Rappresentare il dolore, la pena e la povertà degli altri è sempre un compito delicato e complicato. La migrazione oggi, resa illegale dalla legislazione europea e spettacolarizzata dai media, è il caso più evidente. L’empatia è apparentemente generata solo quando l’anonimato dei corpi stranieri può essere individualizzato per essere raccontato. Poteri e relazioni strutturali più ampie sono solitamente allontanati dal racconto, ridotti a vaghi riconoscimenti. La storia richiede l’identificazione dell’individuo. O, almeno, questo è ciò che ci insegna la nostra cultura.
Tutto ciò è stato istituzionalizzato sia nella filosofia politica che nei romanzi che raccontano le nostre vite. Tuttavia, è una prospettiva che ci lascia con una povertà di spiegazioni e di comprensione. Nel recente film di Matteo Garrone, Io Capitano, incontriamo tali domande e problemi. Il viaggio di Seydou e del suo amico Moussa dal Senegal attraverso il Sahel e la Libia, e poi il Mediterraneo, è intensamente raccontato in tutti i suoi strazianti dettagli. Seydou, indotto dai suoi rapitori libici a guidare un barcone verso l’Europa, sperimenta tutte le remore morali della sua responsabilità. Nonostante tutto, riesce nella sua impresa. È un eroe e c’è un (temporaneo) lieto fine. Ma sappiamo che non è così. Oltre alle torture in Libia, questi migranti affrontano anche le condizioni di quasi schiavitù in Italia. Senza documenti e protezione, sono soggetti alla condizione di non avere il diritto di avere diritti. Il sogno europeo è spesso un incubo. Intrappolata in questi meccanismi, ulteriormente codificati e rafforzati dal razzismo strutturale, questa non è certo una narrazione che può essere facilmente trasmessa. Soprattutto, se siamo onesti, essa rivela la nostra responsabilità primaria nel racconto. Nel caso del film di Garrone, la costruzione dell’Africa come luogo di estrazione umana e materiale a beneficio dell’Occidente – dalla schiavitù e l’inizio della modernità atlantica ai metalli preziosi dei nostri gioielli e cellulari – riguarda in ultima analisi la costituzione coloniale del presente. Il migrante moderno non è solo un rifugiato economico o uno sgradito portatore di crisi, ma rappresenta piuttosto il ritorno di quella storia repressa.
Quindi, cosa sto dicendo? Il film di Garrone non avrebbe dovuto essere realizzato? È un fallimento politico ed etico (e quindi estetico)? Le cose non sono mai così semplici. La consolazione delle alternative binarie, persino del ragionamento dialettico, sfugge. Per il momento, siamo bloccati con la narrazione individualizzata, con scelte e orizzonti ridotti a una comprensione soggettiva del mondo che oscura forze più profonde e relazioni più ampie. Il trucco è lavorare su questa imposizione in modo tale da spingerci oltre questi parametri. La risposta umanista all’eroe migrante è insufficiente. Dopo tutto, ci conferma nella nostra formazione del sentimento, quella stessa formazione che ha prodotto il ‘migrante’ contemporaneo attraverso la nostra colonizzazione delle risorse umane e materiali del pianeta.
Non c’è una formula ovvia o un’alternativa pronta. Si tratta, pensando con il cinema, di un’estetica cinematografica che ci prepara a un’altra etica in cui la nostra posizione e il nostro punto di vista sono messi in discussione, interrotti, persino emarginati o aggirati. Il metodo non può che risiedere nella pratica cinematografica stessa.
Ho in mente due film che affrontano il percorso etico ed estetico proposto in Io Capitano. Uno è diretto nel suo stile ‘documentaristico’ come il film di Garrone: Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom. L’altro, di Abderrahmane Sissako, Aspettando la felicità (2002), suggerisce un modo poetico di riconfigurare le brutali imposizioni della modernità. Mi limito al film di Winterbottom, più vicino per stile e intenti a quello di Garrone, dove entrambi i registi europei affrontano l’alterità di altri mondi che la loro (mia) cultura ha inquadrato e ora punisce. Nel film In This World seguiamo due afghani, Jamal e Enayatullah, provenienti dal campo profughi di Shamshatoo, vicino a Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, mentre cercano di raggiungere Londra attraversando Iran, Kurdistan, Turchia, Italia e Francia. Enayatullah muore per soffocamento nel container che porta loro e altri migranti da Istanbul via mare a Trieste. Jamal alla fine riesce ad arrivare a Londra. La ruvida bellezza del paesaggio, la violenza dei confini e l’avidità dei trafficanti sono presenti in tutta la loro crudezza.
Anche il giovanissimo Jamal è un eroe semplicemente per essere sopravvissuto a tutte le avversità. Tuttavia, le relazioni sociali che si creano lungo il percorso, dalla vita familiare allargata a Peshawar alla solidarietà in Kurdistan e all’amicizia nella ‘giungla’ di Calais, ci fanno costantemente entrare in un mondo più ampio. Il singolo viaggiatore non è semplicemente parte della migrazione moderna: il campo di Peshawar è presentato all’inizio del film come il prodotto dell’aggressione prima sovietica e poi americana e alleata, dove sono state spesi quasi 8 miliardi di dollari nel 2001 per sganciare delle bombe sull’Afghanistan. Le brutali semplicità della geopolitica trasformano un’odissea personale in una riorganizzazione radicale delle mappe del mondo moderno: dal basso, dai margini, dal silenzio di altre storie. Anche la mia narrazione non riesce a marcare la differenza. Ciò che si nasconde nel linguaggio cinematografico è un eccesso che allude a qualcosa in più della spiegazione verbale. L’immagine contiene sempre un supplemento in più del semplice svolgimento del racconto. Lasciarla per così dire respirare, sottraendoci alla linearità della narrazione, dissemina una complessità in cui la poetica sostiene una politica più opaca ma profonda (lo stesso si può dire del film di Sissako).
Riflettendo sul film di Matteo Garrone, delle cui opere cinematografiche resto un ammiratore, sia l’idealizzazione della vita familiare in Senegal sia l’impeto incessante della narrazione che ci spinge verso il Mediterraneo e l’Europa ci negano quello spazio: le sue ambiguità e complessità. Le immagini sono drammatiche, i sentimenti ben intesi, ma la sua estetica resta bloccata da un’etica che ha il fiato corto, che non è disposta a scavare più a fondo e nemmeno a lasciare che il migrante abiti una storia e un mondo che non è semplicemente nostro da raccontare.
Chiaramente, non esiste una soluzione. Solo un viaggio critico perpetuo. Nel continuum coloniale del presente i nostri fallimenti, una volta riconosciuti e registrati, segnano ulteriori percorsi da perseguire.
These are simply some notes inspired by the critical sea-change induced by Paul’s The Black Atlantic. For, if Paul’s work crucially registers the racial constitution of the political economy, languages and institutions of the modern Atlantic world and the making of the West, it also does something more. It proposes a profound interrogation of what passes for history and knowledge, querying their grammar and interrogating their disciplining of the contemporary condition.
Fluid archives suspended in water sustain aquatic memories that connect bodies of water to bodies in the water: from the Black Atlantic to today’s Black Mediterranean. Registering the marine world as essential to the making of modernity—from slave ships and sea-borne empires to container logistics, the industrialised extraction of its resources (from fish to fossil fuels) and the centrality of inter-continental migration to the modern epoch—we encounter the brutal consistency of colonialism in the haunting racism that produces the violent grammar of inhospitality, today etched in the ‘hieroglyphics of the flesh’ (Hortense Spillers) on the body of the contemporary migrant.
Unlike linear chronologies and accredited histories, such rhythms and flows release the recursive dynamics of other inconclusive narratives entangled in indeterminacy and contingency. We find ourselves at sea, a little lost and uncertain beneath more expansive, wilder skies. A necessary reorientation interrupts and reworks the terra-centric Occidental template of historiography, sociology, and philosophy, puncturing their faith in rendering the world transparent to their will. It leads to what Denise Ferreira da Silva has called a moment of knowing contrary to modern knowledge, which she calls a ‘foreign language’ in her borrowing from Octavia Butler.
And then, diving deeper into the archive, we are taken through the plantations of the Americas, Manchester cotton factories and the Atlantic coast of Africa back to the eastern Mediterranean seaboard where Italian merchants in the Balkans and medieval Black Sea ports on the steppes purchase Slavs for the slave markets of Cairo and Genoa, Venice and Naples. (Along with the thousands of slaves sold yearly in the slave market of early fifteenth-century Venice, it has recently been researched that Leonardo da Vinci’s mother, Caterina, was an enslaved person, probably captured by Mongols in the Caucasus and sold to Venetians.)
From the Black Atlantic to the Black Mediterranean, seas of dispossession and un-belonging have constantly exposed colonial modernity’s political, juridical, and onto-epistemological limits. They promote a constant critique of the possessive liberal premises of Western democracy. Today, those on the water in their small boats and dinghies, the wretched of the sea, the damned of the Mediterranean, cannot source their identity in the nation-state’s territory. Justice fails. Without papers or documents to verify their liberty, they are captives: objects reduced to the anonymous juridical space once occupied by the enslaved. Without rights, they are without an acknowledged place in the world. Waste ‘in human shape’, to borrow the phrase that Paul used to refer to those who died in the Grenfell Tower fire in 2017.
As Sylvia Wynter’s noted unpacking of Occidental cosmology so effectively points out, this debasement, hierarchisation and othering of human life are central to the political constitution of the modern European nation-state and its appropriation of the planet. Meanwhile, the excluded and negated sustain black holes of concentrated historical and cultural energy that continue to exist and resist. Their persistence provokes the end of a particular historical and philosophical constellation and the inauguration of another. They dub modernity, cut up its languages, remix the coordinates, and exercise their rights to live in another present and here imagine an alternative, or counter, future. And this returns us to the Gramscian and Fanonian insistence, so eloquently pursued by Stuart Hall and Paul Gilroy, that the warp and woof of culture is the fundamental texture of political life.
As the form of subaltern life today most sharply identified by Occidental law, surveillance and public discourse, the “illegal migrant” (and who decided that?), her unauthorised practices and knowledge, constructed on the move, proposes a form of political hacking that exposes all the limits of a purported democracy and its concepts of freedom and citizenship. Other equations exist, constructed and codified in the multiplicity of other bodies that matter, not simply my own. We here find ourselves in far deeper waters, offshore, drifting away from the colonising imperative of the Occidental episteme and what Ruth Gilmore Wilson powerfully calls ‘vulnerability to premature death’.
Beyond Giorgio Agamben’s noted thesis of ‘bare life’, the migrant and many others propose the exceptional state that exposes the limits of European humanism and its custody of universal rights. We are taken to the edges of the abyss to venture beyond Agamben, and much of modern philosophy, for which philosophy is the West and the West is philosophy. For the migrant, the non-white body, even if mute and lifeless, strips away the political and philosophical paradigm of Europe. Her presence interrogates my authority in the world. This explains the fear and the violence of the response.
Today, the ‘autonomy’ of those practising all the difficulties of ‘freedom’, below and beyond the brutal confines of the nation-state, bends and breaks the established frontiers of identity and citizenship. The migrant, like indigenous resistance, non-white native life and the poor of the planet, reiterates Frantz Fanon’s request to demand human behaviour from the other. We, or I, am that other. Against the limited adjustments of multi-cultural liberalism, this evokes the further skies of a radical and planetary humanism so persistently pursued in Paul’s work that, as Aimé Césaire and Fanon insisted, is to be measured against the world, not merely Europe and the West.
So, this is not simply about histories from below or presumed peripheries reconfiguring the centres of power and their languages. On the contrary, introducing non-authorised coordinates, bodies, and lives forces us to acknowledge the violent denial that constitutes our present; that is, query the temporality and terminology of the inherited narrative and its institutional pedagogies. Rather than an adjustment through the recovery of the resistance and the refused, we confront a further radical undoing and reconfiguration of what we understand by terms such as history, documents, archives, testimony, genocide and memory as we ask who has the right to narrate, define, direct and explain… to have rights.
Myths of neutrality unwind and evaporate. In its place, the open and precarious practice of registration subverts the distancing logic and control of colonised representation.
This undoing of our usual understandings of time and space, history and geography, as they speak again and are folded into further accountings of life, place and death, produce what Paul in The Black Atlantic called a ‘rhizomorphic, fractal structure’ (4). Or, as Sun Ra put it, ‘Change your time to the unknown factor’. This is the mobile composition and altogether less guaranteed spacetime of what I would call quantum history. It is where the colonial clock is contested and interrupted by other times, by the temporalities, rhythms and pace of others.
I will now use the rest of my time deploying a language dear to all of Paul’s dauntingly erudite research and writing: music, to sound out the emergence of a contemporary Black Mediterranean. In different ways, we both understand music not as a simple illustration of historical processes seemingly occurring elsewhere or as a symptom of pre-existing cultural forces and relations but rather as a transforming and critical language in its own right.
Within it lies the deeper pursuit of displacing the ocular hegemony of white sight (Nicholas Mirzoeff) with subaltern, black sounds. Once again, challenging disciplinary borders so as not to propose the history or sociology of music, but music as history, as sociology. Not to think in the boring Kantian manner of music as an abstract object of study and seek to render sound transparent to universal knowledge, but to decompose that imposition by thinking with music as practice, process and proposition.
Mediterranean musicality permits us to travel in spaces and temporalities that precede and exceed the disciplinary logic and methodologies of the modern nation-state. They produce less linear understandings of spacetime and more stratified and ragged maps. These do not simply mirror a unique will to power. Sustained in sound, this critical opening muddies the illusory transparency of transcendental Occidental rationality.
In the gaps, sliding between the authorised notes, bending and distorting the dominant cultural arrangement so that other cultures and histories voice other Mediterraneans, reasoning is freed from the singular temporality of unilateral modernity. Instead, it leads to further understandings of the making and becoming of a Mediterranean lived otherwise.
Mediterranean blues, where the scales and alternative tonalities, drawn from Islam and the Arab and Ottoman worlds, from Africa and Asia, historically and culturally mingle with the sounds of the diasporas of the Black Atlantic. The hint of a cry (think of Arab song, flamenco, Neapolitan vocals, fado and rebetika), the nasal intonations, the dark, rough granular texture, the insistence on melisma rather than a distinct intonation, the voice on edge, close to breakdown, registers the body in the sounds of a distinctive Mediterranean musicality.
Consider the famous rebetika singer Rosa Eskenazi, a Turkish-speaking Sephardic Jew born in Istanbul and raised in Thessaloniki and Athens. Rosa perfected her art in the taverns of Piraeus, singing in Greek, Turkish, Arabic, Hebrew, Italian, Ladino and Armenian. At the height of her fame in the 1930s, she recorded in Athens and Istanbul. Her biography is only one of the multiple musical maps transmitted around the Mediterranean where to paraphrase Ralph Ellison; one loses one’s identity to find it.
Such sounds, their musical mixture and continual creolisation, allow us to think with music creating folds in time. Condensed in sound, in its contemporary performance, are sonic archives that interrupt the crushing institutionalisation of historical time and disturb the chronologies. To elaborate on a past to be registered, we confront what returns us to Paul’s ‘back to the future’. Like the presence of the contemporary migrant, such sounds reopen the violent archives of the colonial constitution of the present. Both disturb and interrogate a singular telling. More than a simple counter-narrative, these deeper histories propose the dispersion and undoing of the hegemonic premises that seek to fill in the details, frame the picture and conclude the story.
There is so much music I would love to play to sustain this argument on the ongoing composition of another Mediterranean spacetime. However, here I, too, remain trapped in the consequences of a linear order!
So, let’s experience this possibility just for a few minutes by listening to a piece of music sung in the most widely spoken language (in all of its variants and dialects) of the Mediterranean: Arabic. Here distinctions between high and popular culture fall away: The famous Egyptian singer Uum Kalthuum set modern poetry to music, then transmitted through the Arab world by radio and audio cassettes to a largely illiterate audience. And the music we are about to hear also sustains other historical echoes not distant from the European shore: flamenco, Neapolitan song, and re-betiko. We hear this in the shared minor keys and micro-tonalities of what today is a subaltern Mediterranean becoming black (Achille Mbembe).
To listen to the Palestinian singer and ‘ud player Kamilya Jubran and the constant return of never the same sung over improvised patterns on her ‘ud (the instrument of philosophy), we hear an aesthetics that sustains ethics, its poetics, a politics. We are invited to re-orientate understandings and confront a more complex and open reception of the formation of a modernity that is never merely mine, ours, or yours.
Qawafel
To draw a phrase from The Black Atlantic and conclude: what we have just heard engages us with ‘an enhanced mode of communication beyond the petty power of words…’ (p.76).
This requires listening and learning from a new set of genuinely trans-disciplinary and historical coordinates sustained by a sociology of the imagination, quantum history, ‘the fictive work of theory’ (Katherine McKittrick), and the ‘force of black speculative vision and practice’ (Jayna Brown). All of which are amplified in Paul’s writing and research. The illusory guarantees of theoretical architectures dependent on accumulative linearity, the universalisation of their premises, and the violence of their exercise are pushed out of joint. We are encouraged to step outside, contest control, escape… listen… respond… dance… and while seeking with Jimi Hendrix to kiss the sky, become accountable for the always incomplete, even incomprehensible, composition of another spacetime.
In Arcipelago Palestina (Mimesis, 2018), Olga Solombrino risponde, nelle parole di Iain Chambers, ‘alla domanda di come essere oggi palestinese in un mondo che nega i diritti di esistere’, dove ‘la diaspora fisica e reale in cui tanti palestinesi vivono – dai campi in Libano, Siria e Giordania alle vite quotidiane negli Stati Uniti …si intreccia con i territori immateriali sostenuti dalle reti digitali.’ L’ ‘Arcipelago Palestina’ include le ‘isole dei Territori Occupati’ e le ‘comunità disperse per il mondo, rispecchiate, estese e rielaborate a loro volta negli arcipelaghi digitali di Internet’. Per Chambers, ‘anche questo è un laboratorio della modernità, dove si sperimenta l’esperienza di appartenenza senza un territorio materiale saldato nel suolo (riproducendo, in un paradosso storico crudele, la condizione millenaria ebraica).’ Buona lettura!
La questione palestinese non è una questione locale, confinata nella geopolitica del Mediterraneo orientale. Si tratta di un laboratorio della modernità; una sfida al senso che vogliamo dare al mondo contemporaneo. Ci si trova davanti alla resistenza e al rifiuto di una modernità unilateralmente imposta dalla violenza, in cui chiaramente si arriva ad affrontare la costituzione coloniale del presente nella politica di insediamento dello stato d’Israele. Il rifiuto di scomparire, e di insistere sul proprio diritto a esistere, fa della Palestina una questione che investe il senso storico e politico del presente. La storia degli sconfitti, raccolta e custodita nella sopravvivenza di vite e culture che sfuggono dalla narrazione dei vincitori, fa della Storia dominante una rovina. Dai detriti dall’edificio occidentale, che continua a presentarsi come l’unico archivio autorizzato della modernità, emergono delle domande a cui esso non può e non vuole rispondere. Nella famosa immagine di Walter Benjamin, lo ‘spazzolare la storia contropelo’ fa saltare il suo presunto continuum. A questo punto, altre storie – quelle subalterne e rimosse – vengono registrate e circolano, interrompendo la narrazione, creando uno spazio critico emergente dove viene rivalutata la storia che ci ha portato fin qui. Questo testo bello e incisivo di Olga Solombrino ci invita a costruire e occupare questo spazio.
Con la morte annunciata nei titoli dei giornali – dagli annegamenti nel Mediterraneo alle sparatorie razziali nelle città d’America alla sorveglianza violenta dei territori e delle vite in Palestina – tutti i limiti e le ipocrisie dell’economia morale dell’Occidente vengono continuamente esposti. Il nemico, invariabilmente non europeo, non bianco e non cristiano, fondamentalmente queer rispetto alla normativa, viene immediatamente identificato ed esternalizzato. Questi sono i limiti di una storia precisa e delle sue strutture di potere, che rivelano responsabilità politiche e critiche per quei processi che hanno disegnato il mondo d’oggi. Ma svelano, nell’opposizione al loro esercizio, anche i linguaggi e le pratiche insurrezionali, che emergono dai diversi sud del pianeta: dalle lotte anticoloniali in Asia e in Africa alle voci di Frantz Fanon, James Baldwin e le Pantere Nere, dalla Palestina all’Irlanda del Nord, dalle lotte indigene in America Latina e India alle lotte ecologiche ovunque. Questo fronte ampio e intrecciato, saldato in prospettive planetarie, se evidenzia immediatamente una portata politica, ha anche un’importanza epistemologica fondamentale. Espone l’edificio della ragione occidentale e le sue istituzioni a domande insospettate. Rende le loro pretese universali del tutto più precise e localizzabili nel tempo e nello spazio.
È a questo punto che la natura stessa della memoria istituzionale dev’essere radicalmente ripensata, per rompere la gabbia che cerca a confinare e disciplinare le memorie in modo che rispecchino una versione unica del passato-presente. Mescolare ciò che una volta era escluso e separato – per esempio, la cultura europea e araba (o cristianesimo e islam) nelle fluidità storiche del Mediterraneo, o toccare l’accumulo di vita e morte sull’isola di Lampedusa o in Palestina – significa costruire degli archivi che espongono drammaticamente le pretese coloniali della modernità, in cui tanti esseri umani sono resi “esterni alla categoria degli umani”[1]. Se gli archivi istituzionali, come l’odierno Israele, sono laboratori dei meccanismi colonizzatori della modernità che murano e racchiudono il mondo, catalogano e definiscono i suoi contenuti, rendendoli ricordi asserviti alla sua logica e al suo linguaggio, essi non possono comunque sfuggire all’interpretazione, alla contestazione, al rimontaggio. Sherene Seikaly ha espresso con forza questa possibilità:
Nelle sottili intersezioni tra memoria popolare e pratiche archivistiche giacciono le storie che le persone raccontano per dare un senso al quotidiano. Tessono queste storie per plasmare il presente, costruire legami con il passato e rivendicare interessi per il futuro. Attingono alle continuità. Distinguono le rotture. Assistono a quel pozzo di possibilità e pericolo che è la contingenza storica. Vagliano attraverso la ripetizione per identificare il singolare, il nuovo. E costruiscono e nutrono un archivio: uno che tiene traccia della colonizzazione e custodisce la volontà di decolonizzare. Gaza oggi, nelle sue continuità e nelle sue rotture, è un’istanza dell’archivio che è la condizione palestinese.[2]
Per sfuggire al mondo coloniale è necessario strappare con forza la sua logica. Non è una scelta morale presa in un campo neutrale di antagonismi eguali, come vorrebbe suggerire una logica liberale, sia che si parli dell’Algeria ieri o della Palestina oggi. È una necessità storica dettata dalla schiacciante disparità di potere e forza prodotta dalla condizione coloniale. Non si tratta di scegliere di sostenere Hamas a Gaza, ma piuttosto di capire la produzione coloniale di quella situazione in cui qualsiasi forma di resistenza e rifiuto può acquisire potere solo attraverso la violenta insistenza di esistere e di essere. Come ci ha insegnato Frantz Fanon, questo significa procedere criticamente oltre la struttura umanistica esistente, che riduce tutto alla moralità astratta degli ‘esseri umani’ proprio nel punto in cui alcuni sono considerati più ‘umani’ degli altri (gli anonimi colonizzati e subordinati che sono semplicemente nativi, indigeni, neri, arabi, palestinesi…).
Si tratta, come detto, di una questione planetaria, articolata tramite numerose azioni che uniscono situazioni locali con scenari globali. Basti pensare alla continua spoliazione della natura con l’incessante trasformazione della terra in proprietà private per arrivare a brevettare le conoscenze e le pratiche agro-medicinali locali da vendere nel mercato, alle guerre in Congo per le materie prime essenziali per la produzione di telefoni cellulari, all’organizzazione globale dell’agricoltura e delle risorse per i bisogni del Primo Mondo, alle pratiche infinite di appropriazione violenta perseguita da Israele in Palestina, alla discriminazione razzista e lo sfruttamento del lavoro e delle vite ovunque. Queste sono le gerarchie violente stabilite dal capitalismo nella formazione della modernità occidentale, oggi globalizzata attraverso i protocolli neoliberali, che deliberatamente ignorano un mondo del tutto più ampio e diversificato nel perseguimento del proprio benessere, ‘libertà’ e sicurezza. Questo è il colonialismo. È anche il frutto storico avvelenato del liberalismo che ha giustificato l’estensione globale del governo europeo, del genocidio, della schiavitù e dell’apartheid. Entrambi sono storicamente e culturalmente essenziali per l’economia politica del presente.
Il potere di mappare e modellare il mondo in questa maniera svela l’architettura del potere: non si tratta mai semplicemente dell’utilizzo di un linguaggio tecnico, neutro o ‘scientifico’. Nelle zone di confine, come quella tra Israele e i Territori Occupati, una serie di pratiche militarizzate oggi portano a ciò che Eyal Weizman chiama un “laboratorio dell’estremo” che, a sua volta, produce la “morfologia dinamica della frontiera”[3]. Il territorio, continua Weizman, non è mai piatto come una mappa, ma striato sotto i nostri piedi (falde acquifere, diritti terrestri) e sopra le nostre teste (corridoi aerei, onde elettromagnetiche piene di segnali radio, reti di telefonia cellulare, posizionamento GPS, comunicazioni a banda larga). Con Ilan Pappé, che identifica in Israele una colonia di insediamento che priva la popolazione locale della Palestina attraverso un regime di apartheid, si arriva a una realtà che si rivela essere esemplare piuttosto che eccezionale[4].
Qui si tocca il cuore imperiale dell’Occidente e il disagio di altre società coloniali di insediamento – pensiamo agli Stati Uniti (o all’Australia, alla Nuova Zelanda e al Canada) – che dovrebbero condannare le stesse pratiche che hanno garantito la loro sovranità. Nel frattempo, procedure analoghe incidono sul Mediterraneo, nello stesso modo in cui si pattuglia il confine tra gli Stati Uniti e Messico. Le mappe sono multiple, simultaneamente verticali e orizzontali. Producono una matrice tridimensionale continuamente mutante. Distinzioni flessibili e mobili sostengono linee invisibili e zone mutevoli di territorio materiale e immateriale, di lavoro da sfruttare e ricchezza da estrarre. Poiché le frontiere distinte scivolano in zone di confine oscillanti, non sono mai semplicemente fisiche o statiche. Sono istanze di autorità piuttosto flessibili che sostengono la produzione continua di paesaggi interconnessi. La modalità di controllo assunta per estendere dal centro verso la periferia l’imposizione di un potere unico lascia ora il posto alla flessibilità di una gestione molecolare complessivamente più diffusa.
Dalla brutalità materiale della colonizzazione costante delle storie e delle vite palestinesi emerge la sfida di costruire un senso di appartenenza tramite cui rimettere in moto tale archivio per produrre territori e narrazioni in grado di sfuggire dal dispositivo coloniale. Se Israele è diventato un laboratorio della modernità per i vincitori – in cui si perfeziona la tecnologia della guerra e della sorveglianza e i dipartimenti di polizia americani ricevono istruzioni già sperimentate e aggiornate – anche la sopravvivenza della Palestina continua a sfidare la prospettiva di una modernità unica che rispecchia solamente coloro in grado di imporsi. Nel rispondere alla domanda di come essere oggi palestinese in un mondo che nega i diritti di esistere, ci troviamo di fronte alla diaspora fisica e reale in cui tanti palestinesi vivono – dai campi in Libano, Siria e Giordania alle vite quotidiane negli Stati Uniti – e che si intreccia con i territori immateriali sostenuti dalle reti digitali. L’arcipelago dell’appartenenza palestinese, sia nelle isole dei Territori Occupati, sia nelle comunità disperse per il mondo, è rispecchiato, esteso e rielaborato negli arcipelaghi digitali di Internet. Anche questo è un laboratorio della modernità, dove si sperimenta l’esperienza di appartenenza senza un territorio materiale saldato nel suolo (riproducendo, in un paradosso storico crudele, la condizione millenaria ebraica).
Le linee di fuga sostenute dai collegamenti digitali (a loro volta sostenuti dai numeri hindi e il senso di zero, trasmessi e conosciuti da noi come numeri arabi, su cui questo linguaggio si regge) riconsegnano il diritto transitorio di narrare. Le comunità virtuali sostengono anche altri immaginari che riescono a sfuggire alla cattura in una logica esclusivamente acritica e consensuale. L’instabilità dei processi che modellano lo spazio-tempo sempre più diasporico e deterritorializzato rende tutto potenzialmente parte di una sfera pubblica accelerata e frantumata. Il lavoro critico sta nell’assemblare i pezzi, esplorare i nodi, tracciare i collegamenti, in modo che le molteplici versioni non autorizzate della modernità continuino a incidere sulla narrazione di un mondo ancora, nonostante tutto, in costruzione. Come questo volume mostra in maniera acuta, interrogare questo scenario significa rompere quella linearità cronologica che riporta la scomparsa della Palestina dalle mappe e dai discorsi di una storia concepita esclusivamente come la parabola dell’Occidente e dalle sue istituzioni di saperi-poteri. Elaborare altre mappe, dove le storie rimosse e negate tracciano dei percorsi che si snodano nelle vie digitali, significa raddoppiare, piegare ed estendere le possibilità della modernità, portandola ben oltre i limiti e le frontiere che cercano di inquadrarla e controllarla.
Riaprire l’archivio, e toccare la costituzione coloniale del presente significa ovviamente non solo parlare criticamente di Israele, ma anche dello stesso Occidente, in cui criticare e affrontare Israele e i suoi crimini contro l’umanità significa affrontare noi stessi, congelati dal giusto senso di colpa storica per lo Shoah, che blocca ancora qualsiasi critica della politica coloniale dello stato di Israele per paura dell’accusa di antisemitismo. Riconoscere che la questione palestinese non è semplicemente una questione geopolitica, o quella dei diritti negati di un popolo, ma è storicamente e politicamente una responsabilità europea, richiede di affrontare uno dei tanti scarti e residui di una storia imposta e sostenuta dalla violenza dell’Occidente. In questa mondializzazione della questione (il lato oscuro della globalizzazione non ridotto solamente alla piatta metafisica del ‘mercato’) la geografia virtuale dell’arcipelago palestinese sfida e sopravvive alla geografia attuale per cui la Palestina ormai non esiste (vedi Google e Apple Maps). Il mondo disegnato sulla carta di ieri e sullo schermo piatto del computer di oggi è perforata, tagliata e interrotta da altre traiettorie. In questa ri-elaborazione in un mondo né omogeneo né a un’unica direzione, i linguaggi dell’appartenenza acquistano una potenza poetica – quell’eccesso che ci porta fuori delle mappe consuete per confutare la brutalità della razionalità che chiude tutte le porte sul futuro tranne la sua – dove si inizia a coltivare un’altra politica.