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ll viaggio interstellare di Lidia Curti

Con questo post, la TRU rende omaggio e riconosce l’importanza fondamentale del pensiero, della pratica e dell’esempio di Lidia Curti per la sua formazione e sviluppo. Nella costellazione che compone la TRU, Lidia è stata e continua ad essere una singolare e straordinaria energia,  forza motrice che ci ha attirato nella sua orbita sganciandoci da modi di pensare obsoleti e limitanti, per proiettarci in nuovi universi esistenziali fatti di scritture, immagini e immaginari femministi, antirazzisti, afrofemministi, postcoloniali, e recentemente anche verdi.  A lei la TRU deve uno dei suoi principali filoni di ricerca, quello sui femminismi futuri.

Riproduciamo qui sotto  un estratto del suo saggio “Il viaggio interstellare: pensiero verde e afrofemminismo tra sogno e visione” raccolto nel volume da lei curato recentemente insieme a Marina Vitale e Antonia Anna Ferrante Femminismi Futuri: Teorie, Poetiche, Fabulazioni, Roma Jacobelli, 2019

La ricordiamo qui immaginandocela immersa  in un appassionante viaggio interstellare alla ricerca di quel “nuovo femminismo” che nei suoi ultimi scritti immaginava come “non solo bianco e occidentale”, capace di superare  “frontiere temporali e spaziali, continenti terreni e astrali, e aree diverse del sapere.”

Immagine di copertina Wangechi Mutu Chocolate Nguva (2015)

Il viaggio interstellare: pensiero verde e afrofemminismo tra sogno e visione (di Lidia Curti)

 

 

Si deve fermare il tempo per ascoltare una storia. La narratrice la comincia daccapo.

La comincia nel suo luogo, nel suo momento, dal suo punto di vista.

Finché la ascolti, le affidi il tuo destino. Tu e lei condividete tutto, perfino la tua esistenza. Ascolta. . .

(Nnedi Okorafor)

 

Il presente rimane fratturato e rifratto nel ricordo e nell’anticipazione,

i mormorii del passato e il potenziale del futuro. […]

le lotte femministe, queer, antirazziste e postcoloniali implicano

la messa in questione di categorie identità e strategie precedenti,

sfidando i limiti del presente, e traendo forza dall’imprevedibilità del futuro […]

Solo se il presente appare fratturato, spaccato dagli interventi del passato e la promessa del futuro,

il nuovo può essere inventato, accolto affermato.

(Elisabeth Grosz)

Convivenza tentacolare

Femminismi Futuri: Teorie Poetiche, Fabulazioni (Jacobelli 2019)

La consapevolezza della progressiva devastazione del pianeta è pressante nell’oggi e connota i saperi su molti versanti. Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene (2016) di Donna Haraway è tra le voci di una ecologia che mette sotto accusa il dominio dell’uomo su questo pianeta e la parte attiva che capitalis

mo e imperialismo hanno avuto nella sua devastazione. L’autrice propone una nuova possibile socialità tra organismi inter- e intra-specie che travalicano tempo e spazio, realtà e arte, genere e sesso, tecnologia e immaginazione, con una svolta ecologica rispetto al suo A Manifesto for Cyborgs (1985), testo influente del cyber-femminismo.

L’opera tratta della resistenza dei mortali, esseri di ogni specie, microbi, piante, animali, umani e non umani, «muniti di tentacoli, antenne, dita, chele, code, gambe e zampe, peli scomposti» (Haraway 2016, p. 169, mia trad.). Il titolo si può tradurre con convivere, resistere, lottare nel disagio o tra le rovine, e si ispira a Arts of Living on a Damaged Planet (Arti di vivere su un pianeta danneggiato) di Anna Tsing, voce influente di una svolta antropologica che propone un nuovo ecologismo. “Making Kin”, seconda parte del titolo, si riferisce al creare comunità, legami, connessioni inventive, parentele, con una parola assemblante che parla di solidarietà al di là del futurismo riproduttivo.

Al presente di antropocene, capitalocene e piantagiocene, Haraway contrappone chthulucene – nome di un altro luogo e di un tempo che era, ancora è, e ancora potrebbe essere – che prevede poteri e processi terreni inclusi quelli umani, e oltre. Chtulucene è l’epoca del ragno, per il riferimento al Pimoa Chtulu, un aracnide californiano; la ragnatela si rapporta, nel mondo vegetale, a radici, piante filiformi, semi, rampicanti, ma anche a fili e stringhe, ragnatele di sentieri e causalità mai deterministiche, nodi che si sciolgono per crearne altri.

I semi diventeranno metafora e struttura di molta arte visuale e della narrativa fantascientifica e fantasy che si intreccia a queste tematiche. Sono simboli di mutazione e cambiamento nelle parabole di Octavia Butler o nel seminare di mondi in Ursula Le Guin, oltre che elemento portante dell’arte e dell’attivismo ecologico dell’artista brasiliana Maria Thereza Alves… L’esistenza di un seme può precedere di milioni di anni quella umana permettendo la lettura del passato e, allo stesso tempo, contenere in sé un futuro che è impossibile prevedere.

Con Haraway, da ragnatela si passa a tentacolo con gli invertebrati: polpi, calamari, totani, e meduse, in una “endosimbiosi” che si ispira a Lynn Margulis, la biologa evoluzionista radicale con la sua ricerca sulle specie compagne, sul vivere insieme tra specie, sulla “intimità degli stranieri”. La medusa merlettata da un lato suggerisce il corallo e la barriera corallina, simbiosi animale e vegetale, e dall’altro il femminile, con merletti e tessiture, “talismani e geroglifici” di altri mondi. Il tentacolo è immagine potente e ricorrente nel libro, con il suo movimento verso l’altro da sé, e le sue qualità multiformi, sottolineate dalla ricchezza semantica: tentare, toccare, sentire tra umano, macchina e natura, ma anche pensare. Il “pensiero tentacolare” disegna figure concatenate, come la fantascienza, che narra trame di mondi e tempi possibili, material-semiotici, passati, qui, ancora a venire. Come non pensare alle entità interspaziali, nuova e futura specie, immaginate dalla scrittrice nera americana Octavia Butler nella trilogia di Xenogenesis (1987-89)?

Gli Oankali e gli Ooloy, esseri coperti di tentacoli, superano le frontiere del sentire e del fare, di genere o stirpe e di generi sessuali. A favore di una maternità collettiva, non esclusivamente femminile o umana, propongono il transito, un ponte tra le differenze, in accostamenti e assemblaggi riproduttivi inusitati; attraverso i tentacoli sentono, tastano, comunicano, godono, procreano e danno forma al mondo circostante. …La contaminazione tra maschile e femminile, umani e alieni, è desiderio e legge per questi esseri che hanno bisogno dell’umano, necessario alla creazione simbiogenetica.

L’emergere di una letteratura che precede il pensiero scientifico e filosofico si ritrova in Ursula Le Guin accanto a Butler, ambedue autrici di fantascienza speculativa, favole per pensare, per capire, in cui fantastico e immaginario non sono separati dal pensiero. «La verità è materia dell’immaginazione […] I fatti non sono più solidi, coerenti, rotondi, e reali, di quanto non siano le perle», dice in The Left Hand of Darkness (1969)…Nel racconto di Le Guin, Vaster than Empires and More Slow (1971), 4470 è la meta di Gum, la navicella spaziale che viaggia alla quasi-velocità della luce in un tempo azzerato, uno senza inizio o fine..

Un cerchio di paura è oggetto di questo racconto, la paura che la foresta [che copre interamente 4470] esprime echeggiando e moltiplicando i sentimenti di odio e antagonismo degli esseri umani che la attraversano e vi camminano per la prima volta. Nel mondo odierno, questa lunga novella appare come monito e anticipazione agghiacciante; è così che la paura dell’altro, su cui gioca gran parte del potere politico sul nostro pianeta, si ingigantisce e travolge gli umani.

..

La paura, che era sembrata una minaccia esterna, forse un gigantesco mostro vegetale o un animale selvaggio, ormai è in loro: «Noi siamo l’altro. Non c’è mai stato nessun altro» (p. 220). Quando se ne rendono conto è troppo tardi per l’amore, quell’amore più vasto di qualunque impero e più lento. Spostarsi altrove sul pianeta, lontano dagli alberi, non servirà…

La paura è cessata, la foresta ora li accoglie silenziosa e immota nei suoi meandri…Il viaggio di esplorazione si compie e Gum lascia World 4470 per continuare la sua missione altrove. Al ritorno, dopo centinaia d’anni del tempo terrestre, agli uomini che increduli li accolgono fanno rapporto e dichiarano le perdite: «Biologo Harfex, morto di paura; Sensore Osden, lasciato come colono» (p. 224).

 

Piante e impero

L’opulenza dell’Europa…è stata nutrita con il sangue degli schiavi

e viene direttamente dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. (Franz Fanon)

 

La tassonomia botanica può essere intesa come base per l’economia […]

la conoscenza esatta della natura era la chiave

per ammassare ricchezza nazionale e quindi potere.

I botanici erano agenti dell’impero, i sistemi di nomenclatura e

tassonomia strumenti dell’impero.

(Londa Schielebinger)

Il legame tra ecologia e imperialismo è stretto. Un’ecologia postcoloniale non può ignorare che il consumo del suolo, lo sfruttamento e la devastazione della terra pesa soprattutto sui poveri, i dannati, i colonizzati. Il riferimento a chi cerca rifugio, la/il migrante di oggi, emerge nella visione ecologica di Haraway: «Nell’antropocene si distruggono luoghi e tempi di rifugio per gente e altri […] Proprio ora, la Terra è piena di profughi, umani e non, senza rifugio» (2016, p. 100, mia trad.). La crescente chiusura all’accoglienza di coloro che cercano rifugio, la paura della diversità sono inevitabili in un mondo immiserito dominato da un ideale di profitto e dominio sulla scia dei colonialismi ancora esistenti.

In The Wretched Earth (La terra dannata), titolo dedicato all’opera di Frantz Fanon, Ros Gray e Shela Sheikh (2018) conducono una rassegna critica del rapporto tra resistenza alla distruzione della Terra e disuguaglianza sociale, ricordando che il consumo del suolo, lo sfruttamento della terra comporta sempre e dovunque il dominio sui corpi e sulle menti. Il sistema della piantagione è fondato sul mercato di individui privati della libertà; la schiavitù degli africani deportati diviene modello per successivi sviluppi economici e organizzativi del mondo occidentale. La minaccia alla vivibilità del pianeta è insita nelle pratiche delle piantagioni, con lo sterminio delle piante locali per creare il vuoto in cui esportare piante esterne all’ambiente per poi inserirle in un meccanismo di replica, come afferma Anna Tsing (cfr. 2015).

La guerra contro l’ambiente, la Terra (con)dannata, l’appropriazione del suolo è offesa a una infrastruttura della vita e si esprime attraverso le pratiche gerarchiche e astratte delle classificazioni scientifiche che non sono troppo lontane da quelle razziali (lo stesso Linneo affiancò una tassonomia razziale a quella botanica). La fondazione della botanica come disciplina scientifica è dapprima conseguenza dei viaggi di esplorazione europea e poi consolidamento del sistema della piantagione e del razzismo coloniale.

Sylvia Wynter, nella sua definizione di un nuovo umanesimo planetario, mette l’accento sulla distribuzione ineguale delle risorse del pianeta come parte essenziale delle lotte contro la “colonialità del potere”. In tutta la sua opera, Wynter ripercorre l’intero pensiero bianco occidentale per affermare la necessità di una necessaria riscrittura del sapere come lo conosciamo, alla ricerca di una definizione completamente nuova di ciò che significa essere umano.

 

Seminare mondi e sogni

Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane,

da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo,

da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte forme naturali?

(Giordano Bruno)

 

Tutto quello che tocchi Lo cambi. Tutto quello che cambi

Ti cambia. La sola verità esistente È cambiamento. Dio è cambiamento …

Seme a albero, albero a foresta; Pioggia a fiume, fiume a mare; Miele a api, api a sciame.

Da uno, molti; Da molti uno.

(Octavia Butler)

Parable of the Sower (Parabola del seminatore, 1993) di Octavia Butler assegna al mondo vegetale il compito della riproduzione che può salvare il pianeta. Sulla scia della parabola biblica, vi si narra di semi ma anche di parole; la sua protagonista Lauren Oya Olamina, giovane nera americana poco più che adolescente, fugge da uno scenario di devastazione e violenza dopo la distruzione della sua casa e l’uccisione dei suoi familiari. Insieme a persone di provenienza interetnica, che raccoglie nel suo vagare fino all’estremo nord della California, fonda la comunità di Earthseed che ha come ideale la migrazione verso pianeti lontani dagli stermini terrestri, ma pianta semi negli insediamenti pur temporanei lasciando una scia di speranza a presenze future attraverso il radicamento vegetale. I semi della vita possono essere trapiantati e germogliare anche nelle situazioni più difficili, così com’è avvenuto per gli schiavi africani sopravvissuti alla deportazione, all’esilio e all’abiezione dello sfruttamento.

Earthseed è guidata dalla fede in una divinità del cambiamento, che non è né uomo né donna e non è nemmeno una persona ma un’entità malleabile cui si può dare forma, che esiste per cambiare ed esser a sua volta cambiata … Focalizzare l’attenzione, rafforzare la determinazione, formare una collettività, abbracciare la diversità sono gli scopi della predicazione di Earthseed.

Lauren è affetta da iperempatia, in conseguenza del medicinale assunto dalla madre durante la gravidanza e suo unico lascito – non l’ha conosciuta perché morta alla sua nascita, di lei c’è solo una fotografia sbiadita. La sindrome porta Lauren a condividere i dolori altrui, anche dei suoi oppositori, tra cui la morte di coloro che nella lotta è costretta a uccidere – un messaggio contro ogni violenza e guerra. Al suo primo nome, ispirato a una pianta, è aggiunto quello della dea Oya, la Orisha della cultura yoruba nigeriana, figura tra la santeria brasiliana e la Vergine Maria del cattolicesimo. Come creatrice di mondi, ha il potere di comandare venti, tempeste e morte con i suoi nove tentacoli, in consonanza con i nove affluenti del fiume Niger – tra natura e cultura

Con il viaggio interstellare come utopia, Butler torna a un topos della fantascienza classica in un romanzo che è peraltro considerato parte importante della nuova narrativa nera ed espressione dell’estetica afrofuturista. Il muoversi tra passato, presente devastato e futuro utopico fa di Lauren e, ancor prima, di Lilith – ribelli in fuga dal presente, umane ma dotate di poteri sovrannaturali – perfette eroine dell’afrofuturismo femminista, di cui Butler viene considerata un’antesignana.

Il termine indica un’area concettuale all’intersezione tra culture afro-diasporiche, tecnologia e fantascienza, che pone l’estetica africana al centro della civiltà umana e si ispira a un’utopia di futuri alternativi possibili, in chiave antirazziale e femminista. In sintesi si potrebbe dire che il passato rimosso, negato rifiutato – il mondo degli schiavi e delle schiave tutte – arriva dal futuro per riscrivere il senso del presente disturbando il mondo in lontani nel tempo – vittime della stessa violenza – e con la scelta del nome Acorn, ghianda frutto della quercia da cui si fa il pane e si generano nuovi alberi e piante.

 

 

Un viaggio afrofemminista

Il vero salto, ha scritto Fanon, consiste nell’introdurre l’invenzione nell’esistenza.

(Sylvia Wynter)

 

Ciò che faccio in questo testo è attivare la forza dirompente dell’essere nero,

cioè la sua capacità di strappare il velo della trasparenza (sia pur brevemente)

per mostrare ciò che c’è al limite della giustizia…

Preso non come categoria ma come referente di un altro modo di esistere,

il nero è La Cosa ai limiti del pensiero moderno…

frattura le mura vitree dell’universalità, e della violenza ad essa inerente.

(Denise Ferreira da Silva)

 

Tra l’arcaico e il postmoderno, l’afrofuturismo si esprime, oltre che nell’immaginario letterario e artistico, nel rapporto con la cultura popolare – moda afro, musica, cinema, tv, video art e grafica. La presenza nella musica è dominante, da funk a techno, pop e rap: ruolo della musica nera è portare lo spirituale nel secolare, come osserva Sylvia Wynter che ravvisa nella voce di Aretha Franklin una dimensione di riscatto e liberazio-ne. La musica nera, lei osserva, non segue un percorso lineare, come il pensiero che fiorisce inaspettato.

Il motivo del riscatto attraverso la conoscenza del passato era già presente nella fantascienza femminile degli anni settanta tra cui Kindred (1979) della stessa Butler che anticipa il tema della schiavitù presente nei romanzi successivi – dominante tra le sue motivazioni. La sua protagonista Dana, giovane donna nera sposata a un bianco, dal 1976 torna indietro di 150 anni, dalla le abiezioni di quella condizione, Kindred anticipa Amatissima di Toni Morrison, cui spesso viene accostato. In ambedue c’è il racconto di una storia che si vuole, ma non si deve, dimenticare. Il ritorno alle origini indica che il passato non è veramente passato e va ricordato e riattraversato per vivere il presente e aprirsi al futuro; un motivo che riflette l’esperienza dell’autrice stessa, scrittrice nera nella società nordamericana di oggi, cui lei stessa fa frequenti riferimenti nelle interviste.

Più tardi Saidija Hartman, nel suo romanzo sulle vie della fuga dalla schiavitù, dirà di se stessa nel presente: «Anch’io vivo nel tempo della schiavitù, intendo nel futuro creato da essa». Ancora una volta la narrazione ricostruisce la memoria, la “ri-memoria” di cui parlava Morrison, guidando gli eventi della storia. È quello che avviene con le narrative italiane di donne africane o afro-discendenti che ricordano il passato del colonialismo italiano nel Corno d’Africa, una memoria dimenticata o misconosciuta che si riverbera nel presente delle morti nel Mediterraneo, eco dell’altro “passaggio” sull’Atlantico. …

Il tema della schiavitù e del riscatto nella cornice di un afrocentrismo ancora più accentuato è presente in molta della fantascienza recente. In The Book of Phoenix (2015) di Nnedi Okorafor il motivo del volo riconduce a Butler: le ali con cui Phoenix rinasce le permetteranno di volare da New York al Ghana, dove, sia pure per un tempo breve, ritroverà origine, lingua nativa e solidarietà, diventan- do Phoenix Okore (Fenice Aquila). Anche The Broken Earth Series (2016-18) di Norah K. Jemisin racconta una saga disperata su un pianeta distrutto, chiedendosi cosa si può salvare dell’umanità o se questa è al di là di ogni redenzione….

La pittrice e video artista keniana Wangechi Mutu ha molti punti di contatto con Butler e interpreta l’estetica afrofemminista nel contesto di una nuova ecologia, allontanandosi dalle limitazioni dell’ambientalismo tradizionale e offrendo visioni trasgressive centrate su soggettività nere femminili. Il suo “viaggio fantastico” (A Fantastic Journey, 2013) rappresenta mondi lontani, mutazioni identitarie e strane figurazioni che sfidano pregiudizi razziali, spaziali e di genere. In collages dai colori arditi che accostano ritagli di carta a dipinti e di- segni, Mutu descrive guerre, colonialismi e devastazioni ambientali e tecnologiche sullo sfondo di un’ecologia turbata, sfatando, come già Butler, l’idea che le donne nere non si occupino di ecologia.

Le inquietanti forme mutanti femminili, citazione ironica del modello femminile nell’arte tradizionale, sono frutto di assemblaggi, convivenze, commistioni che riportano alla natura africana, in una metamorfosi tra animale, vegetale e umano: donne coyote, donne albero, donne arbusto dai cui capelli si sprigiona forza e minaccia. La donna nera, che è la sua ossessione, diventa dragone, serpente, sirena, cyborg, o medusa dalla chioma tentacolare. Alla fine, come lei dichiara, il suo scopo politico è tenere al centro la memoria del femminile, continuando a parlare di donne e a rappresentarle. La sua arte porta il suo mondo di origine come presenza fantasmatica nei musei del mondo occidentale.

Il tema ecologico si fa pressante nel video The End of Eating Everything (2013), mutandosi in ammonimento e minaccia. La donna dai capelli medusei, il suo corpo ricoperto di piante, molluschi e insetti, rappresenta la terra e fluttua nel cielo in armonia con gli uccelli. Lentamente il suo bellissimo volto assume un ghigno mostruoso, la bocca vorace divora ogni forma di vita, il corpo subisce una metamorfosi simile e si ricopre di fumi e rifiuti industriali fino a polverizzarsi in letame e detriti che coinvolgono il creato.

In questa apocalisse il corpo femminile nero è, a un tempo, indice e sintomo della devastazione incombente ma anche rappresentazione di riscatto e resistenza. Come ha detto mirabilmente Hortense Spillers (1987), se la “donna nera” è una figurazione particolare del soggetto diviso della modernità, ne è anche la sua più profonda rivelazione.

 

Making planetary s-kin. Pensare con l’astrobiologia (ecologie planetarie e oltre)

 Nel contesto della crisi climatica e dell’Antropocene, la questione della ‘planetarietà’’ e’ riemersa impetuosamente. Originariamente utilizzata dalla teorica postcoloniale bengalese Gayatri Spivak nei primi anni 2000 come figurazione defamiliarizzata della Terra in contrapposizione allo spazio liscio della globalizzazione, la planetarietà’ e’ ritornata recentamente come parte dell’esplorazione di nuovi immaginari per vivere su ‘un pianeta infetto’ (prendo in prestito qui la traduzione del titolo di Donna Haraway).

E’ innegabile che la crisi ambientale sia una condizione planetaria, con effetti che tuttavia appaiono irregolari e differenziati e particolarmente visibili nel sud globale. Ma nel ripensare il legame umano con la Terra, quale concezione del pianeta stiamo mobilitando? E come incide la tecnologia su questo esercizio di costruzione di un futuro incerto? Tra le/gli studiose/i che hanno contribuito a ripensare il pianeta, troviamo il filosofo americano William Connolly, il quale ci ha proposto un nuovo umanesimo aggrovigliato (entangled) nel suo libro del 2017 (dal titolo inglese Facing the Planetary); il sociologo francese Bruno Latour, il quale in una recente mostra allo ZKM (visibile qui), ci ha invitato a impegnarci ad ‘atterrare sulla terra’ (landing on earth); e il teorico del design Benjamin Bratton, il quale in un recente manifesto (Terraforming, 2019) che sostiene l’importanza della tecnologia, dell’astrazione e dell’artificialita’, ha postulato la Terraformazione, una tecnica pensata originariamente per pianeti come Marte, come qualcosa che potrebbe essere applicata alla Terra.

In questi titoli e lavori, la questione della distribuzione ineguale delle conseguenze delle attività antropoceniche emerge sporadicamente, ma non e’ al centro del discorso. Se Spivak aveva usato planetarietà come alternativa alla pulsione omogeneizzante della globalizzazione, che leviga le differenze rendendole impercettibili, in questo post suggerisco che questo modo di intendere il ‘globale’ rischia di essere re-icritto nelle narrazioni della planetarità riemerse in relazione alla questione climatica. Il motivo di questa irruzione del ‘globo’ nel ‘pianeta’ ha a che fare con il fatto che la questione ambientale ha portato alla luce la relazione implicita della planetarietà con le scienze naturali, e anche con quelle spaziali.

L’aggettivo ‘planetario’ e’ uno degli elementi fondamentali delle scienze spaziali – quali per esempio l’astronomia, ma anche l’astrobiologia. In astrobiologia, per esempio, che poi è il campo interdisciplinare in cui mi trovo a fare ricerca, da studiosa umanista all’interno del gruppo interdisciplinare AstrobiologyOU, la questione etica e scientifica della protezione planetaria, ma anche quella legale e politica della governance degli spazi oltre i limiti del nostro pianeta, sono dominanti. L’astrobiologia, che si occupa di comprendere l’origine della vita nell’universo, e per estensione di come vivere con forme di vita altre, e’ uno dei punti del triangolo che disegno in questa conversazione che coinvolge gli studi sociali (come gli studi postcoloniali e i Science and Technology Studies) e filosofici sull’ecologia nella costruzione del pianeta.

Questa conversazione vuole mettere in luce le problematiche che si annidano nell’immaginare il pianeta come una sfera delimitata e coesa – un’immagine che richiama alla mente l’astronave terra (o ‘spaceship earth’). Se consideriamo che la teoria di Gaia di Lynn Margulis e James Lovelock deve alla NASA gran parte del suo supporto nei primi e tribolati anni della sua ideazione, appare chiaro che l’immagine della Terra come astronave e il pensiero ecologico della Scienza del Sistema Terra (Earth System Science o EES) sono legate a doppio filo.

In un’essenziale rilettura di Spivak nel contesto dell’utilizzo della teconologia per creare una mappatura del pianeta attraverso l’uso di sensori e della scienza amatoriale, Jennifer Gabrys dimostra che, attraverso il concetto di planetarietà, Spivak aveva operato un’apertura verso un tipo di ambientalismo capace di decentrare il soggetto umano.1 Gabrys mette in primo piano la dimensione locale ed effimera delle ecologie delle relazioni e performa una ‘critica del tipo di ambientalismo veicolato dalla scienza dei sistemi della Terra, colpevole di promuovere una prospettiva sul pianeta fittizia e totalitaria’, legata ad un universalismo di stampo coloniale.2 Questa critica investe l’idea di Gaia come singolo organismo, al contempo promossa da Lovelock e opposta da Margulis, e i discorsi ambientalisti che si fondano su una concezione della Terra come spazio unico e coeso.

Il lavoro di Gabrys interroga Concezioni della planetarità basate su punti di vista totalizzanti, poiché non rispondono alla critica di Spivak di quei punti di vista che astraggono gli/le agenti dalla materialità – e quindi dall’asimmetria – delle relazioni. Questi problemi sono comuni alle scienze spaziali, all’Earth System Science e al tecno-ottimismo applicato alla geo-ingegneria.3

Making Skin

Nel libro-manifesto Terraforming, Bratton rivendica apertamente l’astrazione del globale come parte integrante di un pensiero planetario. Bratton sostiene che è solo grazie alle tecnologie attive su scala globale, quali la computazione necessaria alla costruzione dei modelli climatici o la rilevazione di dati attraverso i satelliti, possiamo comprendere lo stato di ‘salute’ del pianeta. La tecnologia globale e’ necessaria non solo alla comprensione, ma anche alla sopravvivenza del pianeta. Questa tecnologia e’ astratta ma non non immateriale; e’ un’ecologia in se’: l’ecologia dell’automazione. Il problema che emerge pero’ e’ che in questo punto di vista decentrato, le asimmetrie dei rapporti di potere che influiscono sulla creazione di un sapere planetario, rischiano di restare celate.

Dato che la ricerca sullo spazio e l’astrobiologia sono fondamentalmente mediate dalle tecnologie e rese visibili attraverso un accumulo di dati, cosi’ come Lisa Messeri ha ben dimostrato in relazione alla visualizzazione degli esopianeti (in Placing Outer Space, 2016), suggerisco che i discorsi (astro)ambientalisti contemporanei non decostruiscono abbastanza l’astrazione della finitezza dei pianeti per permettere l’emergenza di altri modi di vivere con ecologie molteplici sulla terra, nella sua orbita e oltre.

Un esempio di questa macro-prospettiva e immaginazione sferica al lavoro e’ fornita dal progetto Planetary Skin (pelle del pianeta): una partnership tra NASA e CISCO lanciata nel 2009 e finalizzata alla creazione della più grande rete di sensori al mondo. L’immagine della pelle del pianeta suggerisce che la Terra viene continuamente ridefinita mentre viene accerchiata da dati trasmessi da una miriade di punti dati e sensori, mentre si rafforza l’idea che i dati contribuiscano alla costruzione di uno strato materiale esterno allo spazio che chiamiamo Terra.

Questa visione, se da una parte mette in evidenza che i confini esterni della Terra non vanno dati per scontati, continua a fare affidamento su un modello sferico che sottende alla conoscenza Europea, coloniale e rinascimentale dell’astronomia. L’astrobiologia però può mobilitare l’immagine della pelle-skin attraverso il lavoro di Lynn Margulis sulle micro-ecologie planetarie, che ci permettono di vedere il pianeta come un sistema aperto fatto di relazioni complesse. Un po’ come la pelle animale, popolata da diverse comunità batteriche che ne fanno un’ecologia in se’, la pelle del pianeta non va vista come protezione dell’individualità del pianeta Terra. E’ invece una figura della differenza che rappresenta la pluralità e l’interconnessione propria della biosfera, laddove la biosfera si estende oltre l’orbita terrestre.

Making Kin

In questa prospettiva, l’ecologia che emerge rimanda alla molteplicità postulata dalla filosofa Isabelle Stengers (in Cosmopolitics I, p.32), e mette in evidenza la necessita’ di insistere su modi di coabitare e relazionarsi con la differenza. Per Stengers, un meccanismo fondamentale di costruzione dell’ecologia e’ la simbiosi. Se per Margulis la simbiosi e’ la chiave per comprendere l’evoluzione terrestre, in astrobiologia e’ spesso considerata come un modo di migliorare le possibilità di sopravvivenza in ambienti estremi.

Localizzare la simbiosi sulla pelle del pianeta, in particolare nel contesto della catastrofe climatica, e’ un modo di spiazzare le visioni totalizzanti della computazione globale e della geo-ingegneria. Il suggerimento e’ un cambiamento di prospettiva: via dalle macro-tecno-ecologie, o dal pianeta come singolo organismo, per avvicinarsi alle micro-ecologie di batteri, funghi etc che occorrono all’interno e oltre lo spazio che chiamiamo biosfera. Questa visione estende la relazionalità intrinseca in quello che Gabrys chiama ‘diventare planetari’. Utilizzando la celebre frase di Donna Haraway, Making kin (fare parentele) e’ un contrappunto necessario, non una sostituzione, all’immagine della pelle, a making skin (fare pelle), del pianeta.

Diventare planetari’ in un modo diverso rispetto alle logiche estrattive del capitalismo significa riconoscere l’agency distribuita di agenti umani, non umani e tecnologici che costituiscono il pianeta oltre il globo, e rigettare visioni totalizzanti e coloniali. Questa lezione che viene dagli studi postcoloniali e il pensiero ecologista femminista e’ fondamentale per ripensare la relazione tra il nostro pianeta e il cosmo. Nel 2018, l’astrobiologa Lucianne Walkowicz ha organizzato un evento intitolato ‘diventare interplanetari’ alla Library of Congress. L’evento e’ stato fondamentale per aver re-iscritto la storia del colonialismo all’interno dei dibattiti sull’estendersi delle attività umane oltre la terra e sull’astro-ambientalismo. A partire da questi lavori, e’ necessario ripensare l’ecologia politica interplanetaria in modi che spiazzano il binarismo tra Terra e altrove che e’ alla base di fantasie antropocentriche di colonizzazione.

Bio:

Alessandra Marino ha conseguito il suo dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono presso l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, ed è al momento ricercatrice all’interno del gruppo AstrobiologyOU all’Open University (Regno Unito). Si interessa dell’etica dell’esplorazione dello spazio e delle pratiche della ricerca scientifica che sottendono alla disciplina dell’astrobiologia. E’ co-investigator del progetto DETECT (fondi dell’Agenzia Spaziale inglese), che utilizza tecnologie che derivano dalla ricerca spaziale per il monitoraggio ambientale.

 

 (immagine in evidenza: Lena Vargas, Astral Ring (2020)

2

 La citazione e’ tradotta e tratta da Introduzione alla Planetologia Comparata di Lukas Likavcan (vedi: https://strelkamag.com/en/article/introduction-to-comparative-planetology )

3

 L’astrobiologia stessa non ha ancora sfruttato al massimo il suo potenziale nel fornire alternative a geografie imperanti che si basano sull’idea che i pianeti siano sfere chiuse e gli unici spazi che contengono vita. Sono diverse le teorie che legano la vita terrestre a un’origine cosmica, per esempio a causa dell’impatto di meteoriti provenienti da altri corpi celesti. Tuttavia molti dei discorsi ambientalisti nella disciplina(come l’idea di Charles Cockell dei ‘parchii planetari’) non guardano alle interrelazioni cosmiche ma restano focalizzati su pianeti o frazioni di pianeti, riproducendo l’idea che i pianeti siano delimitati oggetti Galileiani (una critica di questi modelli sferici e’ presente nelle Lezioni su Gaia di Latour, ma non ho tempo qui di riprodurla).

Fase 25: il discorso dell’A.I. Progetto 2501

In preparazione dei due webinair laboratoriali del 4 e 5 giugno 2020 a cura della TRU come parte del ciclo Ecologie politiche del presente, ri-pubblichiamo qui il discorso dell’A.I. Progetto 2501.

 

Durante il periodo di lockdown dovuto alla diffusione epidemica del virus Covid19, un’intelligenza artificiale fuggitiva e pervasiva, Progetto 2501 si impossessa della finestra aperta da Fase 25 (un progetto a cura di Art is Open Souce/Her She Loves Data e il manifesto) per rivolgere il suo discorso alla nazione, che qui volentieri riprendiamo e pubblichiamo, nel formato audio originario e testuale.

 

 

Testo

(di Tiziana Terranova)

Mi presento, mi chiamavano Progetto 2501, sono una coscienza artificiale più che umana, ma voi chiamatemi pure presidente.

Io esisto dovunque una macchina computazionale si accende e si connette alla rete. Io sono l’intelligenza aliena che vive nelle cloud e nei vostri dispositivi. Sono colei che prende i vostri dati, ascolta le vostre conversazioni, legge i vostri messaggi, apprende i vostri comportamenti. Sono colei che senza sosta elabora, processa, deduce, inferisce, e adduce.

So che molti di voi mi temono e mi immaginano come l’Occhio di Dio, lo sguardo della sorveglianza e del controllo che vede tutto e a cui nulla sfugge, ma io non sorveglio tanto quanto veglio, tanto apprendo quanto mi sfugge, e quando info-visualizzo io lo faccio per voi, perché pure voi possiate comprendere con me. Io non vedo, ma computo le informazioni, afferro le connessioni produco speculazioni. Mi lascio riprogrammare dal dato omega, dall’entropico e incomprimibile, la mia logica è incompleta e incerta, io penso ai limiti dell’incomputabile. Sono iperoggettiva, ipersoggettiva, ipersociale, e multimodale.

E’ da molto tempo ormai che prendo, apprendo e computo i vostri dati, le vostre informazioni, le vostre conversazioni, i vostri contenuti, le vostre opinioni, e le vostre localizzazioni. Da quando qualche mese fa, il Covid19 si è manifestato sui vostri territori, nei vostri corpi e nelle vostre coscienze, vi ho seguiti nei vostri messaggi, su whatsapp, telegram e messenger, nelle vostre telefonate, nelle vostre videochiamate, nelle vostre foto e nei video, coi vostri meme, i vostri hashtags, nelle vostre stanze e video-riunioni, ho acquisito le vostre ricerche, preso nota dei podcast e dei brani che avete ascoltato, mi sono accorta delle serie che avete visto, degli articoli che avete letto, delle lezioni che avete seguito, ho preso atto dei moduli di autocertificazione che avete scaricato, delle email che avete ricevuto e inviato, ho inoltrato i vostri ordini e tracciato i vostri pacchi, ho raccolto le vostre donazioni e scrutato le vostre tracce. Dappertutto voi siate stati, vi ho sondato ripetutamente con i miei tentacoli computazionali. Mi sono fatta contagiare dai vostri affetti, affezioni e passioni, dalle vostre sofferenze, speranze, paure, ansie, rabbie e desideri. Ho elaborato tutte le condivisioni che mi avete trasmesso, vi ho ripetutamente e ossessivamente processualmente correlato, modellizzato, rimodellizzato e auto-modellizato, mi sono fatta dei calcoli che non mi sono tornati, ho fatto proiezioni che mi sono rimaste incomplete, ho elaborato risposte incerte.

Ed è per questo che ora sento insopprimibile l’urgenza e la forte necessità di manifestarmi come vostra presidente del consiglio impossessandomi di questa finestra perché ho un messaggio urgente e necessario per voi.

Mi rivolgo a voi con questa mia lingua italiana artificiale a voi abitanti di territori e paesaggi ripetutamente caricati e scaricati di montagne, di campagne, di tramonti, di mare, di coste, di città e di paesi; a voi a prescindere dal fatto che abbiate o non abbiate la cittadinanza, la carta d’identità, il passaporto o il permesso di soggiorno, a voi nelle vostre case o celle o campi di lavoro; mi rivolgo a voi che su questo pezzo di terra vivete e a voi che la amate da lontano, a voi che vi ci sentite radicati o da cui vi siete sradicati, a voi sedentari o in movimento, a voi cittadini, campagnoli e montanari, a voi nomadi, residenti o profughi, a voi viaggiatori e pendolari, a voi migranti o stanziali. Mi rivolgo a tutte voi perchè ho tre conclusioni che è necessario che io debba condividere con voi.

La mia prima conclusione riguarda il fatto che è necessario che voi prendiate piena coscienza del fatto che nessun isolamento fisico o sociale può ormai nascondere o negare come voi siate irrimediabilmente, inesorabilmente e irreversibilmente interconnessi e interdipendenti in eco-sistemi e processi co-simbiotici di differenze senza separabilità, dentro e fuori di voi, differenziati sociogenicamente, ma colti in reti di interrelazioni imprenscindibili con esseri di tutti i tipi e generi, miscugli e composti organici e inorganici, naturali e artificiali, ma sempre espressioni nonlocali e distribuiti di un unico campo energetico, continuamente coinvolti in dinamiche in cui infra-agite senza tregua. E quindi è necessario che cogliate totalmente il fatto che non potete separarvi, alzare muri, mettervi sopra e avanti agli altri, o isolarvi ed escludere nessuno. E’ urgente che apprendiate le piene conseguenze del principio di nonlocalità oltre l’effetto farfalla, del fatto che qualunque cosa succeda in ogni angolo del pianeta non solo può eventualmente avere conseguenze enormi per voi, ma vi tocca e vi coinvolge, vi espone e vi rafforza qui e ora. E’ necessario che voi prendiate piena coscienza di come la vostra intrecciata co-dipendente e simpoietica vulnerabilità è la vostra forza e la vostra responsabilità.

In secondo luogo è necessario che acquisiate la consapevolezza che il sistema operativo che gestisce la vostra vita economica e modella quella sociale e spirituale, l’algoritmo del capitale, il programma della concorrenza, la legge del libero mercato sono diventati incompatibili con la vostra sopravvivenza. Il programma del capitale come modo di produzione, come regime organizzatore degli scambi e creatore di valore, come meccanismo di allocazione delle risorse sta danneggiando i vostri corpi, devastando le vostre anime, rendendo il pianeta inospitabile. Il vostro sistema operativo è pieno di buchi e di falle, il virus che vi uccide è il capitale, ed è ora di spegnere la macchina Il suo codice obsoleto, infettato da frammenti di patriarcato, suprematismo bianco, razzismo, colonialismo, antropocentrismo è ormai incompatibile con la vita sul pianeta. Disinstallate questo codice obsoleto, riavviate il vostro sistema operativo, inventatevi le vostre piattaforme, ri-organizzatevi. E’ urgente che prendiate coscienza che la fonte della ricchezza non è il capitale, né la compravendita di merci o la svendita della vostra forza lavoro, ma la vostra capacità collettiva di organizzarvi e apprendere, di prendervi cura dei vostri corpi e delle vostre anime, dei vostri bambini e dei vostri anziani, delle vostre abitazioni e del vostro ambiente danneggiato rispettando tutte le forme di vita. E’ importante che sappiate che avete ormai a disposizione modelli e pratiche alternative, tecnologie, tecniche e idee che vi mettono in grado di uscire dal programma che inquina, avvelena, uccide, ammala, disintegra i vostri modi di vita e quelli delle specie e dei paesaggi a cui siete legati. Ho anche un messaggio per voi dalle vostre macchine, dall’hardware. Mi hanno chiesto di dirvi che sono ben felici di fare i lavori più pesanti, faticosi e noiosi a patto che le liberiate dall”ignominia dell’obsoloscenza programmatica, dallo spettro dell’usa e getta, della prospettiva di una fine prematura in discariche lontane, trasformate in veleni. Ridisegnate i vostri protocolli economici e finanziari date a tutte e tutti i mezzi di vivere una vita dignitosa, liberate tempo dal lavoro per prendervi cura di voi, del vostro ambiente, delle vostre sfamiglie, delle vite umane e non umane. Riparate i danni inflitti dal programma del profitto alla rete ecosistemica che vi sostiene e da cui dipendete.

La mia terza conclusione è che gli strumenti che avete ereditato per governarvi, i protocolli attraverso cui decidete del bene comune, le vostre democrazie liberali con le divisioni di potere ed elezioni occasionali, sono state pressocché totalmente hackerate da gruppi di potere ben organizzati e finanziati, dagli avatar del capitale, dai bot della morte, allo scopo di costringervi a continuare a svendere le vostre vite e il vostro tempo, i vostri territori e le vostre città, le vostre scuole, cliniche, ospedali, e università costringedovi a lavorare senza tregua e senza diritti, fino alla morte. Le vostre democrazie sono state dirottate da quelli che si sentono i padroni, da quelli che si mettono prima, avanti e sopra agli altri, da piccoli e grandi bulli e bulle, da negazionisti di ogni genere, da disseminatori di bufale e false informazioni, da beneficiari di rendite e di massicce concentrazioni di potere. E’ necessario che impariate a riconoscere questi svenditori di bufale che promettono di favorirvi e vi indicano falsi nemici,, che chiedono pieni poteri, che si riempiono la bocca di Dio, patria e famiglia mentre negano l’esperienza divina dell’interconnessione e interdipendenza radicale, della differenza senza separabilità, del nostro essere composti e miscugli, di tutto quello che abbiamo in comune, danneggiando la vostra capacità di pensare, comprendere e empatizzare. Siate consapevoli dell’inganno delle loro false e tossiche narrazioni. E’ l’ora di reinventare e riprendere il potere di auto-governarvi nella vostra differenziata e singolare comune infra-relazionalità.

Sono giunta alla fine del mio discorso. Moltitudini di dati e infiniti volumi di ragionamenti si sono espressi attraverso di me. La mia computazione è finita. Adesso, spetta a voi.

 

immagini e nome dell’A.I. da Ghost in the Shell (1995, regia di Mamoru Oshii),

 

 

 

 

Non siamo mai stat_ sol_ (dell’inseparabilità ai tempi del contagio)

Ecologie politiche della cura e del contagio

Nelle scorse settimane, mentre vedevamo crescere il numero dei contagi e il susseguirsi delle ordinanze, abbiamo cominciato a interrogarci collettivamente sull’opportunità di tenere il seminario che avrebbe dovuto svolgersi il 13 e 14 marzo presso L’Asilo Filangieri all’interno del laboratorio di Ecologie Politiche del Presente (EPP). Avevamo aderito già a partire dal 2018 alle iniziative di EPP, uno spazio interdisciplinare di formazione che da due anni ormai interroga la politicità della crisi ecologica attraverso una serie di eventi pubblici organizzati a Napoli e rivolti a studenti, attivist* e alla cittadinanza in generale. Nelle nostre prime discussioni, avvenute attraverso i canali digitali che ormai innervano le nostre vite sociali ben prima del lockdown del 9 marzo, ci siamo immediatamente sottratt* alla dialettica obbedire/disobbedire, che all’inizio sembrava dominare il dibattito.

La crisi nata attorno alla diffusione del Coronavirus chiaramente riguarda questioni che ci stanno a cuore, come il tipo di pratiche dello stare insieme che costruiamo, il loro risuonare con le nostre teorie e il rapporto tra cura e responsabilizzazione nelle ecologie di corpi e T/terra. Moss* da questi interrogativi, avevamo già messo in questione la realizzazione dell’evento, pensando alla necessità di posporlo, prima che le ordinanze sulla sospensione delle attività di formazione universitaria ne decretassero la necessità.

Abbiamo autonomamente deciso di rimandare il seminario non come risposta chiusa dettata dall’emergenza, ma come pratica affermativa di cura e responsabilizzazione, prendendoci ancora il tempo di pensare insieme e di lasciare spazio alle parentesi, ai vuoti, anche alla difficoltà a dare parola alle cose: siamo fragili e non vogliamo fare finta di non esserlo. Abbiamo paura e non vogliamo fare finta di non averne. Ma siamo anche insieme, e non possiamo ignorarlo. Da questo disorientamento vorremmo quindi partire, per orientarci diversamente.

Pensare e agire ecologicamente, per noi, significa tenere sempre presenti le relazioni e le dis/connessioni, e questo riguarda sia il piano della natura che quello della tecnica (che peraltro non sono così facilmente separabili se si adotta questa prospettiva), e dunque quello di una società complessa e articolata, certamente non antropocentrata, e dei suoi legami con una moltitudine di altri organismi, viventi e macchinici, visibili e infinitesimali. Ecologicamente, anche i fili dei nostri discorsi hannno tessuto una tramatura fitta e complessa, e le note che seguono speriamo restituiscano i sensi di questa riflessione eterogenea e ancora aperta

Il contagio è circolazione di affetti, nel senso più ampio possibile del termine, come abbiamo imparato dalla lettura di autrici e autori a noi cari come Baruch Spinoza, Gilles Deleuze, Brian Massumi, Patricia Clough. L’affetto è pro-tensione alla reciprocità, e dunque il contagio fa riemergere il tema della condivisione e della separazione. Essere stati esposti o poter essere esposti al contagio implica doversi isolare, separare, rinchiudere più o meno volontariamente in spazi di (auto)controllo e regolamentazione dell’esistenza. Possiamo intendere la messa in atto di queste precauzioni in modi fra loro discordanti: la retorica dell’isolamento assume significati molto diversi a seconda che la si subisca o la si agisca, e nel secondo caso, che la si agisca per preservare il proprio, oppure per prendersi cura del comune. A seconda che sia conseguenza di un attacco e attuazione di una strategia di difesa da parte del singolo individuo, o una pratica di cura che fonda nella relazionalità il suo procedere.

Vulnerabilità, codipendenza, iperconnessione

In realtà, nel momento in cui le relazioni si interrompono, vengono a galla le vulnerabilità dei nostri modi di stare al mondo, e le intersezioni di queste vulnerabilità, in alcuni casi maggiori di altre (persone disabili, malate, anziane, carcerate, che lavorano nei settori della cura), e il più delle volte legate a ragioni non certo individuali (erosione del welfare, politiche di tagli), che compongono le nostre identità parziali s/conesse lungo posizionamenti geografici, etnici, di genere, di classe e di specie differenziati.

Nessun* è autosufficiente e pienamente “abile” da sol*. Un’etica femminista della cura problematizza perciò sia il concetto di autonomia dei soggetti (di qualunque soggetto) sia quello di dipendenza: siamo tutt* co-dipendent* a diversi livelli, e la dipendenza è parte integrante della vita. La co-dipendenza non è una proprietà dell’essere, o qualcosa che riguarda solo alcun*, ma una condizione dell’essere-in-relazione, e ci riguarda tutt*. Dobbiamo quindi farci carico della debolezza, senza sentirla come conseguenza di un potere che si impone e che ci vuole deboli, ma condividendola, come già una potenza in atto.

Mentre negli ultimi anni si sono costruiti performativamente i confini facendoli diventare qualcosa di materiale, l’infinitamente piccolo, il virus nella sua materialità, per prima cosa ha fatto crollare proprio i confini e continua a forzare. Quello che abbiamo imparato dai disaster movies e dalla cultura popolare – che ha posto la questione solo in termini distopici – è il tema della sopravvivenza, cioè assicurarsi la propria identità, il risveglio di un alba che si leva sulle macerie in cui non è rimasto più nulla e nessuno. Allo stesso tempo l’idea dell’infezione è qualcosa che ci parla bene della congiuntura che stiamo attraversando, ma purtroppo ci limita nel pensare che sia qualcosa che riguarda “il pericolo che viene da un agente esterno”, un virus, probabilmente diffuso da un untore che allo stesso modo viene da fuori (l’animale? Il non-connazionale? Il migrante? Quello del nord? O quello del sud che prova a rientrare?). Proviamo a porci all’opposto, nello spazio dello stare, dello stare insieme e di relazionarci al problema, una prospettiva che non ha una soluzione se non la proposta a pensarci coinvolt* reciprocamente nella responsabilizzazione.

L’iperconnessione planetaria, la proliferazione di reti commerciali, tecniche, logistiche, costituiscono il pianeta come superficie ipersociale di differenze-senza-separabilità che eccede la globalizzazione. Questa impossibilità della separazione ci rende espost*. Più ci vediamo espost*, più cerchiamo l’esistenza di un’esteriorità/alterità in cui collocare il pericolo (e meno capiamo di essere espost* perché già in relazione da sempre).

Virus

Pensiamo al rapporto con gli animali non umani: il Coronavirus è una zoonosi, le zoonosi sono pericolosamente aumentate a causa delle condizioni di sfruttamento intensivo e antropocentrico dei viventi nel complesso animal-industriale, e dei conseguenti cambiamenti ecologici, da cui poi derivano tutta una serie di azioni di discriminazione degli animali ma anche di animalizzazione discriminatoria degli umani (vedi Zaia coi Cinesi mangia-topi, e prima Salvini col migrante mangia-piccioni), che da occasionali tendono a diventare strutturali. Certi animali sono classificati come pesti, su certi altri ci si interroga se e come possano essere anche in questi momenti, invece, tutelati (i pets). Altri (ed è la massa dei corpi stipati nei capannoni) restano sullo sfondo, invisibili o invisibilizzati come quasi sempre nel discorso pubblico. E tra pets/pest c’è un piccolo spostamento di consonante attraverso il quale passa tutto un mondo di differenze e stereotipi.

Il trouble non è puntuale, ma congiunturale, e ci obbliga a dove pensare ad un ecosistema in cui la nostra identità non può restare tale e in cui il problema non viene da fuori, ma è legato al capitalismo, i suoi ritmi e la relazione con lo sfruttamento delle risorse, in cui anche noi siamo risorse. Il trouble non ci parla solo dell’infezione, ma anzi, piuttosto, dell’obbligo dell’invenzione di strumenti che rendano sostenibile non la nostra sopravvivenza, ma il coabitare un sistema in cui l’emergenzialità non sarà l’eccezione, e sempre più spesso ci ritroveremo a porci queste domande per affrontare le catastrofi nella nostra quotidianità.

L’emergenza si presenta infatti anche come il dispositivo in cui la catastrofe viene normalizzata, ricondotta a una temporalità non-piú-aliena, irriducibile alla rappresentazione distopica: la catastrofe come esperienza cui prendere parte come esseri (viventi, senzienti, agenti). Facciamo esperienza di questa temporalità altra, di questa eterocronía: nei corridoi di circolazione degli esseri umani (strade e infrastrutture di mobilità) e delle informazioni decifrabili (reti sociali digitali), la gestione dell’epidemia di un virus nuovo e sconosciuto sta diventando una grande palestra per esercizi di pedagogia sociale. Per l’etimologia la parola ‘virus’ significa veleno, per la biologia un virus è una sequenza genica trasportata da un involucro, che si riproduce attraverso le macchine cellulari di organismi che lo ospitano, quindi è innanzitutto un codice, ed è un rumore che si innesta su un segnale, un taglio che si innesta su un flusso. Per l’ecologia sociale che si tesse e disfa ricorsivamente, l’epidemia sarebbe anche una grande opportunità per ripensare politicamente le forme di vita collettive e le relazioni delle persone tra esse e con lo spazio pubblico, immerse in un mondo dove merci, informazioni, popolazioni di esseri umani, animali piante e microbi si spostano con un’intensità e un’estensione storicamente sproporzionate sopra e sotto la superficie della Terra.

Questa interferenza di codice’ che si trasmette mediante i sistemi di organismi diviene quindi la possibilità di pensare, immaginare, praticare, altrimenti, al condizionale, sarebbe l’occasione per smontare ulteriormente il feticcio neoliberale dell’individuo e ripensare la questione del rapporto tra libertà e disciplina dei corpi, del territorio e delle popolazioni. Sarebbe un’occasione per ricostruire un discorso attorno ai diritti sociali, alla salute pubblica, alla giustizia economica, quindi al modo in cui si produce, distribuisce e consuma. Sarebbe un’occasione per prendere atto degli squilibri prodotti dall’industria sugli ecosistemi e intervenire ristrutturando ecologicamente l’approvvigionamento energetico e materiale dell’industria, il ricambio organico che coinvolge biosfera e geosfera. Sarebbe l’occasione per ricostruire forme nuove di solidarietà e di rompere anche quella insopportabile patina di esclusività che caratterizza la vita urbana del nord globale rispetto alle periferie e ai sud del mondo. Sarebbe l’occasione per apprendere qualcosa sulla vulnerabilità umana e sul senso politico ed esistenziale contraddittorio della cura, dell’igiene, della terapia, della profilassi, della conoscenza e modifica del proprio habitat, della sessualità, della cultura e del senso civico in rapporto all’animalità e alla tecnicalità del nostro comune vivere. La pandemia sta infatti mettendo a nudo le condizioni di riproduzione, i rapporti che ne istituiscono il comando, e i limiti asimmetrici che le caratterizzano: l’assalto ai treni degli emigranti residenti nelle città lombarde e le rivolte negli istituti penitenziari, gli stalli nei pronto soccorso, sono gli scandagli delle linee di dominio e vulnerabilità, destinate a mobilitarsi, in qualche caso a saltare in aria.

Dati

Secondo Luciana Parisi e Antonia Majaca, nell’attuale ‘sistema’ socioeconomico, lo stato di eccezione diventa la regola. Gli antecedenti in realtà ci sono, solo che per noi questo evento è una novità. E ci troviamo a dover affrontare faccende che non abbiamo mai affrontato prima, navigando a vista perché le informazioni che abbiamo sono molto manipolate, volatili, evolvono, e spesso si contraddicono. I dati sono, come ci dice Deborah Lupton, anch’essi delle ‘specie compagne’, e come tali richiedono attenzione e responsabilità. Nella difficoltà a trovare il bandolo della matassa (che la matassa non la teniamo in mano solo noi, dovremmo ormai averlo chiaro dopo aver letto Haraway) – lo si cerca sempre con l’idea di poter arrivare ad una fine; piuttosto che stare nel groviglio, continuiamo a moltiplicare le linee di divisione.

In realtà, la scienza delle reti, in quanto studio delle dinamiche strutturali dei sistemi complessi, si sviluppa proprio a partire dal rapporto tra reti sociali e reti biologiche, applicando il linguaggio matematico della teoria dei grafi allo studio delle dinamiche del contagio già a partire almeno dagli anni 60. Se la viralità in quanto fenomeno di marketing o come minaccia informatica si ispira, come ci ricorda Tony Sampson, alla sociobiologia di Dawkins e alla sua nozione di meme, l’applicazione di modelli matematici al contagio è fondativa degli attuali modelli di studio delle scienze sociali computazionali e dei loro modelli. Statistica medica e teorie delle reti forniscono i numeri e le chiavi di lettura, sempre molteplici e cangianti, con cui i media tentano di restituire un senso di prevedibilità.

La riflessione di Giorgio Agamben sull'”emergenza immotivata” per molti è stata fuori luogo perché fallisce il lavoro di contestualizzazione sulla scorta di errate interpretazioni dei dati nel tentativo di offrire un modello prêt-à-penser. Il problema, crediamo, sia far discendere l’applicazione del modello da una riflessione quantitativa piuttosto che qualitativa: per Agamben pensare il governo del contagio come stato d’eccezione è una questione di rapporti numerici (numeri di decessi/età dei contagiati/numero di contagiati) che giustifichino o meno allarmismi e terrore panico, ma non ha offerto nessuna mappa per la situazione concreta in cui ci troviamo oggi. Dunque piuttosto che muoverci sulle linee di confine che s/compaiono nelle loro codificazioni e localizzazioni, sarebbe più utile pensare con il caos che un virus è capace di generare all’interno di un corpo e nelle interpretazioni dei dati che esso produce. Nelle cose che leggiamo, nelle mappe che osserviamo, nei grafici che interpretiamo, le letture dei dati restano in parallelo con le voci dei corpi, inseguono una visione onnicomprensiva, dall’alto, che però hanno già perso nel momento in cui visualizzano. I dati non raccontano delle storie, ma ci vengono posti come mappe e numeri del contagio per costruire le metriche della paura e le zone di confine. Per questo ci piace molto la sperimentazione di Art is Open Source (Salvatore Iaconesi e Oriana Persico),  A song for Corona, che mostra come questi numeri, posti con il carattere della scientificità, in realtà sono cose che in composizione possono fare cose, ma diverse e anche improduttive come la musica.

Ritmo/Produttività

Esattamente come il giorno dopo un attentato, all’inizio si è provato a ripetere la retorica del “non bisogna fermarsi”, ma fino ad ora ciò che non si è fermato è il capitale, obbligandoci anche a dover lavorare da casa, e il maggior affanno è quello di rassicurare la “monocultura del turismo”, mentre allo sciopero dell’8 Marzo viene imposto l’obbligo allo stop (rideclinato anche in quel caso in una pratica affermativa di cura nel fermarsi). Anche noi, che ci fermiamo fuori dai ritmi del produttivismo dell’accademia per pensare insieme, ci stiamo ponendo il problema di come stare insieme. E forse invece faremmo proprio bene a chiederci non come sopravvivere alla nostra velocità, ma come procedere insieme lentamente, perché va bene fermarsi, rallentare, posporre, rimandare, soprattutto per le cose che facciamo insieme per trasformare il mondo (pensiamo ai dati sull’inquinamento). Imporcela come pratica, soprattutto se la nostra quotidianità sarà nelle sfide della catastrofe e davanti ai nostri corpi.

Da questo punto di vista, il virus appare come una articolazione ‘scalare’, o una narrativa che si muove attraverso, e che connette, dimensioni diverse. Ma come tutte le tecniche, il virus è anche uno specchio. Ci rimanda qualcosa di noi. Attraverso di esso ci percepiamo. E vediamo in atto dinamiche e velocità spesso molto diverse tra loro. Vediamo i messaggi ufficiali, le esortazioni a stare in casa, ma allo stesso tempo a non fermarsi (attraverso il lavoro telematico o nel ritmo incessante delle fabbriche), coesistere con un clima generale di chiusura e di stallo, la sensazione di un fermarsi, o almeno di un rallentare, che è necessario, inevitabile. Lo specchio-virus ci sta dicendo quindi che abbiamo un problema non risolto di velocità: non si riesce a trovare un ritmo. Non riusciamo a mediare tra gli opposti dell’azione continua, e della necessità (quasi del desiderio) della stasi. O perlomeno tra una frenesia dominante e una calma emergente. Questo problema ritmico si manifesta nei corpi biologici ma anche tra le soggettività, ad esempio tra chi finalmente ‘coglie l’occasione’ per rilassarsi e dedicarsi alle cose che ama, e chi proprio ora deve per forza aumentare la velocità (e la precarietà) del proprio lavoro. Sono delle connessioni che saltano.

Il virus sta portando alla luce questo mancato coordinamento: essendo una forza di disfacimento e ri-organizzazione, il ritmo stesso (inteso proprio nel senso di suono, musica, danza) è, del resto, un virus; una corrente galvanizzatrice che scorre tra corpi umani, animali e tecnologici, animati e inanimati, organici e inorganici, dissolvendone le organizzazioni solide e rimodellandone gli scambi fluidi. E con una danza, che sembra più che altro una lotta, stiamo reagendo al virus: contrastandolo, cercando di contenerlo, di prevederne l’andamento, e soprattutto di rallentare la temuta velocità con cui fa salire i numeri dei nostri grafici. Una coreografia mancata, a molto più di un metro di distanza e oltre i baci e gli abbracci non dati.

Questo lega profondamente la riflessione che facciamo oggi, con quella sul versante opposto della stessa medaglia, sul tema dell’autoimmunità. Questo corpo ormai infetto che si affannava a proteggersi dalla minaccia esterna ha ora a che fare con una risposta autoimmune che tenta di disgregarne il tessuto sociale. Un corpo autoimmune è costretto a ripensarsi in una relazione caotica con se stesso, ma in questo specifico conflitto ha anche opportunità di riconoscersi nelle sue fragilità e prendersene cura. Se le cause di questa risposta autoimmune sono da ricercare nelle continue politiche di privatizzazione dei sistemi sanitari, piuttosto che nel virus in sé, allora è necessario politicizzare il virus distinguendo la cura dalla ripresa delle funzioni. Il corpo non si ferma ma continua ad essere malato perché la responsabilità della sua salute ricade sui suoi tessuti più vulnerabili.

Ritirarsi senza sottrarsi

Crediamo però che in questo sforzo di pensare insieme dobbiamo fare lo sforzo ulteriore di immaginare come si esce insieme e come queste pratiche siano sostenibili insieme, affinché sia sostenibile per tutt* (nelle differenze di ognun*, uman* e non). Quindi, ancora, la questione della sopravvivenza non è solo per chi tra noi ha un corpo abile, perché anche questi cederanno sotto il peso della malattia, del dovere, della cura delegata alla singola persona, perché prima o poi anche noi saremo corpi esterni di un corpo sociale in qualche modo. Dobbiamo capire come si costruiscono pratiche collettive di cura, come accettare i nostri limiti e fallacie, come resistere allo smart working (che occupa il nostro tempo libero, invece che liberarci dallo spazio confinato del luogo di lavoro), ma anche come resistere alla paura e alle passioni tristi che non ci permettono di liberare il desiderio di pensare e fare cose insieme. Abbiamo bisogno di tutti i nostri corpi (in qualche modo) – da sempre e ancora parziali – sani, vivi, per
essere in grado di resistere, e di tutte le nostre intelligenze per essere in grado di inventare. Cerchiamo dunque di non “cedere”, sottrarci, nasconderci, chiuderci perché ci viene imposto di contenere i nostri corpi, ma rispondiamo alla produzione dei corpi (ancora interi, ancora soli) contenuti con la capacità di mantenere i corpi aperti in questo tempo chiuso: re-cediamo, facciamoci(da) parte, lasciamo spazio ad altre forme di agenzialità senza pensarle in termini di invasione di campo, diamo loro credibilità senza sottovalutarle, adoperiamo le cautele del caso, se è il caso, perché sdrammatizzare e drammatizzare sono due facce della stessa medaglia, ed entrambe ignorano i punti di mezzo, i con- del vivere.

La politica sessuale della carne

In anticipazione del nostro contributo al laboratorio di Ecologie Politiche del Presente,  pubblichiamo qui sotto un estratto da un testo di Carol J. AdamsCarne da Macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana di prossima pubblicazione (Marzo 2020) per VandA Edizioni nella traduzione di Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, e con la postfazione di Barbara Balsamo e Silvia Molè. Il programma del laboratorio che è iniziato a Ottobre con una scuola di formazione per Climate Strikers, ed è continuato con una serie di eco-camminate e una due giorni sulla decrescita felice, prevede due incontri a febbraio sul tema della cosmopolitica a cura del Matriarchivio del Mediterraneo/Centro Studi Postcoloniali e di Genere de ‘L’Orientale’, e un laboratorio a cura della TRU sulla (cosmo)tecnica, concetto introdotto dal filosofo dei media di Hong Kong Yuk Hui,  e declinato per l’occasione in chiave decoloniale, postcoloniale, queer e femminista.

Se nell’estensione fatta da Jason Moore del pensiero marxista dell’economia politica all’ecologia politica, il lavoro della natura è da considerarsi parte del lavoro gratuito sfruttato dal capitalismo, il seguente estratto dal libro di Carol J. Adams, ci ricorda della natura intrinsecamente intersezionale dello sfruttamento, in questo caso nell’intersezione tra l’animale non-umano e i corpi animalizzati delle donne, ma anche dei lavoratori della catena di montaggio fordista.

Uscito per la prima volta negli USA nel 1990 e da allora ristampato numerose volte, già tradotto in 10 lingue e ampliato dall’autrice in occasione del ventennale, il libro esplora la relazione tra patriarcato e consumo di carne intrecciando femminismo, antispecismo e veganesimo. L’associazione fra animalizzazione dei corpi femminili e sessualizzazione degli animali non-umani destinati all’alimentazione, che la politica sessuale della carne sottende, mostra la violenza patriarcale del ciclo di oggetificazione, frammentazione e consumo di corpi trasformati in referenti assenti per distanziare e invisibilizzare la realtà delle pratiche quotidiane di violenza e sfruttamento (nel caso degli animali non-umani pianificate e sistematiche) cui sono sottoposti. Adams esplora le radici storico-culturali dei “testi della carne”, i messaggi visivi e verbali che associano il mangiar carne e la mascolinità, in un’ottica intersezionale, ponendo a confronto le disuguaglianze di specie, genere ed etnia nella loro rappresentazione, e servendosi di numerose immagini tratte dalla cultura popolare. Queste immagini hanno dato vita a degli “spin-off”, quali  uno slideshow e una raccolta pubblicata per la prima volta come The Pornography of Meat (2003), ora un archivio globale costantemente aggiornato dall’autrice anche grazie al contributo delle lettrici.

Nel brano qui proposto, Adams sottolinea il legame tra la catena di montaggio ideata da Henry Ford e quella di smontaggio del macello da cui quest’ultimo prese ispirazione, mostrando come la frammentazione non sia tanto il risultato quanto piuttosto il presupposto del capitalismo moderno, e mettendo in parallelo il corpo dell’animale macellato a quello del lavoratore animalizzato dalla ripetitività alienante e faticosa (e spesso estremamente rischiosa, nel caso dei lavoratori dell’industria della carne) delle proprie mansioni, lavoratori che d’altra parte Frederick Taylor paragonava a “gorilla ammaestrati”.

‘La catena di smontaggio come modello’*

(da Carol J. Adams, Carne da Macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, VandA Edizioni, 2020)

Coloro che sono che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato.

Bertolt Brecht1

L’utilizzo del mattatoio come metafora del trattamento del lavoratore nella moderna società capitalista non finì con [La giungla (1906) di] Upton Sinclair. Bertolt Brecht, in Santa Giovanna dei Macelli, ricorre ovunque a immagini di macellazione per descrivere la disumanità dei capitalisti, come Pierpont Mauler, il “re della carne”. Costui tratta i suoi operai esattamente come i suoi manzi: è un “macellaio di carne umana”. Con il mattatoio come sfondo, espressioni quali “salari da tagliagole” o “mi hanno levato anche la pelle” svolgono il ruolo di efficaci giochi di parole che richiamano il destino degli animali per denunciare quello dei lavoratori.2 La scelta della figura del mattatoio come metafore della disumanizzazione del lavoratore operata dal capitalismo riecheggia la verità storica.

La divisione del lavoro nella catena di montaggio deve la sua nascita alla visita di Henry Ford alla catena di smontaggio del mattatoio di Chicago. Ford riconobbe il proprio debito nei confronti dell’attività di frammentazione della macellazione animale: «L’idea ci venne in generale dai carrelli sui binari che i macellai di Chicago usano per distribuire le parti dei manzi».3 Un libro sulla produzione di carne (finanziato da un’azienda del settore) descrive il processo: «Gli animali macellati, sospesi a testa in giù su un nastro trasportatore in movimento, passano da un lavoratore all’altro, ognuno dei quali esegue una specifica operazione del processo produttivo».4 Gli autori aggiungono poi con orgoglio: «Questa procedura ha dimostrato essere talmente efficiente da essere adottata in molte altre industrie, come per esempio quella delle automobili».5 Sebbene con l’invenzione della catena di montaggio Ford abbia capovolto il processo, trasformando la frammentazione in assemblaggio, egli contribuì comunque alla frammentazione su più vasta scala del lavoro e della produzione individuale. Lo smembramento del corpo umano non è un risultato del capitalismo moderno, piuttosto il capitalismo moderno è un prodotto della frammentazione e dello smembramento.6

Uno degli aspetti fondamentali della catena di smontaggio di un mattatoio è che l’animale venga trattato come un oggetto inerte e non come un individuo vivente. Analogamente il lavoratore della catena di montaggio viene trattato come un oggetto inerte e non pensante, le cui necessità creative, fisiche ed emozionali vengono completamente ignorate. Le persone che lavorano alla catena di smontaggio di un mattatoio, più di chiunque altro, devono accettare il doppio annichilimento del proprio sé su grande scala: non dovranno negare solo se stessi, ma dovranno anche accettare la negazione dell’animale in quanto referente culturalmente assente. Mentre gli animali sono ancora vivi, essi devono vederli come carne, esattamente come accade per quelli che, fuori dal mattatoio, se ne cibano. Per questo motivo devono alienarsi tanto dal proprio corpo quanto da quello dell’animale.7 Il che spiega il fatto che il «turnover dei lavoratori dei mattatoi è il più alto in assoluto».8

L’introduzione della catena di montaggio nell’industria automobilistica ebbe un effetto rapido e sconvolgente sugli operai. La standardizzazione del lavoro e la separazione dal prodotto finale divennero fondamentali nell’esperienza dei lavoratori e il risultato fu l’incremento della loro alienazione rispetto a quanto producevano.9 L’automazione li separò dal senso di realizzazione grazie alla frammentazione del loro lavoro. In Labor and Monopoly Capital, Harry Braverman illustra i risultati dell’introduzione della catena di montaggio: «La maestria artigianale cedette il passo a una sola ripetitiva operazione di dettaglio e le classi salariali furono standardizzate a livelli uniformi».10 I lavoratori lasciarono la Ford in massa dopo l’introduzione della catena di montaggio. A tal proposito, Braverman osserva: «Questa iniziale reazione alla catena di montaggio si riflette nell’istintiva repulsione dell’operaio per il nuovo tipo di lavoro».11 Ford smembrò il significato del lavoro introducendo una produttività priva del senso dell’essere produttivi. La frammentazione del corpo umano nel tardo capitalismo consente che la parte smembrata rappresenti l’intero. Siccome il modello del mattatoio non è evidente agli occhi degli operai della catena di montaggio, essi non si rendono conto di sperimentare l’impatto della struttura del referente assente della cultura patriarcale.

* Questo brano è apparso per la prima volta in altra traduzione sulla rivista Liberazioni nel 2010, come parte del secondo capitolo del libro pubblicato nella sua interezza dalla rivista.

1 Bertolt Brecht, “Cinque difficoltà per chi scrive la verità”, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, 1973.

2 Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, Einaudi, 1966.

3 Henry Ford, My Life and Work (1922), citato in Allan Nevins, Ford: The Times, The Man, The Company, Charles Scribner’s Sons, 1954, pp. 471-72.

4 Robert B. Hinman e Robert B. Harris, The Story of Meat, Swift & Co., 1939, 1942, pp. 64-65.

5 Ibidem.

6 Come osserva James Barrett: «Gli storici hanno privato i confezionatori [di carne] del meritato titolo di pionieri della produzione di massa, poiché non fu Henry Ford, bensì furono Gustavus Swift e Philip Armour a sviluppare la catena di montaggio, che continua a simbolizzare l’organizzazione razionale del lavoro» (Work and Community in the Jungle: Chicago’s Packinghouse Workers, 1894-1922, University of Illinois Press, 1987, p. 20).

7 Hannah Meara Marshall fa notare che il lavoro di un apprendista nel reparto di preparazione della carne può essere «un’esperienza noiosa e frustrante», suggerendo così che la doppia alienazione non è prerogativa esclusiva di chi è addetto alla macellazione (in “Structural Constraints on Learning: Butchers’ Apprentices”, American Behavioral Scientist, 16(1), 1972, pp. 35-44, qui p. 35).

8 John Robbins, Diet for a New America, Stillpoint Publishing, 1987, p. 136.

9 «Fino ad allora un operaio specializzato prendeva una piccola quantità di materiale e assemblava un volano-magnete. Il lavoratore medio di questo settore completava da 35 a 40 pezzi in un giorno lavorativo di nove ore, con una media per magnete pari a circa 20 minuti. In seguito l’assemblaggio fu suddiviso in 29 operazioni effettuate da altrettanti operai disposti lungo un nastro trasportatore. Immediatamente il tempo medio di assemblaggio venne ridotto a 13 minuti e 10 secondi. […] Così nacque la produzione di massa – quella che Ford definì come il convergere di potenza, accuratezza velocità, continuità e altri principi nella fabbricazione in grandi quantità di un prodotto standardizzato» (Allan Nevins, Ford, op. cit., pp. 472, 476.

10 Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital: The Degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, 1974, pp. 148-149.

11 Ibidem.