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Memorie di un archivio futuro: politiche dell’immagine dal mondo arabo post-2011

Il 24 e il 25 maggio alla John Cabot University a Roma si svolgerà il workshop “The Arab Archive: Mediated Memories and Digital Flows”, un incontro di due giorni dedicato all’economia politica dell’immagine araba tra materialità, etica ed estetica della sua produzione, distribuzione e archiviazione dal 2011 in poi. Il workshop, che vedrà la partecipazione di ricercatori, attivisti, artisti e curatori dal mondo arabo e non solo, rifletterà sulla questione della rappresentazione e delle politiche della memoria nel contesto arabo, schiacciato adesso da guerre civili, violenze o processi contro-rivoluzionari. Ripensare agli archivi digitali nel mondo arabo post-2011 vuol dire interrogarsi non solo sul ruolo del passato nelle conflittualità del presente, ma soprattutto su quali sono i soggetti e i poteri coinvolti a molteplici livelli geografici, locali e internazionali, nel modellare le politiche degli archivi, particolarmente alla luce delle potenzialità della tecnologia digitali nel facilitare i processi di condivisione e archiviazione del passato. Il programma dell’evento si può trovare a questo link; qui il programma della tavola rotonda “The revolutions won’t be televised. Immagini e archivi dalle rivolte del 2011”, che si svolgerà il pomeriggio del 24 a ESC Atelier.

 

May amnesia never kiss us on the mouth. May it never kiss us. Così scrivevano Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, artisti visuali palestinesi, in un intervento contenuto nel volume collettaneo You Are Here. Art After the Internet. Pensavano al desiderio che spinge a conservare frammenti di tempo, e a come sia possibile nel virtuale produrre e riprodurre continui archivi della contemporaneità, tramite piccole operazioni scandite dalla banale riproduzione della routine del cercare, scaricare, tagliare, incollare, copiare, documentare, caricare, postare, bloggare, twittare… Gli artisti palestinesi discutevano di quanto la dimensione e la pratica dell’archivio avesse riguadagnato centralità nei pochi anni precedenti, complice l’inversione di rotta avviata dalle nuove tecnologie che ha drasticamente infranto l’elemento statico e la processualità gerarchica dell’archivio, così come hanno testimoniato le vicende che hanno destabilizzato la regione del Nord Africa e Medio Oriente dal 2010, momento in cui siamo stati testimoni della possibilità di trasformare istantaneamente un evento in un file archiviale semplicemente riversandolo in maniera immediata nel ben più grande archivio di Internet. Ciò ha scompaginato lo scenario, presentando nuove pratiche di appropriazione, ri-archiviazione, documentazione, ri-narrazione, come prodotte in massa, ma soprattutto pubblicamente e performativamente, non solo come conseguenza e testimonianza, ma anche come componente del momento fisico di rivolta. L’idea di produrre archivi dissonanti in tempo reale, mente gli eventi si svolgono, può essere compreso, scrivevano sempre Abbas e Abou-Rahme, come un modo fondamentale per interrompere lo spettacolo del potere, e non solo condividere informazioni.

Oggi l’impulso a documentare, salvare e narrare il momento è ovunque, e la produzione collettiva e sempre crescente di archivi soggettivi, orizzontali, critici tra i paesi del mondo arabo esprime in maniera radicale il desiderio di ricominciare a interrogarsi, a partire da questo, sulle modalità di costruzione e decostruzione della storia, del passato e dell’attuale; un processo in cui per l’archivio non è solo contenimento e produzione di dati, ma soprattutto un dispositivo che può e deve mettere in discussione la sua funzione e il suo contenuto, per sovvertirlo dall’interno e renderlo vivente.

 

Screenshot homepage archivio egiziano 858 (https://858.ma)

 

Si tratta di una discussione che da una sponda all’altra sta prepotentemente attraversando, tanto in maniera teorica quanto pratica, i paesi del Nord Africa e Medio Oriente, tagliando trasversalmente geografie e temporalità, per diventare oggetto di pratica e discussione da parte di ricercatori, studiosi, ma soprattutto attivisti e artisti.

In questi anni, lo slancio politico e il potenziale liberatorio, la vitalità creativa che si impone di salvare il desiderio dall’egemonia della cannibalizzazione archiviale così come è stata conosciuta finora, quella dello spettacolo del potere, ha dimostrato di essere espressione anche di un riguadagnato diritto alla parola, di un’assunzione di agentività. La genesi di tali dissonanti e proliferanti archivi, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria alla Palestina, è allora in sé un atto di dissenso e di resistenza dalla trappola della rappresentazione, una delle tante possibili articolazioni della creazione di un nuovo radicale immaginario politico. È pur vero che un eccesso di informazioni potrebbe paradossalmente portare all’amnesia, ed è questo che potrebbe accadere dinanzi al flusso straripante e troppo accelerato di dati auto-prodotti nell’archivio digitale, tuttavia questo non deve condurre a una derubricazione dell’atto archiviale. Bisogna allora affrontare la questione allargando lo sguardo verso un nuovo immaginario.

Qui, praticare l’archivio vuol dire non solo contrastare la monopolizzazione della memoria degli archivi ufficiali, o l’obliterazione di memorie altre, sopraffatte dalla verticale gravità del potere, ma soprattutto ricostruire un nuovo senso di archiviare, che nasce soprattutto dalla ridefinizione di chi può farlo, e dalla plasticità linguistica e testuale di ciò che compone l’archivio. Un percorso che ha a che fare tanto con la memoria che con la creazione di un percorso per il futuro, poiché l’intento di questi archivi non è solo il preservare, quanto il localizzare le testimonianze come strumenti di resistenza e farle circolare; oltre alla possibilità di creare alleanze trasversali contro le privatizzazioni dell’archivio, ma soprattutto contro l’egemonia delle narrazioni della storia, della distribuzione del potere e del disciplinamento del dissenso.

Di immagini, spettacolarizzazione e cannibalizzazione, particolarmente nello scenario siriano, abbiamo discusso recentemente con Donatella Della Ratta, organizzatrice del workshop che si terrà alla John Cabot University e docente di Communications and Media Studies presso la stessa università statunitense a Roma. Donatella Della Ratta è stata ospite della TRU e del Centro Studi Postcoloniali e di Genere del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali (Università L’Orientale di Napoli) lo scorso aprile per un seminario sul suo libro di prossima uscita per Pluto Press, Shooting a Revolution: Visual Media and Warfare in Syria, e per una performance svoltasi presso L’Asilo, dedicata alla Siria e all’archivio personale di immagini della rivoluzione di Bassel Khartabil aka Safadi, attivista pacifista siriano, scomparso e poi morto nelle carceri siriane, parte attiva di quella comunità di arab geeks e techno-savies, che aveva contribuito a formare una cultura digitale in Siria e nel mondo arabo e a dare un contributo attivo agli effettivi sommovimenti sociali scoppiati nella regione tra il 2010 e il 2011.

 

Immagine dalla performance “L’immagine sparita”

 

Quello di cui Bassel Khartabil era un appassionato esponente era una forma di cultura digitale che nello scorso decennio ha travalicato i confini nazionali, riconnettendo gli arabi a diverse latitudini e contesti, in una dimensione collettiva e reticolare, accomunata in maniera sinergica e solidale (e le campagne per la liberazione dei mediattivisti detenuti ne sono ancora un esempio) da una visione della tecnologia come possibilità trasformativa della società: tecnologia significava tanto il simbolo della libertà di espressione quanto lo strumento attraverso cui conquistarla. Un’idea per cui le pratiche legate alla tecnologie digitali del curare, proporre contenuti, condividerli, erano e sono indistricabilmente legate a riconnettere il mondo dell’online con tutto quello che c’è fuori, il virtuale con le molteplici pratiche dell’attivismo sociale, in un’ottica che non ha nulla a che vedere con un determinismo tecnologico, ma che guarda a come l’ecologia e la pratica della cultura digitale (nei suoi molteplici aspetti, dal coding al blogging) possa avere informato un network di relazioni e sviluppato progetti per promuovere la libertà di espressione, di condivisione di informazioni, di coscienza dell’open source, e in definitiva, un cambiamento politico e sociale.

L’esplosione degli archivi digitali sembra poter riportare indietro tutto questo, rimostrando con vigore questa cultura dell’attivismo digitale, costretta negli ultimi anni a sopravvivere in uno scenario fagocitante, in cui sono diventati bulimici la produzione e il contenuto di immagini e visioni opposti e violenti, in cui i soggetti sono definiti e determinati dall’immagine, un’immagine violata che non è più rappresentazione, né tantomeno testimonianza, piuttosto è in antitesi di entrambi. Lo scenario attuale della produzione e circolazione delle immagini, particolarmente in Siria, sembra raccontarci di una dispersione, dissipazione e dissoluzione dei significati. In riposta a questo collasso, c’è però credo ancora una possibilità di interferenza, e di intervento, una risposta a queste forme di digital warfare e militarizzazione delle immagini.

Se è vero che la politica di testimonianza pubblica degli archivi digitali deve scontrarsi con la proliferazione di regimi visuali violenti e il fallimento dell’immagine-evidenza in favore dell’immagine indegna e non dignitosa, è nel lavoro con gli archivi, nella loro doppia intenzione, talvolta coincidente, di pratica documentaria ma anche creativa, che c’è una possibile strada per ridare operatività alle immagini, e ricostruire realtà e dimensioni di significato. Oggi, l’immagine della rivoluzione, già condannata all’estinzione perché forse lontana dai canoni di spreadability e di potenza riproduttiva, è sparita, insieme a chi questa rivoluzione l’ha tentata, cancellati virtualmente e fisicamente dalla sfera pubblica. Ma possiamo conservare una genuina, forse ingenua, credenza che negli interstizi ci sia una possibilità, come testimonia nonostante tutto questa forte politica attiva di resistenza contro l’uso mainstream delle immagini, guidato dal mercato dell’informazione e dall’ipertecnosocialità, e contro l’apparente irrefrenabilità delle immagini digitali di violenza, come per esempio il lavoro del collettivo di video-maker siriani Abounaddara ci racconta.

Certamente questo tipo di immagini altre e questi archivi operano in un circuito che viaggia ad un’altra velocità, forse non riuscendo ancora ad essere tanto effettivi quanto affettivi, o ad uscire dall’opacità, ma sono senza dubbio l’espressione dello sforzo di ricostruire i tasselli delle troppe “immagini mancanti”, e definire una nuova politica dell’immagine che strappi i soggetti a una visione voyeuristica, orientalista e compassionevole. Si tratta di un approccio vitale ed eticamente complesso, si tratta di scrivere una storia che si dispiega giorno per giorno, e di un modo per riportare quell’esplosione di energia scaturita con la rivoluzione nei diversi paesi, costruire una nuova temporalità, con le sue disgiunzioni e interruzioni, e con i suoi futuri possibili, tentando una reazione all’evacuazione del significato, e costruendo perciò un senso differente per questi nuovi archivi visuali e di memorie, per resistere alla vulnerabilità e all’obliterazione.

(Olga Solombrino)

Da Standing Rock alla Palestina: Facebook tra la solidarietà e la sorveglianza

Risultati immagini per standing rock palestine facebook
Artwork in solidarity with Standing Rock and the water protectors. (Leila Abdelrazaq)

“Arrived safely. PM me for your concerns. We’re gonna beat back the Feds! Solidarity always.”

We stand with Standing Rock. A queste parole si è accompagnato più o meno l’ondata virale di post e check-in su Facebook dei giorni scorsi. Pare che oltre un milione di persone abbiano infatti scelto di geo-localizzarsi pubblicamente nei pressi della riserva indiana di Standing Rock, nel North Dakota, Stati Uniti d’America. A scatenare la reazione globale è stato un post, la cui origine sembra essere difficile da decifrare ma che è transitato attraverso i canali Facebook della Standing Rock Indian Reserve, la comunità resistente Sioux che si oppone alla costruzione sul suo territorio dell’oleodotto (Dakota Access Pipeline). Nel post si faceva riferimento al fatto che le autorità e lo sceriffo della contea stavano utilizzando lo strumento check-in di Facebook, grazie al quale è possibile registrarsi ed essere registrati in qualsiasi posizione geografica, per monitorare, individuare e localizzare gli attivisti, in centinaia già arrestati durante gli scontri con la polizia. Perciò i “Water Protectors” hanno richiamato la comunità transnazionale di solidali, chiedendo di registrarsi lì e condividere pubblicamente la localizzazione, così da ingarbugliare il sistema e confondere le autorità di polizia, un’azione quindi concretamente utile a proteggere tutti coloro impegnati fisicamente in prima linea nella difesa del territorio e delle risorse.

Se e quanto un’operazione di questo tipo possa essere effettivamente utile all’obiettivo dichiarato sembrerebbe difficile da definire, ma potrebbe non essere in realtà l’aspetto più significativo di questo discorso; sarebbe più importante ragionare sui due aspetti intrecciati della questione, ovvero l’uso di Facebook come strumento di controllo, sorveglianza e indagine da parte delle autorità di polizia, dall’altro la possibilità – forse – di poter ricorrere allo stesso strumento in maniera sabotante per innescare meccanismi di solidarietà, più che di resistenza. È chiaro che gli attivisti in North Dakota sono per lo più preoccupati dal monitoraggio diretto che da quello virtuale, così come è chiaro che, se veramente Facebook è adoperato a questo scopo, non sarà difficile distinguere le localizzazioni reali e magari non pubblicizzate, da quelle da remoto di questi giorni. Tuttavia, nonostante lo sceriffo della contea di Morton abbia pubblicamente negato questa pratica di controllo digitale, l’utilizzo dei social media come strumento di intelligence non è certo una novità, e l’abbiamo visto negli Stati Uniti anche nei confronti degli attivisti del movimento Black Lives Matter.

“From Palestine to Standing Rock” banner (Photo: Haithem El-Zabri with creative help from PYM) Fonte: mondoweiss.net

L’esperienza di Standing Rock ci dà modo di ripensare in qualche modo quella dei Territori Occupati Palestinesi. Che i due territori e le due comunità siano legate a doppio filo dalla necessità di fronteggiare l’avidità di un potere che si manifesta nelle forme di un colonialismo di insediamento (settler colonialism) sempre in fase espansiva, simbolicamente rappresentato dallo strumento del Caterpillar, di cui ha parlato Léopold Lambert sul suo blog The Funambulist; e che non a caso la comunità palestinese abbia in questi giorni lanciato un appello di solidarietà con le comunità indigene in lotta, è una delle parti più interessanti di questa storia, e che di certo andrà approfondita altrove. Un legame che fa da esemplare cornice a come un potere di matrice coloniale usi anche la sfera digitale per incidere, affermarsi e invadere lo spazio, coniugando la finalità di appropriazione con la necessità di dominazione e sorveglianza.

Sappiamo forse poco di Standing Rock, sappiamo però di BLM, così come sappiamo che non è una pratica desueta quella dei servizi di intelligence israeliani di usare Facebook non solo per monitorare il dibattito interno palestinese, ma anche per riuscire ad ottenere delle informazioni. Nell’ottobre dello scorso anno, nel pieno delle manifestazioni e degli scontri tra giovani palestinesi e militari israeliani, si diffuse la notizia che Israele si stava servendo di finti account palestinesi (creati ad hoc e raffiguranti bandiere palestinesi come immagini di copertina, con testi scritti in arabo e numeri di telefono locali) per riuscire a scoprire i nomi e i numeri di telefono di coloro che prendevano parte agli scontri con le forze israeliane in Cisgiordania. Questa forma di intromissione porta ad un livello superiore quello che è ormai una strategia solida, quella per cui pagine e profili personali di personaggi in vista vengono chiuse per violazione delle regole di Facebook (segnalate dagli stessi account fake che sono stati creati), o che ha portato in giudizio palestinesi accusati di aver fomentato la violenza con i loro post su Facebook, adducendo come prove l’attività degli stessi sui social network. È evidente quanto per un governo ossessionato dalla paranoia e dalla sorveglianza, e quindi caratterizzato da un fortissimo investimento tecnologico e un grosso expertise nel settore della cybersecurity, ma soprattutto con il totale controllo delle infrastrutture di telecomunicazione su tutto il territorio (Gaza e Cisgiordania comprese, nonostante il servizio sia poi appaltato a società palestinesi – la situazione è descritta in maniera interessante nei lavori delle studiose Helga Tawil-Souri e Myriam Aouragh), il crescente utilizzo di Facebook anche da parte della comunità palestinese non ha fornito che il pretesto per l’introduzione di nuovi metodi e nuovi terreni dove esercitare il proprio controllo. Le agenzie di sicurezza israeliane considerano Facebook una sorta di “open source information”, dove recuperare informazioni senza dover essere a rischio sul campo, e pare che solo poche settimane fa il Ministro della Giustizia israeliano abbia incontrato i vertici dell’azienda di Facebook per coinvolgerli in una task force contro i contenuti che incitano alla violenza contro Israele. Dietro la superficie pacificata di un accordo in risposta ad hate speech ed istigazione della violenza, c’è dunque il malcelato tentativo di assumere una posizione asimmetrica e di esercizio repressivo in quello che è diventato in qualche modo l’ennesimo fronte, stavolta virtuale, di questo conflitto, e per tentare di arginare tra l’altro l’espansione della campagna BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), che proprio anche grazie alla rete di Internet si alimenta.

Illustrazione di Carlos Latuff (2016)

Certamente, quest’ultimo evento solleva anche un punto importante sul ruolo, le collaborazioni e le responsabilità di un’azienda proprietaria e tendente al monopolio come quella di Facebook, generando ulteriori interrogativi su cosa succede quando ad essere merce di scambio o di vendita non sono solo i big data. Nel caso palestinese però, è bene notare che Facebook non emerge che come la punta dell’iceberg di una pratica di controllo ben più stratificata, che passa come si accennava per la digital occupation, e cioè il controllo delle infrastrutture di telecomunicazioni, e si insinua anche attraverso quello che Adi Kuntsman e Rebecca Stein hanno chiamato digital militarism, quel processo per cui la cultura militarizzata della società israeliana penetra le politiche del quotidiano attraverso i social media, contribuendo tra l’altro a sedimentare una percezione derealizzata dei palestinesi, da parte militare e civile.

La situazione palestinese nella sua complessità, e quella di Standing Rock nella sua piccola ma simbolica esperienza di controllo digitale, devono quindi indurre a ragionare anche su scale un po’ più ampie, senza dover necessariamente però ricadere nell’idea che ogni tentativo di porre resistenza o seminare solidarietà debba risultare inquestionabilmente indebolito o vanificato. Se Facebook può agire come un motore di accelerazione, non costa nulla pensare che questo possa succedere a Standing Rock grazie ora ad una maggiore attenzione della comunità globale. In questo caso l’operazione di dirottamento e détournment operato dalla comunità solidale a Standing Rock, se forse non è del tutto incisiva allo scopo di depistare le presunte indagini della polizia, è riuscita però a forare la bolla e a dare un senso politico ad una funzione banale e abusata – quella della localizzazione, riappropriandosi – certo parzialmente – dello strumento di Facebook. Indubbiamente, la solidarietà non risiede in un tag o in un like, che possono risultare effimeri se non sostenuti da una più profonda, ed anche materiale, attività di supporto, ma se la possibilità che nuove narrazioni autonome emergano e trovino spazio nel caos della rete è ancora un nodo cruciale, e se localizzarsi può servire a diffondere informazioni e generare azioni di solidarietà, allora si fa importante contribuire alla loro diffusione, da Standing Rock alla Palestina.