governanti e governati) anche dal punto di vista di un modo di produzione basato nel comune (concepito come insieme di singolarità inter-relazionali e inter-sezionali) e quindi dal punto di vista del conflitto con le sue forme di appropriazione. Il nomadismo degli utenti è catturato, anche se in modo non definitivo, dagli effetti di rete (più persone usano una piattaforma, più utile diventa), che tipicamente almeno per un medio periodo di tempo producono un lock in (siamo legati a queste reti e servizi).

Il blog su cui scrivo, dopo aver cercato di organizzarsi attraverso mailing list e piattaforme come Slack, si è spostato come gruppo segreto su Facebook – innervandosi in questo modo nella comunicazione sociale quotidiana, e escludendo chi non si trova sulla piattaforma. Il gruppo ‘funziona’ meglio delle mailing list e altri formati, ma il gruppo esclude chi ha scelto di non stare su Facebook, e soprattutto il gruppo della TRU non è ‘nostro’, nella misura in cui tutto quello che scriviamo appartiene a FB e FB governa questo spazio con le sue regole e le sue politiche. Eppure non possiamo farne a meno. Se i social media sono diventate delle utilities, cioè infrastrutture della vita sociale di miliardi, è possibile postulare che sia posto non solo il problema dell’alternative, ma anche quello dell’appropriazione, dell’espropriazione e di nuove forme di proprietà?